NUMERO 268 - PAGINA 5 - STORIE DI MIGRAZIONI BIANCHE




























































Nel 1965 un giovane settentrionale trova lavoro in una azienda siciliana. L'impatto.









Concita de Gregorio cura su LaRepubblica un blog "Cosa pensano le ragazze". Questa la lettera di una ragazza che lavora in Svizzera. Per adesso.


































































Un ragazzo bergamasco della media Valle Seriana si diploma il 26 luglio 1965 a 18 anni al Cantoni di Treviglio. 1965: cinquantuno anni or sono. I cinque anni del Cantoni li aveva frequentati partendo al lunedì mattino da Albino (trenino della Valseriana, treno Bg>Treviglio, bicicletta stazione >scuola) e risiedendo in settimana non nel pensionato della scuola ma presso dei parenti a Calvenzano. Si diploma con una media del nove, condotta compresa e questo non era proprio un buon segnale. Veniva da una famiglia di montanari allevatori prima e vignaioli poi e quindi sapeva già del settore. Il giorno  in cui  apprende d'essersi diploma to legge sulL'Informatore Agrario che l'Efim (?) cerca un direttore per una azienda agricola a Camarina (?) dove si producono barbatelle di uve apirene e clementine. Frutta conosciuta solo sui libri di testo.  Cercare dove si trovasse Camarina era stata un'impresa perché tempo non c'era google earth, non c'era le carte stradali anche al 50mila. C'erano solo gli atlanti (scolastici) e Camari na non compariva. Perché al tempo era solo una stazione archeologica  ancora chiama ta Kamarina con la kappa. Cercare di capire chi fosse questa Efim che aveva un grande vivaio  era stato un'altra impresa dal momento che tutti stimavano fosse una impresa... metallurgica dell'alluminio e associati. Accertato infine che Camarina si chiamava allora Kamarina ed era in provincia di Ragusa, bisognava pensa re di arrivarci e come.



Una di queste le appare strana: c'è una precisa disposizione perché sia un ferreo controllo dei rapporti tra braccianti maschi e braccianti femmine. A diciotto anni non capiva nulla.

La posta in assenza del «direttore» era  custodita da due persone che... di notte se la portavano a casa.
Il nostro passerà la prima mattinata a leggere lettere e fatture a quando alle due chiama una donna -non vedeva uomini nella serra- perché avverta i braccianti e le braccianti di riunirsi perché  incontrarli e parlare si sente dire che alle due il lavoro finisce: dalle ore sei fino alle quattordici. Poi qualcuno rientra alle 17. Solo i maschi.
L'incontro viene rimandato all'indomani e li scopre che ci sono centoventi donne e otto maschi. Il lavoro consiste nel innestare sui selvatici le marze dell'uva apirene e delle clementine. Un tipo di frutta che il ministero dell'agricoltura vuole promuovere sui mercati nazionali e internazionali. Quindi occorre che qualcuno produca queste piantine che verranno regalate ai produttori per sostituire le vecchie varietà di uva da tavola e di mandarino. Per produrre le piantine occorre che ci sia personale in grado di fare gli innesti e farli bene.
Quindi occorre uno che sappia insegnare alle donne a fare gli innesti. Quindi uno dei compiti del nostro è proprio quello... e finalmente comprende quale sarà davvero il suo dovere.
Il nostro l'aveva intuito ma aveva sempre pensato,







Cara Concita, inizio in un modo banale, o forse meglio dire classico. Quel classico che è andato perduto e che ritrovo nel piacere di scriverti una lettera.
Finalmente infatti ti scrivo, ci penso da un po'. In effetti ci ho pensato ogni volta che ho finito un tuo libro. Mi sono detta che c'era cosi tanto che condividevo e che sentivo mio nel tuo modo di scrivere, di vedere il mondo, nel tuo descrivere il nostro paese, la gente, quella vera, la loro quotidianità, che non potevo non dirtelo. Perché forse chiunque ti legge ritrova un pezzetto di sé, della sua vita, della sua fatica, dell'aggrapparsi agli aspetti che ci fanno andare avanti, cercare la nostra strada. E così in questa domenica mattina d'ottobre, leggendo il tuo ultimo libro “Cosa pensano le ragazze”, mi sono improvvisamente interrotta, e mi sono lasciata andare ai pensieri che ti rivolgo, cercando di metterli nero su bianco, con la solita confusione che i pensieri lasciano nella testa, aggrovigliandosi. Chissà poi se mai mi leggerai, ma intanto è un gran passo che grazie a te, rivolgendomi a te, possa parlare un po' di me, cosa che non mi riesce mai facile. Forse è questo lo scopo del tuo ultimo libro: dare voce alle vite delle ragazze, delle donne, farle soffermare, a riflettere su se stesse, sul loro percorso, così da avere più consapevolezza, più amore, più stima o semplicemente un momento tutto loro da dedicarsi.
E poi scusami, ti do del Tu.



