NUMERO 238 - PAGINA 2 - STORIA DI DONNE CHE CE LA FANNO E NON























































































































































































































































Caro Beppe,Dopo giorni di lacrime e dubbi scrivo a te, rendendoti destinatario di un flusso di coscienza ma anche di una dichiarazione di fallimento. Prima di entrare nel merito dello sfogo, ti racconto però un breve aneddoto che ti farà sorridere… Ho sempre sognato di fare la giornalista, fin da bambina, e ti ho sempre letto; quando al liceo ci assegnarono un tema sui nostri miti, mentre i miei compagni parlarono di Che Guevara o di Bob Marley, io parlai di te… Scrissi di volermi occupare di cronaca di costume perché l'unica cosa in cui ero brava era osservare la gente e il mio maestro eri tu… Son passati 20 anni da quel tema e la realtà è che non sono diventata giornalista. Mi sono iscritta a giurisprudenza perché, figlia di magistrato, ho seguito il consiglio paterno, quel genere di consigli che ti pesano come macigni ma che ti sembrano ineluttabili, perché non riesci a contraddire la persona che per te è l'essenza della ragionevolezza. Son finita a fare l'avvocato, neanche troppo brava, e provo anche a fare la madre, ruolo cercato e voluto con lacrime e sangue (ho perso in grembo ben due figli, ma ho due bimbe meravigliose). Ma proprio in questo sta il mio fallimento.
Ci ho provato, disperatamente, a conciliare le due cose.
Ho chiesto orari ridotti che mi consentissero di portare le piccole al nido o alla scuola materna, mi sono avvalsa di tate, di aiuti di ogni genere, e per qualche tempo mi sono anche illusa di poter fare tutto. Ma la realtà è che è impossibile. Pur con tutti gli aiuti del mondo, ti ritrovi con il conto in banca prosciugato dagli stipendi alle tate e alle sostitute delle tate, dai folli costi dei nidi e delle attività extrascolastiche



piatto di pasta serale perché sei fuori forma e non hai neppure il tempo di farti una messa in piega; insomma, ti senti sempre e costantemente sotto pressione.
E poi ti guardi intorno e vedi donne ammazzate, donne vilipese, donne aggredite fisicamente e verbalmente, sul web o in televisione. Ma non trovi conforto neppure negli incontri quotidiani con uomini per bene, evoluti e sensibili, i quali (chissà perché) dimostrano sempre una impercettibile sfumatura di diversità nel trattare con una donna o con un uomo. Sono stanca, caro Beppe.
Ti dico la verità, se è questo quello che volevano le donne quando lottavano per i loro diritti, beh, penso abbiano fallito. Sia loro nel prefiggersi uno scopo irrealizzabile, sia noi che siamo state







Indubbiamente nella vita conta moltissimo il carattere di ciascuno nel costruirla e nel giudicarne i risultati. Resto convinto che l’avvocato che si sente una madre e una professionista «piuttosto fallita» rispetto alle proprie attese derivi dal prendere troppo sul serio i propri ruoli. Che quando sono gestiti con responsabilità ed attenzione e cura, anche se il risultato non ci sembra proporzionato all’impegno profuso, non deve mai essere motivo di autocommiserazione. Ma non mi voglio mettere nei panni dell’inutile consolatore dell’afflitta di turno ma riflettere in parallelo col contenuto del secondo articolo. Quello della preside costretta a rochellare tra decine di scuole e di classi sicuramente non per l’ambizione di diventare assessore regionale o ministro dell’istruzione ma semplicemente per «adempiere al proprio dovere».Che è poi esattamente quello che fa l’avvocatessa.



