NUMERO 240 -PAGINA  4 - IL DIBATTITO INUTILE TRA RENZI-ZAGREBELSKY











































































































Referendum, Zagrebelsky delude nel confronto TV con Renzi

di Sciltian Gastaldi | 1 ottobre 2016

Sono rimasto sorpresissimo dalla cattiva prestazione del professor Gustavo Zagrebelsky contro il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ieri a #SìoNo trasmesso ieri sera in diretta televisiva da La7. Prima di addentrarmi nel commento, voglio destinare un particolare plauso per il vero e proprio servizio pubblico prestato da questa televisione privata, così come un altro plauso va al giornalista moderatore, Enrico Mentana, che ha ideato e organizzato la trasmissione in nome di un confronto delle idee che è senza dubbio prezioso e utile per gli spettatori.  Lo sforzo di Mentana è stato premiato a dovere daidati Auditel: il faccia a faccia di ieri è stato seguito in media da 1.747.000 persone, pari all'8,04% del totale, superato solo da un varietà su Rai 1 (21,84% di share) e da una serie tv su Canale 5 (13,68%).
Perché il confronto di ieri era interessante? Vari motivi. Anzitutto,Zagrebelsky presso la grandissima maggioranza degli elettori di sinistra, di centrosinistra, e dei renziani più osservanti stessi gode di un favore enorme e profondo. E' considerato da moltissimiil più grande costituzionalista vivente. Potenzialmente, è unopinion maker in grado di influenzare il voto di molti milioni di elettori, soprattutto fra gli indecisi e fra chi è orientato su un timido Sì. Renzi poi aveva tutto da perdere: se si fosse mostrato sbruffone o inelegante nei confronti del professore, avrebbe fatto una pessima figura e alienato voti alla causa del Sì.
Mi aspettavo dunque che Zagrebelsky avrebbe demolito la riforma costituzionale su cui votremo il prossimo 4 dicembre in modo chirurgico e super tecnico, citando commi e controcommi, mettendo in risalto le eventuali incongruenze della riforma.



Referendum: Renzi vs. Zagrebelsky, la clava imbonitoria contro l’argomentare indifeso

di Pierfranco Pellizzetti | 1 ottobre 2016

Il vecchio adagio secondo cui “cattiva moneta scaccia la buona” potrebbe fungere da epigrafe del confronto televisivo tra Renzi e Zagrebelsky, mentre ormai a notte inoltrata andavano configurandosi spiacevoli sensazioni: la brutale spregiudicatezza rischia davvero di farcela, se il bon ton finisce per farsi confinare nella flebilità.

Lo pensavo affranto, constatando per l’ennesima volta l’improntitudine di uno stimato esponente della nobilissima tradizione democratico-azionista che si presenta sul set di un reality sottovalutando autolesionisticamente gli arsenali della comunicazione imbonitoria; senza essersi neppure posto il problema di predisporre contromisure. Nella convinzione illusoria che la pacata argomentazione possa sedare il buzz, il ronzio dell’effettaccio. Forse una parte della platea televisiva avrà drizzato antenne speranzose quando “il professore” si addentrava nelle raffinatezze delle “due camere parlamentari che attualmente hanno uguali poteri e funzioni diverse”, di certo facendo sorridere il barone di Montesquieu dalla nuvola nell’alto dei cieli laici alla sottolineatura di quanto essenziale sia il check&balance (controllo e bilanciamento) nella veneranda costruzione del costituzionalismo. Quella stessa parte di platea sarebbe inorridita all’ingenuità con cui il distinto intellettuale torinese cadeva nelle trappole predisposte dagli spin-doctor del “signor primo ministro”: “Lei si è contraddetto qui e qui”, “Non ricordo, però a una certa età è naturale contraddirsi”.








(...)Conosco bene Gustavo e c'è tra noi un sentimento di amicizia che non ho con Renzi e, mi dispiace doverlo dire, a mio avviso il dibattito si è concluso con un 2-0 in favore di Renzi ed eccone le ragioni.
Il primo errore riguarda proprio la contrapposizione tra oligarchia e democrazia: l'oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum. Pessimo sistema è la democrazia diretta. La voleva un tempo Marco Pannella, oggi la vorrebbero i 5 Stelle di Beppe Grillo. Non penso affatto che la voglia Zagrebelsky il quale però detesta l'oligarchia. Forse non sa bene che cosa significa e come si è manifestata nel passato prossimo ed anche in quello remoto.