Ho conosciuto Matteo in una delle mie soste in Italia, mio marito. Anche lui precario del mondo universitario italiano. Ha capito da subito che con me non avrebbe avuto vita facile. Lui voleva restare in Italia. Io al nostro primo appuntamento gli ho detto che sarei partita sei mesi per un progetto in un orfanotrofio rumeno. Gli ho detto che una storia non era possibile. E invece skype, messaggi quotidiani, aerei, ritrovi qualche weekend e continui addii. Poi ancora l'Inghilterra, la mia valigia. E la sua, un mese dopo, che mi aveva seguita lasciandosi tutto alle spalle. Odiando il grigiore inglese, la cultura nordica, l'accento di Manchester. Lui mi ha seguita. Mi preparava la cena quando tornavo dal lavoro, studiava l'inglese e inviava ovunque candidature. Si lamentava del tempo, della cucina, della gente. Ma sempre ridendone, di quell'avventura, di quella nostra storia d'amore strana e un po' europea.
Dopo qualche mese una proposta da Ginevra, il dottorato che sognava. In Svizzera non ci ero mai stata.
E via, si riparte, altre valige, altre ricerche, l'ansia del futuro, l'emozione del cosa succederà.



La novità arrivata all'improvviso, un bimbo concepito in un viaggio in Tibet, dove da anni volevo andare e dove siamo arrivati per festeggiare i nostri 30 anni. A 3.700 metri di altitudine, fra monasteri dove forse sono state quella preghiera e quella candela al burro di yak messa di fronte alla Dea della fertilità Tara a portarci in regalo una nuova vita.
Consapevole e spaesata allo stesso tempo, mi chiedo come la vita mi abbia portata fin qui. Come sarebbe andata se fossi rimasta a casa. In Italia. La mia amata Italia. La mia Romagna. Mi chiedo se un giorno torneremo e cosa faremo. Dove vorrei far crescere mio figlio? Per ora so solo dove posso permettermi di crescerlo. Con tante paure, tanta solitudine. I nonni lontani. Gli zii, i cuginetti. Alla serenità della gravidanza, alla consapevolezza dei 30 anni, alterno l'angoscia della lontananza.













































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































All'inizio è stata durissima. Burocrazia ostile. Risposte negative ad ogni curriculum inviato, perchè non avevo un permesso di soggiorno. E per avere un permesso di soggiorno devi avere un lavoro. Insomma, un circolo vizioso senza troppe speranze. Un paese chiuso, diverso dall'Europa che avevo attraversato fino a quel momento. Nemmeno la laurea era riconosciuta. Allora altra burocrozia, soldi da investire, esami per ottenere un titolo valido in Svizzera. E poi qua e là cartelli di referendum contro i frontalieri, contro l'immigrazio ne. L'immigrazione che inquina le montagne svizzere.
L'immigrazione che porta criminalità, contro cui il popolo svizzero è chiamato a proteggere le sue figlie e le sue mogli. Questi gli slogan, con tanto di pecora bianca che calcia fuori dal paese la pecora nera. Un tuffo al cuore. Ma il dottorato a Matteo piaceva tanto, lo stipendio ci aiutava a vivere e andare avanti.