Quando le hanno proposto di dirigere come reggente l'istituto comprensivo di Vescovato, in provincia di Cremona, ha tentennato: Paola Bellini, 45 anni, era già titolare di una scuola di Pontevico, in provincia di Brescia, con 8 plessi. Sommando i 13 edifici della assegnazione provvisoria, sparpagliati su sei Comuni diversi, si arrivava a 21. Un record in Italia, anche al Nord dove l'accorpamento delle scuole in istituti comprensivi dopo la riforma Gelmini ha reso la gestione multipla una prassi, come segnala il presidente dell'associazione presidi della Lombardia, Massimo Spinelli. «È solo il terzo anno che sono dirigente scolastico, e mi sono detta: non è cosa da poco. Ma non potevo tirarmi indietro: conoscevo benissimo l'istituto di Vescovato, ci ho lavorato per anni come docente, e c'è stata una mobilitazione per spingermi a occupare quel posto rimasto vuoto».
E così anche Paola dal 31 agosto scorso è entrata nel piccolo esercito dei 1.233 presidi che devono, per colpa di un concorso che tarda ad arrivare, barcamenarsi tra migliaia di alunni, decine di professori, centinaia di scartoffie. Macinando chilometri, manco a dirlo: «Passo ore e ore in macchina — racconta lei —. Vado da una scuola all'altra per incontrare docenti, assolvere compiti burocratici, mandare avanti progetti, farmi conoscere anche dai miei 3 mila alunni. E quello che non riesco a fare dal vivo, cerco di risolverlo al telefono: ho una scheda illimitata, così posso chiamare chi ha bisogno di me. Rimborsi spese? Non ce ne sono: credo che quei 700 euro lordi che dovrei avere in più in busta paga a fine mese serviranno a coprire le spese». Pasti esclusi.
Paola spesso non riesce neanche a pranzare: una collega le ha appena regalato una confezione maxi di cracker per ricordarle di sgranocchiare qualcosa tra un'incombenza e l'altra. Affannata? «Un po'. Le mie giornate iniziano poco prima delle 9, quando accompagno mio figlio di 10 anni a scuola, e finiscono in un orario variabile tra le 18 e le 23, in base alle riunioni e al lavoro che mi porto a casa: quando c'è l'autovalutazione o il piano dell'offerta formativa lavoro anche nel weekend».
Una giornata tipo? «Prima di tutto ci sono gli appuntamenti con sindaci, genitori, insegnanti — racconta, munita di agenda — poi l'organizzazione scolastica, poi il vaglio della progettazione e poi... poi devo andare a casa e provare a mettere su qualcosa per cena», ride Paola. Che non nasconde un po' di amarezza: «Ci chiamano presidi sceriffo e invece io e tanti altri colleghi lavoriamo senza sosta per fare tutto. Ci troviamo ogni giorno a dover risolvere emergenze, siamo responsabili legalmente dell'istituto, garanti della formazione, datori di lavoro, ma non siamo equiparati come contratto agli altri dirigenti statali. La riforma ha buone intenzioni ma i ritardi ci hanno penalizzato tantissimo: io stessa ho diversi buchi di professori e l'anno scorso sono dovuta andare a tenere una classe per non lasciarla scoperta. Se penso ai dirigenti che hanno solo una scuola, mi viene un po' di rabbia. Ma non ho il tempo di soffermarmi. Sinceramente? Ogni tanto ci sentiamo lasciati soli».
Chi glielo fa fare, allora, di presentarsi ogni mattina elegante, con tacco e sorriso, a scuola? «La passione. Quando vedo 300 bambini che mi vengono incontro passa lo sconforto. E poi c'è la mia famiglia. Sa cosa mi ha fatto scrivere mio marito dietro l'iPad che mi ha regalato? Più del mio meglio non posso fare».

Valentina Santarpia
23 settembre 2016
Il Corriere della Sera

























































































































































































































































































































incapaci di realizzarlo.Non è possibile dover lavorare come matte per guadagnarsi la minima credibilità professionale e allo stesso tempo fare i salti mortali per tenere la gestione di una famiglia. Certo, i mariti aiutano, ma il loro apporto è sempre marginale ed il carico fisico ed emotivo è nostro. Non abbiamo nessun aiuto daiComuni, dallo Stato, nessuna












































































































































































































































































La preside alla fine è stanca e contenta del proprio impegno. L’avvocato invece   è stravolta dalla stanchezza e si da perfino un giudizio severo.
Nella vita ogni tanto occorre misurare discretamente non solo le ore spese per lavoro, per la famiglia ma anche misurare il quanto si è dato o donato agli altri.
E non è scandalo prendere atto che non tutti sono in grado di dare o donare in eguale modo. Spesso conta anche il mestiere che si è scelto: magari abbiamo puntato più in alto delle nostre capacità e i risultati non ci paiono brillanti come speravamo da... «piccoli».
L’idea che sono i maschi  quelli che vanno in guerra e quelli che co-innescano una nuova vita non si cancella dando 70 anni or sono il voto alle donne e dichiarando (in parte) la guerra al di fuori della nostra Costituzione. Noi maschi intendiamo ancora la vita come  una guerra e lo proiettiamo ancora sulle nostre compagne.
Un aspetto che non si trova nei due testi è il ruolo del compagno o del marito.
Eppure non paiono mamme singole. Se noi maschi riuscissimo ad essere più «mammi» molto più spesso dello stretto necessario anche le mamme naturali non si sentirebbero a fine giornate animali da soma, animali da letto, solitarie tutrici di una prole senza un padre.
Eppure queste due madri «attuali» mi fanno vedere un Paese che ha delle ambizioni e guarda avanti. Forse  un po’ troppo materialista, del «fare». Ma... meno male che ci sono.




















































































































































































































