NUMERO 241 - PAGINA 2 - I GIOVANI STANNO PEGGIO DEI NONNI.





































































 Quei trentenni a casa con mamma.
 di Alessandro Rosina







 La sfiducia dei giovani ignorati.
 di Dario Di Vico



Bruce Springsteen e le canzoni che ci salvano dalla malinconia
di Darwin Pastorin















































































In larga parte dei Paesi europei la maggioranza dei giovani compie il venticinquesimo compleanno sotto un tetto diverso da quello della famiglia di origine. In Italia, invece, è ormai consuetudine trovarsi a vivere ancora nella casa dei genitori al traguardo dei trent'anni: secondo l'Istat sono quasi 7 milioni, il 31,8 per cento dei quali ha un lavoro. Alla base di questa ampia e persistente differenza sta uno stretto intreccio, difficilmente districabile, di fattori culturali e strutturali.
Pensiamo ad un figlio di venticinque anni che annuncia ai genitori l'intenzione di andare a vivere per conto proprio. Possiamo credere che molte madri italiane reagirebbero con dispiacere. Si chiederebbero dove hanno sbagliato nel rapporto con il figlio, dato che già così presto vuole andarsene. Metterebbero in discussione la propria capacità di cucinare, di stirar bene le camicie, di creare un contesto domestico accogliente. Tutto questo ancor più se il figlio è unico e se la madre è casalinga.
Pensiamo invece ad un giovane danese della stessa età, che però vive ancora con i genitori e non sta progettando di andarsene. Anche qui molte madri e padri scandinavi si metterebbero in discussione, ma per motivi opposti. Si chiederebbero dove hanno mancato nel trasmettere al ragazzo la spinta a buttarsi nel mondo, a conquistare i propri spazi oltre le mura domestiche, a cercare la propria strada.
Più che l'autonomia in sé, il valore principale che un genitore mediterraneo tende a trasmettere ai figli è quello della solidarietà familiare intergenerazionale, ovvero l'importanza di sostenersi reciprocamente di fronte alle asperità in tutte le fasi della vita. Questo di per sé è positivo. In un contesto però di carenza di adeguati strumenti di welfare attivo, di ridotte opportunità nel mercato del lavoro, di bassa mobilità sociale e crescenti disuguaglianze, il rischio è che nei genitori si rafforzi un atteggiamento iperprotettivo e che i figli tendano a rimanere più a lungo immaturi.
La maggior propensione culturale all'aiuto da parte della famiglia di origine e le maggiori difficoltà oggettive all'uscita portano ad adottare una tattica dilatoria. Detto in altre parole, il porto è molto più sicuro e accogliente, rispetto agli altri Paesi, e il mare aperto è molto più burrascoso e con un sistema di aiuto pubblico alle imbarcazioni in difficoltà e di riposizionamento sulla rotta molto meno solido ed efficace.
Anche dopo essersi risolti ad uscire in mare aperto, molti giovani italiani si trovano a fare marcia indietro o comunque tornano, in vari modi, ad affidarsi all'ammortizzatore sociale più importante del nostro Paese: la famiglia di origine. Del resto, se osserviamo la distribuzione della spesa sociale italiana risulta evidente come per le voci che vanno a maggior beneficio delle generazioni più anziane, come pensioni e salute pubblica, non spendiamo meno degli altri Paesi, mentre siamo sensibilmente deficitari sul sostegno attivo al reddito nel caso di disoccupazione giovanile, nelle politiche della casa e contro l'esclusione sociale.



Che oltre ai fattori culturali incidano sempre di più anche le condizioni oggettive lo testimonia sia il fatto che — secondo i dati Istat — negli ultimi quindici anni il numero di chi dichiara di vivere con i genitori “perché sto bene così, conservo comunque la mia libertà” è diventato minoritario rispetto a chi afferma di non avere un reddito adeguato e continuativo, sia il sorpasso del Sud rispetto al Nord.
Ancora alla fine del secolo scorso la geografia delle regioni italiane rispetto al tasso di disoccupazione giovanile non corrispondeva a quella dell'incidenza degli under 30 nella casa dei genitori, ora emerge invece una forte corrispondenza. Nel Sud Italia, più che altrove, i giovani si trovano alla fine degli studi davanti alla prospettiva di rimanere a lungo a carico di mamma e papà o alla scelta di uscire, ma per andarsene molto lontano, spesso oltre confine.
La questione culturale quindi c'è: ha a che fare non solo con l'eccesso







