NUMERO 263 -PAGINA 3 - PASSAGGI PER CAPIRE MEGLIO IL FUTURO PROSSIMO
















































Di sicuro i sondaggisti si aspettavano un maggior tasso di astensione da parte della lost generation e sono rimasti sorpresi e volendo avventurarsi nel mondo dei numeri si può addirittura raffrontare il tasso di astensione degli under 35 con il tasso di disoccupazione anche se riferito solo ai giovani tra i 18 e i 29 anni, ebbene l'ultimo dato disponibile riferito al primo trimestre 2015 ci dà 32% contro un'astensione — che come già detto — si è fermata tra il 28 e il 30%. Si è votato più di quanto si riesca a lavorare.

Dario di Vico


Secondo i dati dell'Indagine europea sulle condizioni di vita, in Italia soffre di grave deprivazione materiale (un indicatore molto vicino a quello della povertà assoluta) il 15,7% degli individui che sono gli unici percettori di reddito in famiglia e l'11,8% dei lavoratori dipendenti. Inoltre il 52% dei primi e il 39,8% dei secondi non riuscirebbe a sostenere una spesa imprevista di 800 euro.

Chiara Saraceno


C'è da dire anche che un'altra conseguenza indesiderata della diffusione globale di Internet e dei social media è che la natura nuda e cruda di queste disuguaglianze è molto più evidente che in passato.
(...) E visto che ormai nell'Africa subsahariana sono più numerose le persone con un telefono che quelle che hanno accesso ad acqua pulita, fra non molto significherà che quasi nessuno, nel nostro pianeta sempre più affollato, potrà sfuggire alla disuguaglianza.

Stephen Hawking


Con le risorse sempre più concentrate nelle mani di pochi, dovremo imparare a condividere molto più di quanto facciamo adesso.
Non stanno scomparendo solo posti di lavoro, ma interi settori, e dobbiamo aiutare le persone a riqualificarsi per un nuovo mondo, e sostenerle finanziariamente mentre lo fanno. Se le comunità e le economie non riescono a sopportare gli attuali livelli di immigrazione, dobbiamo fare di più per incoraggiare lo sviluppo globale, perché è l'unico modo per convincere milioni di migranti a cercare un futuro nel loro Paese.

Stephen Hawking

























































La generazione perduta almeno per un giorno sembra essersi ritrovata e ha scelto di partecipa -re. Le analisi del day after si sono incentrate sui riflessi politici del voto referenda rio ed é giusto che sia così
ma dal punto di vista sociologico la notizia è questa. Per la prima volta i giovani han no contribuito fortemente a determina re un risultato elettorale e in questo modo si sono quantomeno candidati a diventare un nuovo baricentro del consenso.
Non è una novità da poco per una generazione che non ha una sua rappresentanza né tanto meno un sindacato e che resta abbondantemente esclusa dal mercato del lavoro. Tanto da configurarsi come lo zoccolo duro della disuguaglianza italiana. Facciamo però il classico passo indietro e partiamo dai dati che gli esperti di demoscopia stanno elaborando in queste ore: analizzando i comportamenti dei giovani dai 18 ai 35 anni la percentuale di chi si è astenuto vale il 28-30%, i Sì possono essere pesati attorno al 23-25% e i No invece arrivano a una quota oscillante tra il 47-48%. La vittoria degli antireferendari è stata dunque schiacciante ma al di là del risultato contingente è l'elemento di partecipazione — forse sarebbe meglio dire di autoinclusione — che va valorizzato e sul quale è giusto investire.
È un segnale forte che non deve essere piegato a mere ragioni di partito o di schieramento. La generazione che paga l'esclusione dal lavoro persino con l'indebolimento del carattere ha scelto l'urna per palesarsi e anche chi (il Pd) nella circostanza è stato penalizzato dalla scelta della maggioranza degli under 35 non può non guardare con favore alla novità. Pure se nella circostanza ha affossato «le riforme».
E' chiaro che la partecipazione dei giovani






Il paese è fermo, i segnali di ripresa ancora molto timidi e incerti. In compenso le disuguaglia nze sono in aumento: tra ricchi e poveri, tra giovani e anzia ni, tra chi ha più figli e chi non ne ha, tra territori.
L'Italia si colloca così tra i paesi più diseguali all'in-
-terno dell'Unione Europea. Non solo, si consolida il fenomeno della povertà nonostante il lavoro, specie su base famigliare. Perché un solo reddito da lavoro non basta per una famiglia, specie se numerosa, se è molto modesto o precario. Secondo i dati dell'Indagine europea sulle condizioni di vita, in Italia soffre di grave deprivazione materiale (un indicatore molto vicino a quello della povertà assoluta) il 15,7% degli individui che sono gli unici percettori di reddito in famiglia e l'11,8% dei lavoratori dipendenti. Inoltre il 52% dei primi e il 39,8% dei secondi non riuscirebbe a sostenere una spesa imprevista di 800 euro.