L'oligarchia è la classe dirigente, a tutti i livelli e in tutte le epoche. E se vogliamo cominciare dall'epoca più lontana il primo incontro lo facciamo con Platone che voleva al vertice della vita politica i filosofi. I filosofi vivevano addirittura separati dal resto della cittadinanza; discutevano tra loro con diversi pareri di quale fosse il modo per assicurare il benessere alla popolazione; i loro pareri erano naturalmente diversi e le discussioni duravano a lungo e ricominciavano quando nuovi eventi accadevano, ma ogni volta, trovato l'accordo, facevano applicare alla Repubblica i loro comandamenti.
Ma questa era una sorta di ideologia filosofica. Nell'impero ateniese il maggior livello di oligarchia fu quello di Pericle, il quale comandava ma aveva al suo fianco una folta schiera di consiglieri. Lui era l'esponente di quella oligarchia che fu ad Atene il punto più elevato di buon governo e purtroppo naufragò con la guerra del Peloponneso e contro Sparta (a Sparta non ci fu mai un'oligarchia ma una dittatura militare).



I tre articoli qui di fianco (quello di Scalfari é solo una parte dell'editoriale domenicale) rappresentano bene un modello di identificazione e di costruzione del consenso-dissenso ragion per cui se stimo p.e. Scalfari tenderò a dare dell'incontro Renzi/Zagrebelski un giudizio differente da quello di Sciltian Gastaldi.
Siccome appartengo ad una età di mezzo tra quella di Renzi e quella di Zagrebelsky mi sono abbastanza disarticolato da queste partite di calcio.
Epperò ho messo qui di fianco il ragionamento di Scalfari sull'oligarchia perchè sebbene sostanzialmente funzioni (come la descrive), in una democrazia conta anche l'egemonia di una classe sociale anche rispetto a quella dominate. Rispetto alla o alle oligarchie che in Italia, sulla scorta dello Statuto Albertino per cui i servitori dello stato giuravano fedeltà al re, vedono sempre al centro quelli definiti brutalmente come "gli statali". In Italia sostanzialmente esistono e sarebbe ro sempre esistite perlomeno tre oligarchie: quelle individuate da Scalfari, la classe operaia e la burocrazia dello stato. Bisognerbbe aggiuggerne un'altra: i preti o la chiesa.

Mi pare che la Repubblica Italiana si sia retta sempre all'interno di un fortissimos contro tra queste oligarchie che  miravano a conquistarsi il potere reale e concreto attarverso l'egemonia, nonostante che il più classico dei motivi -la ricchezza- fosse poi quello prevalentemente vincente.
La semplificazione nei rapporti con la società adottata da Renzi in questi primi mesi di governo vedeva assenti p.e.e i sindacati operai e padronali (un po' meno questi ultimi) ma di recente questo


























































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































Nelle Repubbliche marinare italiane l'oligarchia, cioè la classe dirigente, erano i conduttori delle flottiglie e delle flotte, il ceto commerciale e gli amministratori della giustizia. Amalfi, Pisa, Genova e soprattutto Venezia ne dettero gli esempi più significativi.
Veniamo ai Comuni. Avevano scacciato i nobili dalle loro case cittadine. L'oligarchia era formata dalle Arti maggiori e poi si allargò alle Arti minori. Spesso i pareri delle varie Arti differivano tra loro e il popolo della piazza diceva l'ultima parola, ma il governo restava in mano al ceto produttivo delle Arti e quella era la democratica oligarchia.
Nel nostro passato prossimo l'esempio ce lo diedero la Democrazia cristiana e il Partito comunista. La Dc non fu mai un partito cattolico. Fu un partito di centrodestra che “guardava a sinistra” come lo definì De Gasperi; l'oligarchia era la classe dirigente di quel partito, i cosiddetti cavalli di razza: Fanfani, La Pira, Dossetti, Segni, Colombo, Moro, Andreotti, Scelba, Forlani e poi De Mita che fu tra i più importanti nell'ultima generazione. Quasi tutti erano cattolici ma quasi nessuno prendeva ordini dal Vaticano. De Gasperi, il più cattolico di tutti, non fu mai ricevuto da Pio XII con il quale anzi ebbe duri scontri. Tra le persone che davano il voto alla Dc c'erano il ceto medio ed anche i coltivatori diretti che frequentavano quasi tutti le chiese, gli oratori, le parrocchie.
I braccianti invece votavano in massa per il Partito comunista, ma non facevano certo parte della classe dirigente. Gli operai erano il terreno di reclutamento dell'oligarchia comunista, scelta tra i dirigenti delle Regioni e dei Comuni soprattutto nelle province rosse, dove c'erano molti intellettuali, nell'arte, nella letteratura, nel cinema e nella dolce vita felliniana. Al vertice di quella classe dirigente c'erano Amendola, Ingrao, Pajetta, Scoccimarro, Reichlin, Napolitano, Tortorella, Iotti, Natta, Berlinguer e Togliatti. Al vertice di tutto c'era la memoria di Gramsci ormai da tempo scomparso.