La voglia di un chiosco di piadina e crescioni. Il mare, la costa romagnola, col suo caos. Mi manca tutto. Anche le cose piu scontate e inaspettate. Mi manca persino vedere i vecchietti ballare il liscio alle feste dell'unità, la vaschetta di cappelletti al ragu' unti e bisunti. Le colazioni al bar con gli amici, la spontaneità di chiamare al volo l'amica piu cara per un caffé. Il non dover ricominciare a conoscere gente, ad investire tempo per farsi conoscere e capire se si può essere amici, come quelli che da sempre mi stanno accanto a casa, che conoscono tutto di me. Che farebbero compagnia al mio pancione che cresce. L'amica cresciuta di fianco a me, le passeggiate tra le colline dell'ultimo minuto, la sera, quando non hai programmi e puoi chiacchierare di tutto e nulla per ore. Mi mancano persino le litigate con mia mamma, le incomprensioni con mio padre. I pranzi della domenica, le partite a carte. La spazzatura agli angoli delle strade, il modo di guidare degli italiani, le file negli uffici, le attese dal dottore, i ristoratori che scherzano con i clienti.
Mi manca la magnifica imperzione dell'Italia.
Vorrei che un giorno mio figlio conoscesse queste sue radici. Per ora si abituerà a noi, a due genitori sicuramenti stanchi senza l'aiuto dei nonni. Si abituerà a lunghi viaggi per tornare qualche weekend, poi skype, foto, messaggini. Anche dei nonni che si affacciano comicamente alla tecnologia per stringere a distanza i figli lontani.
Sono queste le vite di tanti come me. Non ci si sente mai del tutto a casa. Nè in Italia, ora, né qui. Ci si chiede cosa conta davvero, quanto si resterà sospesi. E intanto si vive il presente. Da due si passa a tre. E l'Amore è tutto quello che conta e a cui ci si aggrappa.
Il chiosco di piadina romagnola e le lasagne della mamma sono la consolazione di quando si torna per Natale e si pensa ...Chissà, forse un giorno, in tre, torneremo...
Grazie di avermi dato spazio. Chissà, forse di aver perso il tuo tempo per leggere questa storia. Semplicemente grazie.
Buona vita.
Elisa




























































































































































































































































































Una lettera alla CGIL braccianti di Ragusa consentì al prode polentone di pervenire dopo quattro giorni di viaggio a Scoglitti, un piccolissimo comune a pochi chilometri dalla sede dell'azienda.

Quattro giorni di viaggio  con 6 treni e due pulman (di quelli col motore in cabina).
Sbarca in una piazza ignota i Scoglitti e quando il monotral Viberti se ne va, vede dall'altra parte della strada un circolo del partito comunista italiano. All'esterno il solito gruppo di anziani nero vestiti, camicia bianca, coppola nera che giocano a carte sui pochi tavolini. Si sente osservato.
Entra nel bar che si presenta come un'unica stanza nera, un banco mescita di legno e pietra senza spina dell'acqua potabile; nell'angolo un muro e un  piccolo vano chiuso da una porta. Più avanti scoprirà che è un pisciatoio.

Chiede alla giovane «barista» dalla pelle grinzosa e bruciata dal sole se ci sia una pensione o un affittacamere. Come folgorata la signora esordisce con un «allora lei è quel settentrionale che è stato mandato a dirigere la serra!» . Stupito che la notizia fosse già di pubblica conoscenza annuisce e la signora lo informa che non esistono pensioni perché l'ultima era stata chiusa per morte del titolare ma che c'è vedova che affitta le camere dei figli adesso migrati al nord. Bene. La camera sarebbe costata duemila lire al giorno, cena compresa, bagno incorporato nel cesso con la turca e in comune cogli altri sul balcone. Emozionante anche per un settentrionale che non aveva la doccia ma almeno aveva un gabinetto con vasca da bagno.
Il mattino successivo alle cinque - col sole già ben caldo- prende un pulman pieno di braccianti che vanno a giornata o nei campi per andare alla serra e conoscere infine che c'è da fare. Alla serra non c'è nessun «dirigente» ad accoglierlo ma ci sono alcune lettere della «direzione».