C'è probabilmente un nesso tra grado, e aumento, non solo della povertà, ma della disuguaglianza e difficoltà ad uscire dalla crisi. È la pervasività della seconda a comprimere, se non soffocare, le energie, le risorse di capitale umano e sociale, inclusa la fiducia, che sarebbero necessarie per evitare la spirale discendente della crisi, come ormai da tempo segnalano anche istituzioni non sospette di populismo o estremismo di sinistra come l'Ocse o la Banca mondiale. Le politiche messe in atto in questi anni nel nostro paese non sembrano state efficaci né nel rilanciare l'economia, né nel ridurre le disuguaglianze.

Non è solo un problema di risorse scarse, ma di scelte politiche. Basti pensare che da tempo il Mezzogiorno è praticamente sparito dall'agenda politica, nonostante un progressivo aumento del divario




(...)L'elettorato britannico ha deci so di uscire dal -l'Unione Europea, i cittadini americani hanno scelto Do -nald Trump come prossimo presiden te. (...)Qualunque
          cosa possiamo pensare



Complessivamente, quindi, viviamo in un mondo in cui la disuguaglianza finanziaria si sta allargando invece di ridursi, e in cui molte persone rischiano di veder scomparire non soltanto il loro tenore di vita, ma la possibilità stessa di guadagnarsi da vivere.
Non c'è da stupirsi che cerchino un nuovo sistema, e Trump e la Brexit possono dare l'impressione di offrirlo.

C'è da dire anche che un'altra conseguenza indesiderata della diffusione globale di Internet e dei social media è che la natura nuda e cruda di queste disuguaglianze è molto più evidente che in passato.
(...) E visto che ormai nell'Africa subsahariana sono più numerose le persone con un telefono che quelle che hanno accesso ad acqua pulita, fra non molto significherà che quasi nessuno, nel nostro pianeta sempre più affollato, potrà sfuggire alla disuguaglianza.
Le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti: i poveri delle aree rurali affluiscono nelle città spinti dalla speranza, ammassan dosi nelle baraccopoli.
E poi spesso, quando scoprono che il nirvana promesso da Instagram

























































































di queste decisioni, non c'è alcun dubbio, nella mente dei commentatori, che siamo di fronte a un grido di rabbia da parte di persone che si sono sentite abbandonate dai loro leader.
Tutti sembrano d'accordo nel dire che è stato il momento in cui i dimenticati hanno parlato, trovando la voce per rigettare il consiglio e la guida degli esperti e delle élite di ogni latitudine.

(...) Quello che conta adesso, molto più delle vittorie della Brexit e di Trump, è come reagiranno le élite. Dovremmo, a nostra volta, rigettare questi risultati elettorali liquidandoli come sfoghi di un populismo grossolano che non tiene in considerazione i fatti, e cercare di aggirare o circoscrivere le scelte che rappresentano? A mio parere sarebbe un terribile errore.

Le inquietudini che sono alla base di questi risultati







































































































































































































































































































































































































































































è stata favorita domenica scorsa dal format elettorale semplificato — Sì o No — che ha evitato agli elettori meno collaudati di perdersi nei dettagli dei programmi di partito e nella individuazione del candidato giusto. Di conseguenza non è affatto detto che questo fenomeno debba necessariamente ripetersi alle prossime Politiche ma non per questo il segnale va ignorato. A cominciare dal tentativo di capire l'interazione profonda che si è stabilita tra mondo giovanile e Rete. È stato già detto come il web sia diventato una forma di rappresentanza sui generis degli under 35, una modalità profondamente differente dal passato che ha il vantaggio per chi la usa di far arrivare ovunque la sua opinione e per chi la studia di poter essere tracciata culturalmente. La Rete anche nelle sue manifestazioni meno edificanti — all'insegna dell'antropologia negativa — è comunque un'esperienza di società aperta che si manifesta in un contesto che non riesce a garantire mobilità ricambio.
In questa chiave sarà





































































































































































































