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In
larga parte dei Paesi europei la maggioranza dei giovani compie il
venticinquesimo compleanno sotto un tetto diverso da quello della
famiglia di origine. In Italia, invece, è ormai consuetudine trovarsi a
vivere ancora nella casa dei genitori al traguardo dei trent'anni:
secondo l'Istat sono quasi 7 milioni, il 31,8 per cento dei quali ha un
lavoro. Alla base di questa ampia e persistente differenza sta uno
stretto intreccio, difficilmente districabile, di fattori culturali e
strutturali.
Pensiamo ad un figlio di venticinque anni che annuncia ai genitori
l'intenzione di andare a vivere per conto proprio. Possiamo credere che
molte madri italiane reagirebbero con dispiacere. Si chiederebbero dove
hanno sbagliato nel rapporto con il figlio, dato che già così presto
vuole andarsene. Metterebbero in discussione la propria capacità di
cucinare, di stirar bene le camicie, di creare un contesto domestico
accogliente. Tutto questo ancor più se il figlio è unico e se la madre
è casalinga.
Pensiamo invece ad un giovane danese della stessa età, che però vive
ancora con i genitori e non sta progettando di andarsene. Anche qui
molte madri e padri scandinavi si metterebbero in discussione, ma per
motivi opposti. Si chiederebbero dove hanno mancato nel trasmettere al
ragazzo la spinta a buttarsi nel mondo, a conquistare i propri spazi
oltre le mura domestiche, a cercare la propria strada.
Più che l'autonomia in sé, il valore principale che un genitore
mediterraneo tende a trasmettere ai figli è quello della solidarietà
familiare intergenerazionale, ovvero l'importanza di sostenersi
reciprocamente di fronte alle asperità in tutte le fasi della vita.
Questo di per sé è positivo. In un contesto però di carenza di adeguati
strumenti di welfare attivo, di ridotte opportunità nel mercato del
lavoro, di bassa mobilità sociale e crescenti disuguaglianze, il
rischio è che nei genitori si rafforzi un atteggiamento iperprotettivo
e che i figli tendano a rimanere più a lungo immaturi.
La maggior propensione culturale all'aiuto da parte della famiglia di
origine e le maggiori difficoltà oggettive all'uscita portano ad
adottare una tattica dilatoria. Detto in altre parole, il porto è molto
più sicuro e accogliente, rispetto agli altri Paesi, e il mare aperto è
molto più burrascoso e con un sistema di aiuto pubblico alle
imbarcazioni in difficoltà e di riposizionamento sulla rotta molto meno
solido ed efficace.
Anche dopo essersi risolti ad uscire in mare aperto, molti giovani
italiani si trovano a fare marcia indietro o comunque tornano, in vari
modi, ad affidarsi all'ammortizzatore sociale più importante del nostro
Paese: la famiglia di origine. Del resto, se osserviamo la
distribuzione della spesa sociale italiana risulta evidente come per le
voci che vanno a maggior beneficio delle generazioni più anziane, come
pensioni e salute pubblica, non spendiamo meno degli altri Paesi,
mentre siamo sensibilmente deficitari sul sostegno attivo al reddito
nel caso di disoccupazione giovanile, nelle politiche della casa e
contro l'esclusione sociale.
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Che
oltre ai fattori culturali incidano sempre di più anche le condizioni
oggettive lo testimonia sia il fatto che — secondo i dati Istat — negli
ultimi quindici anni il numero di chi dichiara di vivere con i genitori
“perché sto bene così, conservo comunque la mia libertà” è diventato
minoritario rispetto a chi afferma di non avere un reddito adeguato e
continuativo, sia il sorpasso del Sud rispetto al Nord.
Ancora alla fine del secolo scorso la geografia delle regioni italiane
rispetto al tasso di disoccupazione giovanile non corrispondeva a
quella dell'incidenza degli under 30 nella casa dei genitori, ora
emerge invece una forte corrispondenza. Nel Sud Italia, più che
altrove, i giovani si trovano alla fine degli studi davanti alla
prospettiva di rimanere a lungo a carico di mamma e papà o alla scelta
di uscire, ma per andarsene molto lontano, spesso oltre confine.
La questione culturale quindi c'è: ha a che fare non solo con l'eccesso
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Un'indagine
condotta da Acli e Cisl su un campione di ventenni romani e presentata
ieri ha destato più di qualche attenzione perché, in base a un inedito
«indice di arrendevolezza» predisposto dai ricercatori, ci racconta che
due terzi dei giovani pur di trovare un posto di lavoro sarebbero
disposti a rinunciare alle sacre conquiste dei padri e delle madri.