Un'indagine condotta da Acli e Cisl su un campione di ventenni romani e presentata ieri ha destato più di qualche attenzione perché, in base a un inedito «indice di arrendevolezza» predisposto dai ricercatori, ci racconta che due terzi dei giovani pur di trovare un posto di lavoro sarebbero disposti a rinunciare alle sacre conquiste dei padri e delle madri. Ferie, copertura della malattia, indennità di maternità. È la prima volta che a livello di rappresentazione collettiva emerge un orientamento così remissivo, finora un certo tipo di comportamenti eravamo abituati a rintracciarli in scelte individuali e comunque isolate. È un dato, quello romano, che di conseguenza colpisce e di cui ci sarà tempo e modo di vagliare la reale profondità. Non dobbiamo però escludere a priori l'ipotesi più drastica, ovvero che mentre noi ci accapigliavamo sull'aderenza o meno delle norme del Jobs act ai consolidati principi della cultura del welfare i nostri ragazzi, per paura, ci abbiano sconfessato e siano diventati «selvaggiamente liberisti», sulla loro pelle per di più. Battute a parte, anche i risultati che giungono da quest'ultima rilevazione di Acli-Cisl possono essere utili se ci spingono verso una doppia operazione. La prima è quella di intensificare il lavoro di ricognizione sulle tendenze giovanili, sulmutamento degli stili di vita e dei riferimenti




Questi sono i giorni di Bruce Springsteen. È in libreria la sua tanto attesa autobio grafia (Born to run, traduzione Michele piumini, Mondadori) ed é uscito, per cele-
brare i sessanta anni del Boss, anche l'album "Chapter and verse", un viaggio nella musica e nelle parole del cantautore statunitense. Ma io vi segnalo un altro gioiello prezioso: "Badlands, Springsteen e l'America: il lavoro e i sogni" (Donzelli editore) di Alessandro Portelli, un saggio fondamentale per inserire i testi di Bruce all'interno della società Usa e per capire le passioni e le delusioni, l'anima proletaria, di un artista che non ha mai smesso di cantare le ferite, le contraddizioni e l'orgoglio della propria terra, di dare voce agli emarginati e agli invisibili, ai sognatori e ai fuggitivi.
I cantautori, spesso, sostituiscono i poeti, soprattutto oggi che la poesia autentica è sempre più rara, preda di improvvisatori e di ammalati di rima senza possibilità di salvezza. Nei momenti di malinconia ci aiutano le pagine di un romanzo o le parole dei cantanti impegnati. Springsteen, da anni, sa come prenderci per mano, risollevarci, darci delle possibilità, attraverso una weltanschauung che sappiamo riconoscere, che ci appartiene. Quante volte mi sono ritrovato a canticchiare "Thunder road"...
Appartengo a una generazione cresciuta, oltre che con il Boss, con Bob Dylan e Joan Baez, e ha profondamente amato Fabrizio De Andrè, definito da Fernanda Pivano uno dei migliori poeti italiani del Novecento (non solo: "Credo che Bob Dylan sia il Fabrizio De Andrè americano"), e Francesco Guccini.
Di più: De Andrè e Guccini rappresentano la colonna sonora della mia vita. A farmi conoscere Faber fu mio fratello maggiore Lamberto, che frequentava il liceo classico al D'Azeglio di Torino, lo stesso di Cesare Pavese e Primo Levi: mi fece sentire "La canzone di Marinella", e fu come una folgorazione, una epifania.
Invitato, molti anni fa, alla Rai, nel noto programma notturno di Gigi Marzullo, indicai in "Verranno a chiederti del nostro amore" la mia canzone preferita. In terza liceo entrò nella mia esistenza, come un uragano, Guccini. Fu una mia amica universitaria a farmi ascoltare il 33 giri "L'isola non trovata" (dalla poesia "La più bella" di Guido Gozzano): anche qui l'inizio di un sentimento intenso, senza confini.
Mi dispiace l'addio alle canzoni di Guccini. Potrebbe, forse, dedicare a tutti noi "guccianiani" un ultimo, memorabile concerto. Dylan, che ho applaudito di recente a Torino, malgrado la scarsa empatia con il pubblico e l'abbandono della chitarra, ma i miti restano miti, ha smesso di sorprenderci, preferendo interpretare le canzoni di altri. Grosse novità non ne vedo in giro. I giovani latitano, eppure sono di nuovo, questi, tempi di impegno sociale e politico anche nella musica. Per fortuna resistono De Gregori e Vecchioni, e ogni tanto rispunta Claudio Lolli. Sì, Claudio Lolli. Ma, soprattutto, continua a regalarci sogni, ribellioni e giovinezza lui: Bruce Springsteen. I suoi concerti sono un inno alla bellezza e alla meraviglia della musica. E le sue parole sono lampi di vita e di speranza, di rinascita. All'insegna di quel "metterci il cuore" sempre, come sottolinea uno dei suoi tanti fan: il professor Cristopher Cepernich, sociologo dei media e dei fenomeni politici presso il dipartimento di culture, politica e società dell'Università di Torino. Uno, insomma, che se ne intende.