interessante indagare se c'è un rapporto causa-effetto tra la frequentazione assidua di blog e community e la decisione di usare l'urna elettorale. Di sicuro i sondaggisti si aspettavano un maggior tasso di astensione da parte della lost generation e sono rimasti sorpresi e volendo avventurarsi nel mondo dei numeri si può addirittura raffrontare il tasso di astensione degli under 35 con il tasso di disoccupazione anche se riferito solo ai giovani tra i 18 e i 29 anni, ebbene l'ultimo dato disponibile riferito al primo trimestre 2015 ci dà 32% contro un'astensione — che come già detto — si è fermata tra il 28 e il 30%. Si è votato più di quanto si riesca a lavorare.
È chiaro che nel rapporto tra giovani e politica non si può ignorare la mediazione del Movimento 5 Stelle, l'unica offerta politica italiana «non anzianista» e che infatti miete consensi tra gli under 35. Tra i giovani esclusi, la Rete e i grillini si è creato un gioco degli specchi che fa rimbalzare la frustrazione e il rancore sociale dovuti all'apartheid lavorativa e li riveste con la critica della modernità, vero filo conduttore dei comizi di Beppe Grillo. Interrompere questo flusso di opinioni e questa produzione di egemonia non sarà facile per nessuno ma la rincorsa populista all'insegna del «dagli alla Casta» non si è rivelata un'arma vincente. A chi ha dimostrato, votando, di non voler aggiungere autoesclusione al disagio esistenziale va offerta una chance. Il riformismo si legittima così.

Dario di Vico









































































































































































rispetto al resto del paese in tutti i settori, come ha documentato, tra gli altri, Gianfranco Viesti, salvo un'affannosa rincorsa di stampo elettoralistico negli ultimi mesi. L'occupazione femminile, indispensabile per fare aumentare i redditi famigliari oltre che per l'autonomia economica delle donne, è rimasta ferma e le politiche di conciliazione lavoro-famiglia sono pressoché un'araba fenice. A parte i bonus per i nuovi nati, non c'è alcuna strategia per sostenere effettivamente il reddito delle famiglie con figli, specie numerose, che hanno visto aumentare l'incidenza della povertà assoluta e della deprivazione grave. I minori e i giovani fino a 34 anni costituiscono più della metà di tutti i poveri assoluti (gli anziani circa un ottavo), ma continuano a rimanere ai margini sia delle politiche redistributive sia di quelle di investimento sociale. A fronte di questi dati, mi sembra improprio interpretare l'esito del referendum, specie tra i giovani e nel Mezzogiorno, solo in chiave di populismo. Al di là del merito della riforma costituzionale, è stata anche una bocciatura di scelte politiche che da cui si sono visti nel peggiore dei casi danneggiati, nel migliore trascurati, non messi a fuoco nelle proprie condizioni reali.

Chiara Saraceno



elettorali e che concernono le conseguenze economi che della globalizzazione e dell'accelerazione del pro gresso tecnologico sono assolutamente comprensi -bili.

L'automatizzazione delle fabbriche ha già decimato l'occupazione nell'industria tradizionale e l'ascesa dell'intelligenza artificiale probabilmente allargherà questa distruzione di posti di lavoro anche alle classi medie, lasciando in vita solo i lavori di assistenza personale, i ruoli più creativi o le mansioni di supervisione.

Tutto questo a sua volta accelererà la disuguaglianza economica, che già si sta allargando in tutto il mondo. Internet, e le piattaforme che rende possibili, consentono a gruppi molto ristretti di persone di ricavare profitti enormi con un numero di dipendenti ridottissimo.

È inevitabile, è il progresso: ma è anche socialmente distruttivo.
Tutto questo va affiancato al crac finanziario, che ha rivelato a tutti che un numero ristrettissimo di individui che lavorano nel settore finanziario possono accumulare compensi smisurati, mentre tutti gli altri fanno da garanti e si accollano i costi quando la loro avidità ci conduce alla deriva.






non è disponibile là, lo cercano in altri Paesi, andando a ingrossare le fila sempre più nutrite dei migranti economici in cerca di una vita migliore.
Questi migranti a loro volta mettono sotto pressione le infrastrutture e le economie dei Paesi in cui arrivano, minando la tolleranza e alimentando ancora di più il populismo politico.

(...) Con le risorse sempre più concentrate nelle mani di pochi, dovremo imparare a condividere molto più di quanto facciamo adesso.
Non stanno scomparendo solo posti di lavoro, ma interi settori, e dobbiamo aiutare le persone a riqualificarsi per un nuovo mondo, e sostenerle finanziariamente mentre lo fanno. Se le comunità e le economie non riescono a sopportare gli attuali livelli di immigrazione, dobbiamo fare di più per incoraggiare lo sviluppo globale, perché è l'unico modo per convincere milioni di migranti a cercare un futuro nel loro Paese.

Possiamo riuscirci, io sono di un ottimismo sfrenato sulle sorti della mia specie: ma sarà necessario che le élite, da Londra a Harvard, da Cambridge a Hollywood, imparino le lezioni di quest'ultimo anno. Che imparino, soprattutto, una certa umiltà.

Stephen Hawking, fisico teorico e scrittore. Traduzione di Fabio Galimberti)
© The Guardian 2016