Togliatti operava con l'oligarchia del partito e poi decideva dopo aver consultato tutti e a volte cambiava parere. Ascoltava anche i capi dei sindacati. Gli iscritti erano moltissimi, quasi un milione; i votanti erano sopra al 30 per cento degli elettori con punte fino al 34. Ma seguivano le decisioni dell'oligarchia con il famoso slogan “ha da veni' Baffone”.
Caro Zagrebelsky, oligarchia e democrazia sono la stessa cosa e ti sbagli quando dici che non ti piace Renzi perché è oligarchico. Magari lo fosse ma ancora non lo è. Sta ancora nel cerchio magico dei suoi più stretti collaboratori. Credo e spero che alla fine senta la necessità di avere intorno a sé una classe dirigente che discuta e a volte contrasti le sue decisioni per poi cercare la necessaria unità d'azione. Ci vuole appunto un'oligarchia. Spero che l'abbia capito, soprattutto con la sinistra del suo partito che dovrebbe capirlo anche lei.

Eugenio Scalfari
LaRepubblica
02 ottobre 2016





modello é stato abbandonato (forse per soli motivi elettorali...).
Si può capire come il ragionamento di Scalfari parta dalla sua storia: lui non appartiene  certamente alla classe operaia, nemmeno alla burocrazia statale ma proviene da una famiglia specchiatamente piccolo borghese (suo padre faceva il direttore artistico del casinò di SanRemo...) e tutto cambia quando conosce la sua futura compagna, figlia di Giulio de Benedetti. Il trauma del fascismo, benchè non particolarmente  violento verso la sua famiglia e il nuovo ambiente famigliare daranno un orientameno a Scalfari che però manterrà e mantiene tuttora nell'ambito di un ambiente elitario in tutte le sue manifestazioni.
Per Scalfari é inimmaginabile l'idea che la classe operaia diventi davvero classe di governo, cioè che passi da momenti di egemonia a momenti di  democrazia attraverso il governo.

Come é inimmaginabile per  Scalfari l'idea  di una semplificazione del quadro politico istituzionale non solo per la sua  fedeltà repubblicana ma perchè l'unico equilibrio democratico che ammette é quello dove la sua classe sociale non perda un pelino di potere.

Il dibattito sul SI/NO é sostanzialmente fasullo e inutile perchè il vero dibattere é sulla legge elettorale. La semplificazione istituzionale va sostanzialmente bene a tutti tranne alla casta ed alle burocrazie statali che vorrebbero aumentarsi i posti...

Poi alla fine quello che manca in Italia é una grande classe che abbia una profonda coscienza  politica ed etica. Giornali poco letti, scuole poco frequentate, università scelte coll'occhio al portafoglio immediato e futuro, un paese che schiaffa via i suoi giovani migliori. Sono tante le voci nel deserto e pochissmi quelli che le vogliono ascoltare e sopratutto comprendere.

Quelli della Tv gongolano per 1,7 milioni di spettatori che hanno seguito il dibattito sul La 7 tra il fiorentino e il torinese ma gli elettori sono 46 milioni circa.  per ogni  italiano che ha ascoltato il dibattito firenze-torino c'erano tre italiani che hanno visto un varietà su RAI1 e due italiani  che hanno visto qualcosa di analogo su Canale 5.
Alè oh...!























