Ferie, copertura della malattia, indennità di maternità. È la prima
volta che a livello di rappresentazione collettiva emerge un
orientamento così remissivo, finora un certo tipo di comportamenti
eravamo abituati a rintracciarli in scelte individuali e comunque
isolate. È un dato, quello romano, che di conseguenza colpisce e di cui
ci sarà tempo e modo di vagliare la reale profondità. Non dobbiamo però
escludere a priori l'ipotesi più drastica, ovvero che mentre noi ci
accapigliavamo sull'aderenza o meno delle norme del Jobs act ai
consolidati principi della cultura del welfare i nostri ragazzi, per
paura, ci abbiano sconfessato e siano diventati «selvaggiamente
liberisti», sulla loro pelle per di più. Battute a parte, anche i
risultati che giungono da quest'ultima rilevazione di Acli-Cisl possono
essere utili se ci spingono verso una doppia operazione. La prima è
quella di intensificare il lavoro di ricognizione sulle tendenze
giovanili, sulmutamento degli stili di vita e dei riferimenti
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Questi sono
i giorni di Bruce Springsteen. È in libreria la sua tanto attesa
autobio grafia (Born to run, traduzione Michele piumini, Mondadori) ed é uscito, per cele-
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brare i sessanta anni del Boss, anche l'album "Chapter and verse", un
viaggio nella musica e nelle parole del cantautore statunitense. Ma io
vi segnalo un altro gioiello prezioso: "Badlands, Springsteen e
l'America: il lavoro e i sogni" (Donzelli editore) di Alessandro
Portelli, un saggio fondamentale per inserire i testi di Bruce
all'interno della società Usa e per capire le passioni e le delusioni,
l'anima proletaria, di un artista che non ha mai smesso di cantare le
ferite, le contraddizioni e l'orgoglio della propria terra, di dare
voce agli emarginati e agli invisibili, ai sognatori e ai fuggitivi.
I cantautori, spesso, sostituiscono i poeti, soprattutto oggi che la
poesia autentica è sempre più rara, preda di improvvisatori e di
ammalati di rima senza possibilità di salvezza. Nei momenti di
malinconia ci aiutano le pagine di un romanzo o le parole dei cantanti
impegnati. Springsteen, da anni, sa come prenderci per mano,
risollevarci, darci delle possibilità, attraverso una weltanschauung
che sappiamo riconoscere, che ci appartiene. Quante volte mi sono
ritrovato a canticchiare "Thunder road"...
Appartengo a una generazione cresciuta, oltre che con il Boss, con Bob
Dylan e Joan Baez, e ha profondamente amato Fabrizio De Andrè, definito
da Fernanda Pivano uno dei migliori poeti italiani del Novecento (non
solo: "Credo che Bob Dylan sia il Fabrizio De Andrè americano"), e
Francesco Guccini.
Di più: De Andrè e Guccini rappresentano la colonna sonora della mia
vita. A farmi conoscere Faber fu mio fratello maggiore Lamberto, che
frequentava il liceo classico al D'Azeglio di Torino, lo stesso di
Cesare Pavese e Primo Levi: mi fece sentire "La canzone di Marinella",
e fu come una folgorazione, una epifania.
Invitato, molti anni fa, alla Rai, nel noto programma notturno di Gigi
Marzullo, indicai in "Verranno a chiederti del nostro amore" la mia
canzone preferita. In terza liceo entrò nella mia esistenza, come un
uragano, Guccini. Fu una mia amica universitaria a farmi ascoltare il
33 giri "L'isola non trovata" (dalla poesia "La più bella" di Guido
Gozzano): anche qui l'inizio di un sentimento intenso, senza confini.
Mi dispiace l'addio alle canzoni di Guccini. Potrebbe, forse, dedicare
a tutti noi "guccianiani" un ultimo, memorabile concerto. Dylan, che ho
applaudito di recente a Torino, malgrado la scarsa empatia con il
pubblico e l'abbandono della chitarra, ma i miti restano miti, ha
smesso di sorprenderci, preferendo interpretare le canzoni di altri.
Grosse novità non ne vedo in giro. I giovani latitano, eppure sono di
nuovo, questi, tempi di impegno sociale e politico anche nella musica.
Per fortuna resistono De Gregori e Vecchioni, e ogni tanto rispunta
Claudio Lolli. Sì, Claudio Lolli. Ma, soprattutto, continua a regalarci
sogni, ribellioni e giovinezza lui: Bruce Springsteen. I suoi concerti
sono un inno alla bellezza e alla meraviglia della musica. E le sue
parole sono lampi di vita e di speranza, di rinascita. All'insegna di
quel "metterci il cuore" sempre, come sottolinea uno dei suoi tanti
fan: il professor Cristopher Cepernich, sociologo dei media e dei
fenomeni politici presso il dipartimento di culture, politica e società
dell'Università di Torino. Uno, insomma, che se ne intende.
Bruce Spingsteen e le canzoni che ci salvano dalla malinconia
Darwin Pastorin
Huffington Post/03 ottobre 2016
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