forte anche del parere di suo padre, che anche i siciliani sapessero fare benissimo gli innesti. In effetti era così, ma era un mestiere riservato solo ai maschi ed a pochi di questi perché vivaisti erano gelosi della specializzazione. Qualche mese più tardi avrebbe saputo che il suo predecessore, che il buondio aveva chiamato prematuramente al proprio cospetto per un infarto, era di origine campane. Il polentone rimase a Camarina tre anni e rientrò a Castelvetro Piacentino con l'incarico di trasformare un'azienda agricola con l'intera filiera mucche>latte>grana padano>maiali> salami un una filiera più corta mucche di alta genealogia>latte.
Correva l'anno 1965. Tra Bergamo e Ragusa non c'era la teleselezione. Non c'erano i cellulari. Non c'era internet. Non c'erano i viaggi low cost. Occorreva una settimana per andare & tornare. Non c'erano neppure le carte stradali. C'erano i cessi alla turca trasformabili i docce  semi-all'aperto su i balconi in comune con non si sa chi. C'erano 120 donne dentro una serra. C'erano otto maschi da tenere a bada con la rivoltella che appena potevano capponavano la prima donna che riuscivano a bloccare. Non c'era la scuola media statale. Scoglitti, città di mare marinai pescatori, aveva un piccolo quartiere di tunisini. E un bergamasco che insegnava alle donne siciliane come si facevano gli innesti. Oggi bergamaschi e siciliani quando emigrano per cercare lavoro vanno all'estero: ma con un volo low cost e il cellulare in tasca, facebook e linkedin.




























































































































































































































































































































































































































Talmente riesci a mettere gli altri a loro agio, vicini, attraverso la tua scrittura. Non ci sono abituata da un po', ora qua, in Svizzera dove vivo, mi sono dovuta abituare a dare del Voi. Lo odio, è talmente formale e distaccato, ma un'immigrata deve farsi accettare, rispettare le regole sociali di dove vive e lavora. E tu qualcosa ne sai della Svizzera, ne hai raccontato una storia, che conteneva una parte dello spaccato di questa società, di questo paese chiuso fra le montagne, affascinante e ostile allo stesso tempo.
Siamo in tanti qua, giovani e anziani, frontalieri, lavoratori, cercatori di futuro. Siamo tanti, giovani detti “cervelli in fuga”. A volte mi dico che siamo coraggiosi in fuga, alla ricerca di una svolta. Altre che siamo rassegnati, codardi in fuga, che hanno salutato il loro Paese, amato ed ingrato. Dalla mia laurea, come assistente sociale, nella cara Bologna, dalle aspettative e dai sogni, non grandi, non ambiziosi, di una vita semplice, una famiglia romagnola, una casetta piccola e accogliente, un lavoro nella tutela minori, sono passati un po' di anni e da soli due anni mi sono fermata.
Ho vissuto qualche mese in Francia, poi in Romania, poi in Olanda, in Inghilterra, smaniosa di esperienze, sperando di tornare un giorno a casa, arricchita di uno stage o una formazione in più, e pronta finalmente a trovare una porta aprirsi, un concorso andare bene, un posto, anche solo di un anno, per farmi fermare. Invece no, non è andata cosi.



E poi la fortuna di trovare un posto di lavoro, in un'asilo nido internazionale. Qua lavoro da un anno, con bimbi dai 3 mesi, pronti al loro lavoro quotidiano quando la poca maternità concessa finisce per le mamme. Da un anno mi alzo presto al mattino e mi occupo di pianti, pannolini, raffreddori, biberon. Lo adoro. Adoro le coccole, i sorrisi, i genitori con cui parlo francese, inglese e a volte italiano. Le canzoncine che non mi escono mai dalla testa, le scene buffe tra compagni di ciuccio, i miei vestiti pieni di chiazze di pappe e sbavate. Ora sull'ostilità svizzera ci passo più sopra. Mi godo la quotidianità del mio lavoro, rido delle strade perfette, mi arrabbio meno contro certe contraddizioni, guardo il lago. Quando c'è il sole vediamo il monte Bianco dalla finestra. I ristoranti sono troppo cari per noi, e ci dilettiamo in cucina e a far grigliate.
Cerchiamo di vivere, semplicemente.
Ed ora?
Ed ora mi preparo ad esserci io dall'altra parte.
Non piu solo educatrice.
A Febbraio divento Mamma, diventiamo Genitori.