Niente, o pochissimo, di tutto questo: il professore ha invece più volte divagato, è andato sull'attacco politico contro Renzi, ha parlato troppo di legge elettorale –che dai tempi di Weimar nessuno mai si azzarda a inserire in Costituzione – e che comunque il capo del governo ha rimesso sul tavolo della discussione (secondo me, sbagliando assai, ma ne riparleremo).
l sommo giurista ha farcito una prestazione deludente con un sacco di inesattezze, imprecisioni e falsità prontamente sottolineate da Renzi (quella sui senatori a vita che durano in realtà 7 anni è forse la più notevole). Al termine del dibattito ho capito che Zag è contrario all'idea di democrazia nella quale chi prende un voto in più del suo opponente al ballottaggio poi governa a capo di un monocolore, un concetto meravigliosamente racchiuso nella sua frase “in democrazia le elezioni non si vincono“. Lui preferisce un sistema proporzionale senza premi di maggioranza nel quale i governi non possono essere stabili, sacrificando la stabilità sull'altare della rappresentanza di tutte le istanze, anche di chi prende lo 0,7% dei voti.
Come ha ben descritto il collega Alessandro Gilioli 'su lEspresso: per Zagrebelsky la democrazia è “un insieme di regole, comportamenti, soppesamenti, bilanciamenti, garanzie, limiti, collaborazioni e confronti: e questo, secondo lui, è ciò che rende migliore una democrazia diffusa da una plebiscitaria.” E' un tipodi mentalità che conosco bene dai miei studi giuridici, una mentalità da teorici, che manca completamente dell'aspetto pragmatico di chi poi deve effettivamente governare e approvare le riforme che servono agli esodati, ai pensionati, agli insegnanti di scuola, alla classe media, ai poveri, ai migranti, agli artigiani, agli imprenditori, ai disoccupati, cioè a noi tutti.
Dall'altra parte dello studio, il Presidente del Consiglio è tornato più e più volte sul testo della riforma, leggendolo, commentandolo, dimostrando in modo plateale al professore che le sue affermazioni erano imprecise. Renzi ha dimostrato una sofferenza, suppongo reale e sentita, nel dover correggere colui che per più volte ha identificato come il suo maestro, “sui cui libri ho studiato”. Ma in effetti il prof meritava di essere corretto, trattandosi di un faccia a faccia tecnico.
Molto bravo, infine, Renzi a rimanere su un piano di rispetto, anche quando Zag in un paio di passaggi lo ha trattato da studente e non da Presidente del Consiglio, all'interno di un confronto per altro in generale assai educato ed elegante da parte di entrambi. Renzi ha preso i colpi bassi ma non ha risposto a tono e non ha perso mai di vista il dettaglio tecnico degli articoli riformati.
Badate che la mia critica alla prestazione del Professore non tiene minimamente conto della sua ovvia inadeguatezza ai tempi e alle dinamiche della comunicazione televisiva: è ovvio che un accademico di 73 anni, abituato da una vita ai ragionamenti lunghi e complessi, alle frasi ricche di subordinate, a parlare ex cathedra, si ritrovi in difficoltà nei tempi di un dibattito televisivo, in particolare se contro un uomo politico tanto più bravo nella comunicazione televisiva destinata alle masse.



Certo che sì, specie se la presunta contraddizione è una delle mille dichiarazioni frettolose al quotidiano in chiusura e ora (perfidamente) estrapolata dal contesto. Ma la risposta era – secondo adagio popolare – “un tacon peso del buso”: l’ammissione anagrafica come riconoscimento di una sostanziale inaffidabilità. Lo smantellamento dell’autorevolezza che procedeva nell’attacco alla credibilità del proprio deuteroagonista, condotta dal Renzi attingendo a tutta la gamma di trucchi e marchingegni predisposti dalla mediatizzazione-canaglia:

Effetto di spiazzamento, ottenuto modificando repentinamente i termini della questione. Se il fronte del Sì è debole quando inchiodato al combinato disposto Italicum-Riforma Boschi, dichiarare la propria disponibilità alla modifica della legge elettorale senza fornire nessuna garanzia al riguardo, che funga da controprova dei propositi proclamati tatticamente. La tecnica più che scorretta di chiudere la bocca alla controparte impedendone la replica. Lo aveva già fatto Berlusconi nell’ultimo istante del dibattito tv con Prodi, annunciando impunemente l’abolizione demagogica dell’Imu.
Irrisione a mezzo finta deferenza, ottenuta con blandizie spropositate (“ho studiato sui suoi libri”, “lei non è mio elettore ma io sono suo lettore”) in cui la finta umiltà può scattare nella stoccata a un profilo da docente che sa di polveroso e antico. Demodé, al tempo dell’ignoranza legittimata nel pop. Mentre il rispettoso “professore” scivola nel suo contrario: “professorone”.

L’uso dell’apocalittico, ottenuto affastellando effettacci – dall’alzheimer alla sicurezza ferroviaria, al dramma della disoccupazione sanato col ponte sullo Stretto e la finta indignazione all’accusa di autoritarismo (“lei offende l’Italia”) – che declassino la pacatezza del ragionamento a minimalismo indifferente. Ottimo anche l’effetto minestrone, per cui l’inerme Zagrebelsky nulla può davanti allo sproloquio su Rotterdam e la riforma dei porti italiani come norma costituzionale, quando trattasi semplicemente del decreto Del Rio.
In sostanza, l’uso bullesco della parola da parte del “signor primo ministro” tende a sommergere la civiltà delle buone maniere incarnata dal “caro professore”. E non è davvero una buona notizia. A meno che la petulanza che traspare dall’intermittente sguardo sottecchi del Renzi, spia di una pervicace arroganza tenuta malapena a bada dalla sua maschera di gomma, non funga da insperato e rudimentale anticorpo fisiognomico delle tecnicalità manipolatorie con cui si è aggredito il civile discutere.