NUMERO9 252 - PAGINA 2 - LA LEZIONE DI FIRENZE











































Firenze 1966: si celebrano gli angeli del fango
per non parlare di quel che poi non s'é fatto.




Ma non é stato così dappertutto.

































LE REGOLE DELLA NATURA
Ugo Leone
Cinquanta anni sono molti. Tanti, da interferire nella storia dei luoghi, modificandone anche radicalmente le caratteristiche. E di farlo non solo, come purtroppo spesso avviene, imbruttendo il paesaggio ed esponendo a rischio le aree in cui si interviene, ma anche, al contrario, mettendolo in sicurezza il territorio per evitare che le sciagure che vi si sono abbattute si ripetano.
E cinquanta sono gli anni passati da quando, fra il 3 e 4 novembre 1966, un'eccezionale ondata di maltempo giudicata “uno dei più gravi eventi alluvionali accaduti in Italia” si abbattè sull'intero bacino idrografico dell'Arno allagando drammaticamente Firenze.



È così che vanno le cose anno dopo anno. Anche se dal 1989 con il varo della legge n.183, si è provveduto ad individuare e perimetrare le aree a rischio idrogeologico e ad individuare le misure di salvaguardia di persone e beni materiali e i programmi di interventi urgenti per la riduzione di questo rischio. L'analisi ha consentito di concentrarsi su 11.468 aree a rischio idrogeologico molto elevato che interessano il territorio di 2.875 comuni (oltre un quarto dei comuni italiani) in tutte le regioni.
Ai primi tre posti sono la Valle d'Aosta con il 20 per cento



Eravamo decisamente ingenui, credevamo ancora nella cicogna: le alluvioni avvengono perché «piove troppo». Poi ci saremmo (un po') svegliati col '68. Ce lo avevano insegnato a scuola ed era la verità del «potere costituito». A scuola ci insegnavano, materia d'esame, che le bonifiche erano qualcosa di differente dall'irrigazione delle campagne e dallo sviluppo industriale.
Epperò quando io ragazzino delle elementari accompagnavo il «signor Bonacina» un metalmeccanico della Caproni che andava a caccia di «allodole di passo» sui ghiaioni del fiume Brembo, avevo visto tutta una serie di scavi, muri a secco, opere strane lungo il fiume di cui non capivo il senso: ma sono matti –mi chiedevo- a costruire muri dove può scorrere il fiume!?

Tornando a botta, il ricordo di tutti gli strani manufatti incontrati sui ghiaioni del fiume Brembo mi indussero negli anni di scuola a cercare notizie  su quel tratto di fiume, scoprendo così tutto il mondo delle bonifiche che partivano dalle dighe in alta montagna - e in questo erano collegate con lo sviluppo industriale della bergamasca- fino a certe arginazioni esistenti nel fiume e alle opere di presa delle rogge sulle sponde. Ne ricordo benissimo tre. Due «filaresse» sul Brembo.La filaressa era una diga di tronchi piantati verticali nel letto a cui si aggiungevano tronchi orizzontali in modo da alzare il livello dell'acqua per farla affluire nella roggia di derivazione.  Un relitto stava dentro il fiume all'altezza del cassone della monnezza di viale Lungobrembo: allora la mulattiera per Ponte san Pietro e la Gabulera passava poco più alta del fiume. Questa filaressa serviva a deviare le acque del fiume nella roggia Curnina prima della costruzione della diga di Ponte san Pietro. Un'altra era la «filaressa» della roggia Masnada ed era piazzata sulla sponda destra a monte dell'attuale cantiere Vitali. La terza presa esiste ancora nel boschetto lungofiume presso casa Foresti alla Roncola.
Questa presa é un'opera muraria -anno 1300 circa- con quattro bocche che permettevano una derivano controllata delle acque del fiume per portarle nelle campagne di Osio Boltiere fino a Pontirolo e Treviglio.
La struttura era fatta per ospitare giorno e notte un addetto ed era dotata di camino. Si vede nella foto sulla sinistra.
Cosa c'entra tutto questo con l'alluvione fiorentina? Semplice: a monte di Firenze e dell'Arno non c'erano tutte le opere di bonifica come ce le avevamo noi lungo il fiume Brembo, dal Fregabolgia ai Gemelli giù giù fino al lago



Disgressione venatoria.
La caccia alle allodole di passo avveniva di mattina presto e all'arrivo dei primi freddi, cioè quando noi cominciavamo la scuola ad ottobre e le allodole migravano dai monti verso chissà dove al caldo. Il cacciatore stava accucciato con la sua doppietta del 12 dentro una buca a cielo scoperto. Io stavo con lui e con lo zaino pieno di scatole di cartucce e di ottime provviste alimentarie beverecce: il thermos del latte caldo. Dalla fossa dove stavamo accucciati partiva uno spago lungo una dozzina di metri che terminava con una serie di altri spaghi - in genere 3+3 a destra e sinistra distanti  quaranta centimetri uno dall'altro, a cui erano fissate delle passere per mezzo di una sottile imbragatura sempre dello spago per i cotechini. Le passere stavano posate per terra su terreno lavorato su cui venivano gettato del becchime.
Col Bonacina ascoltavamo in silenzio guardando verso il cielo finché in alto alto altissimo intravedevamo delle macchiettine nere.
«I ria!» Arrivano le allodole! mormorava Bonacina e cominciava da fischiare con un fischietto di ottone tra le labbra. Ogni tre fischi a me toccava il compito di tirare lo spago, che strattonava le passere e queste erano indotte a fare un mezzo volo verso l'alto per non essere trascinate. Passere ovviamente autoaddestrate: mica sceme anche se passere... Secondo l'idea comune nei cacciatori il richiamo  col fischietto unitamente alla vista delle passere postate per terra induceva le allodole a calare perché immaginavano vi fosse del becchime. E li entrava in azione la doppietta del signor Bonacina. Che a mio avviso doveva essere un po' sordastro e ciecato ma questo andava a vantaggio delle allodole. Che erano altrettanto addestrate come le passere.

















































































































































































































































































































































































































































































































































