Bruce Spingsteen e le canzoni che ci salvano dalla malinconia
Darwin Pastorin
Huffington Post/03 ottobre 2016















































































































































































































































































































































































































































































































culturali di una generazione «esclusa» per descrivere la quale siamo arrivati persino a usare — con il termine apartheid — il lessico del Sudafrica pre-Mandela
Mi è capitato più volte di dire che il tratto saliente della disuguaglianza in Italia non si concretizza tanto in un'iniqua distribuzione del reddito quanto nel fossato che divide le generazioni come mai era successo in passato, ma di questa piccola verità il sindacalismo italiano fatica a prendere atto. La seconda è un'operazione che può apparire più tradizionale e che invita a non demordere nella ricerca delle policy destinate a combattere attivamente la disoccupazione. Purtroppo in Italia si è abituati ad accogliere i dati, sovente contraddittori dell'Istat o dell'Inps, con commenti da stadio più che dolersi o comunque interessarsi del merito.
Con il Jobs act il governo aveva pensato di utilizzare l'auspicata ripresa economica per stabilizzare una quota significativa del precariato e su questa opzione ha scommesso una generosa posta di bilancio. Purtroppo il ciclo economico non ha assecondato quest'indirizzo e la manovra ha prodotto dei risultati ma non quelli che avevamo sognato. Con il senno di poi si può osservare come le nuove norme avrebbero avuto bisogno di un accompagnamento più largo, di creare sinergie con le politiche attive e più in generale di dotarsi di una bussola per navigare in quella che viene definita la grande trasformazione del lavoro.
È vero infatti che continuano a convivere alti tassi di disoccupazione con l'impossibilità di trovare sia saldatori italiani da assumere nell'industria cantieristica sia giovani che siano disposti a lavorare da un fabbro o più in generale a imparare i tradizionali mestieri artigianali. Ed è anche vero che un mercato alle prese con crescenti fattori di incertezza continua a richiedere flessibilità estrema fino a forzare indebitamente strumenti come i voucher, i tirocini e gli stage. Assodato quanto sia difficile mettere le briglie a un mutamento che ha carattere persino epocale, a questo punto però il rischio sembra essere un altro e assai contingente: che la politica italiana disillusa dai risultati ottenuti in materia di occupazione decida di cambiare cavallo. Di scommettere su un'altra constituency, magari elettoralmente più affidabile come sembra essere quella dei pensionati. I segnali (evidenti) ci sono e il pericolo che i grandi assenti della legge di Bilancio 2017 alla fine siano i giovani e il lavoro appare in questi giorni elevato. Andrebbe evitato invece che le politiche economiche assomigliassero a un bricolage del consenso, a un tirar fuori dal mazzo la carta giudicata più adatta per giocare la partita del momento.

La sfiducia dei giovani ignorati
Dario Di Vico
Corriere della Sera/ 04 ottobre 2016














































































































































































































































































































































































































































































di protezione privata dei singoli genitori verso i figli ma anche con la difficoltà collettiva a riconoscere le nuove generazioni come il bene pubblico più importante su cui investire per ampliare orizzonti presenti e futuri della navigazione di tutto il Paese.

Quei trentenni a casa con mamma.
Alessandro Rosina
La Repubblica /25 settembre 2016