(che, pur senza esagerare, ti paiono irrinunciabili, come ad esempio un corso di nuoto, uno di inglese) e al contempo devi convivere con enormi sensi di colpa che ti tormentano. Non riesci a recuperarle da scuola tutti i giorni, non riesci a giocare con loro nel pomeriggio perché devi preparare una cena possi-mente sana e devi organizzare la giornata successiva, non sei abbastanza serena da assicurare loro un sorriso costante ed una parola indulgente, affannata come sei da tanti pensieri.
Ma i sensi di colpa non sono solo questi.
Ti sembra di essere una lavoratrice meno solerte degli altri perché esci prima dallo studio rispetto ai colleghi uomini; ti sembra di non essere una brava moglie perché tuo marito ti chiede cosa hai fatto dalle 18 in poi e a te sembra troppo poco farfugliare «Le ho portate al parco giochi, le ho lavate perché erano sporchissime e ho preparato la cena con la piccola sempre attaccata alle gambe»; ti senti in colpa per non riuscire ad avere un rapporto umano o addirittura amorevole con una suocera criticona; ti senti in colpa a scaldarti il cuore con un bel



comprensione (se non di facciata) dai colleghi uomini, nessun supporto neppure tra di noi.
Anche tra mamme lavoratrici, millan tiamo comprensione e condivisione, ma poi siamo sempre pronte a giudicarci vicendevolmente. Ho il nodo alla gola da giorni e non vedo soluzione, se non una nuova chiave di lettura di questa ormai esasperata condizione.
Spero tu possa trovare il tempo di rispondermi e di regalarmi il tuo (per me) prezioso punto di vista. Ti prego di non pubblicare il mio nome, perché, avendoti scritto col cuore, ho inserito troppi riferimenti personali e professionali.

22 settembre 2016
S.P.
Il Corriere della Sera




FOTO IN ALTO:
Students ride in style on their way to school as the new school year kicks off in Hebron, Occupied Palestine 2016

FOTO IN BASSO
Refugee schoolchildren attend a lesson on the fìrst day of thè new school year at one of thè UNRWA schools at a Palestiman refugee camp al Wehdat, in Amman, Jordan, Sept 1. (Muhammad Hamed/Reuters)
























































































































































































































































































































































































































































































































































































































































La risposta di Beppe Severgnini
"Colpa di noi maschi se troppe donne lasciano il lavoro"
Silvia P. è un nome di fantasia. La storia che racconta non è fantasiosa né fantastica. È il resoconto amaro della lotta di moltissime mamme. Non tutte, forse, saprebbero descriverla come Silvia. Ma tutte hanno pensato cose simili, sofferto le stesse frustrazioni, provato le stesse tentazioni: basta, mollo tutto. Maternità e carriera, al di fuori delle illusioni nei convegni, non sono compatibili.
Non è un problema solo italiano. Nel 2012 l'americana Anne-Marie Slaughter, un'analista di politica estera, pubblicò, su The Atlantic , «Why Women Still Can't Have it All» (Perché le donne ancora non possono avere tutto), e impose la questione sulla scena internazionale. Nei primi quattro giorni, riferisce Wikipedia, «il pezzo attirò 725 mila lettori e 119 mila like su Facebook, facendone l'articolo più letto nella storia della rivista». La lettera di Silvia,
apparsa giovedì su «La 27Ora», in una giornata ha superato i 50 mila like: fate voi i conti.
Perché queste reazioni, a distanza di anni e di un oceano? Perché il problema esiste; parlarne serve a esorcizzarlo, non a risolverlo. La società italiana è ancora dominata dai noi maschi, e le regole le facciamo noi. Regole vuol dire orari, ferie, permessi, promozioni, carriere. Vuol dire sguardi: quelli di chi ti fa capire che andar via presto o arrivare tardi, sai com'è, non va bene.
Una gravidanza non è un impiccio né una malattia. È la vigilia della festa della vita, che tutti dovremmo celebrare come merita. Lo facciamo? No. Le carenze pubbliche le conosciamo. Partiamo dalle cose semplici. I bambini non li porta a scuola lo Spirito Santo, che ha altro da fare. Negli Usa ci pensa lo school bus ; in Italia tocca ai genitori o ai nonni
(quando ci sono). Le aziende — magari le stesse che organizzano convegni sul «valore delle donne» — spesso negano il part-time. Ho trovato una brava collaboratrice, anni fa, perché la radio dove lavorava le ha detto, dopo la nascita della figlia: tempo pieno o dimissioni. Il marito viaggiava per lavoro. Ha dovuto dimettersi. Altro che #fertilityday.
Una società sana capisce che la maternità è un'opportunità. Riccarda Zezza, a TedxMatera, ha titolato così il suo intervento: «Maternity as a Master». Ha ragione. Diventar madri è un master d'alto livello. Si ritorna al lavoro più tenaci, più capaci di affrontare di difficoltà, più mature. Ma il datore di lavoro deve capirlo.
Non è questione di legislazione, che esiste (le poche donne che ne abusano, lo sappiano: danneggiano tutte le altre). È questione
di regole del gioco collettivo. Con queste carriere, con queste aspettative, con questi luoghi di lavoro e con questi colleghi, una giovane donna italiana deve scegliere: figli o carriera. C'è una terza via: il sacrificio disumano. Ma non si può e non si deve chiedere.
Grazie dunque, Silvia, d'aver scritto questa lettera. Ieri ci siamo parlati al telefono: sei quella che sembri, una donna speciale. Dichiarandoti sconfitta, hai vinto. Hai aiutato, in poche righe luminose, tante donne come te. Chissà che qualche maschio di potere, leggendole, veda la luce. Non quella della lampada.