Né solo Firenze: i fiumi del Veneto, del Friuli, del Polesine strariparono allagando campagne e paesi. Tutta l'Italia, dove più dove meno, fu coinvolta in questo evento.
Un evento certamente di eccezionale portata, ma non casuale dal momento che quasi ogni anno tra ottobre e novembre l'Italia era stata ed è interessata da fenomeni atmosferici di questo tipo. Se la storia, magistra vitae,insegnasse qualcosa questo ripetersi di eventi in periodi “prestabiliti” dalla natura porterebbe a classificare quei fenomeni tra le “calamità” prevedibili. E, in quanto tali, in grado di poter essere preventivamente affrontati per limitare sino ad annullare il rischio di danni e, soprattutto, vittime.

Non è così. Non è stato così come attesta la storia dei disastri che annualmente sotto forma di alluvioni, frane e terremoti in modo particolare interessano vaste aree del Paese (la lunga dorsale appenninica soprattutto) e la tiritera delle catastrofi annunciate e che si potevano evitare. Si potrebbe andare in emeroteca e sfogliare le pagine dei quotidiani, anche senza andare molto indietro nel tempo. Bastano, come dicevo, cinquant'anni per apprendere che cosa è accaduto, dove, con quanti morti, con quanti e quali danni e quanto tutto questo è costato in termini economici e sociali. Il cittadino qualunque lo può fare, se vuole, ma gli amministratori della cosa pubblica a qualunque livello territoriale lo devono fare.

Devono, cioè addottorarsi per sapere come è fatto il paesino, la città, la metropoli, il Paese che sono stati chiamati a governare.
La Campania, puntuale anche nelle date, è tra le regioni più esposte. Salerno e provincia costiera 25-26 ottobre 1954, Beneventano 15 ottobre 2015 sono i riferimenti più ricorrenti associandoli all'alluvione fiorentina. Ma non si può certamente dimenticare la “lava di fango” che investì drammaticamente Sarno, il 5-6 maggio 1998. Nell'evento del 1954 vi furono 318 morti, 250 feriti e quasi 6.000 senza tetto, i danni materiali furono valutati in non meno di 45 miliardi di lire. A Sarno e dintorni i morti furono 160. Nel Beneventano due morti e ingenti danni materiali.
Sono ricordi che ripetiamo ogni anno, anche su queste pagine. Lo ricordano innanzitutto i geologi che in una terra come la nostra (e come il resto d'Italia) la natura, se maltrattata, risponde nel modo in cui risponde ogni anno di questi tempi stagionali.
Che vuol dire? Che è autunno; in questo periodo piove; quando la pioggia è più abbondante fiumi e torrenti si ingrossano e portano più acqua i torrenti nei fiumi e i fiumi nel mare.

Questo secondo le regole della natura.
Poi, però, vi sono le sregolate regole umane. Quelle che hanno irreggimentato il corso di torrenti e fiumi in alvei innaturali e li hanno indirizzati in mezzo ad una selva di costruzioni che sottraggono suolo alla campagna dove qualche corso d'acqua più esuberante tenderebbe ad espandersi se ne trovasse la possibilità. Quando questa naturale possibilità non la trova esonda per le strade, nelle cantine e travolge tutto quello che si trova davanti



























































































































































































































del territorio esposto a rischio, la Campania con il 16,5 per cento e l'Emilia Romagna con il 14,5 per cento del territorio.
La Campania, molto più popolosa e densamente popolata della Val d'Aosta, è al secondo posto, ma non basta. Perché, come sappiamo, ci sono pure i terremoti e le eruzioni vulcaniche. Con una non trascurabile differenza nella ricerca delle responsabilità. Ed è che di terremoti ed eruzioni sappiamo che “certus an incertus quando”, mentre per alluvioni e frane “certus est” se e quando. Voglio dire, tornando a parlare la lingua più ricorrente, che nel primo caso sappiamo con certezza che quei fenomeni si verificheranno, ma non abbiamo certezze sul quando. Nel secondo caso la certezza è sia sul verificarsi, sia sul quando, annualmente, ciò avviene.

Che significa saperlo? Semplicemente che esistono il dovere e la possibilità di prevenire una volta per tutte, vittime e danni materiali l'indomani di ogni pioggia più intensa del solito. Una prevenzione che, come non mi stancherò mai di notare, comporta investimenti e gente che lavori per dare sicurezza e vivibilità ad un territorio nel quale risiedono sei milioni di persone.












Gerundo. Senza dimenticare che l'acqua del Brembo fu essenziale per la nascita (della fonderia) della Dalmine.

Peccato che  a monte di Firenze non ci siano nemmeno ora, tranne una.