NUMERO267 - PAGINA 1 - O ROMA O MORTE!






































Alessandro Gilioli

Roma: non essere come quelli di prima
Ho scritto ieri sui social, quasi a caldo, che dopo l'arresto di Raffaele Marra la sindaca di Roma avrebbe dovuto dimettersi.
Non perché Marra è di sicuro colpevole dei reati di cui è indagato - ci sono i processi, e siamo tutti innocenti fino alla Cassazione etc - ma perché il personaggio a cui aveva dato tanto potere nel governo della città era del tutto incompatibile con i principi di trasparenza e di alterità rispetto alle relazioni clientelari della vecchia politica.
Stiamo parlando - questo è indubbio e al netto delle imputazioni - di un signore legatissimo all'«immobiliarista della casta» Scarpellini (così veniva definito dal M5S, quando era all'opposizione), ma anche vicino a Franco Panzironi, oggi sotto processo per Mafia Capitale, e a Mauro Masi, quello della Rai berlusconiana che «neanche in Zimbabwe».
E che, per sua stessa ammissione, aveva cercato di farsi assumere nei servizi segreti attraverso la raccomandazione di un vescovo e di Gianni Alemanno. E che cosa c'entri tutto questo con l'etica quasi palingenetica del Movimento - tanto più a Roma - dio solo lo sa.
Penso ancora di più che Raggi dovrebbe dimettersi dopo aver visto la sua "conferenza stampa" (va tra virgolette, non avendo lei consentito alcuna domanda) perché lì, semplicemente, ha mentito ai cittadini, ai suoi elettori, agli attivisti del suo Movimento.
Lo ha fatto quando ha detto che Marra era solo uno dei 23 mila dipendenti del Comune di Roma.
Non è vero. Marra era il suo potente braccio destro in Campidoglio. Era uno dei dei “quattro amici al bar”, come si chiamavano tra loro su WhatsApp - fino a ieri mattina - Marra, la stessa Raggi, il segretario generale Salvatore Romeo e il vicesindaco Daniele Frongia. Ed era questo il vertice politico e decisionale della giunta, sempre fino ieri mattina.
Ecco, quella di Raggi, ieri, in conferenza stampa, è stata una menzogna. E un politico che mente ai cittadini - su una casa come su una laurea, tanto più sulla distribuzione dei poteri - perde legittimità, perde il rapporto di fiducia.
Il 67 per cento dei romani (quorum ego) al secondo turno delle elezioni amministrative, il 19 giugno scorso, ha chiesto a Raggi e al M5S di far voltare pagina a una città di cui centrodestra e centrosinistra avevano fatto per decenni carne di porco - a turno ma anche insieme.
È stata una rivolta civile e pacifica - nelle urne - contro un ceto politico che al di là dei simboli di partito si era comportato più o meno allo stesso modo, mettendo i propri interessi di potere e talvolta economici davanti a quelli della città, della qualità della vita. È stato anche un urlo - sempre pacifico, sempre declinato con una ics a matita sulla scheda - contro la rete di relazioni di convenienze, di spartizioni, di dazioni e di malaffare con cui centrodestra e centrosinistra avevano avvolto la città fino a soffocarla.
Bene: oggi non credo che quel 67 per cento abbia la sensazione che quella soffocante rete sia stata sollevata e buttata nel cassonetto. Non credo che abbia la sensazione di respirare più profondamente e aria più pulita.
Eppure questo respirare aria pulita era - è - la ragion d'essere del voto del 19 giugno. Credo che sia anche la ragion d'essere del Movimento 5 Stelle stesso.
Ci sono ottimi assessori nella giunta Raggi, lo so. Qualcuno un po' ne conosco da prima, direttamente o no (Marzano, Berdini, Bergamo) e sono stato felice per la loro nomina. È anche per loro, per fiducia in loro, che avevo sperato in un colpo d'ala che sciogliesse la cappa del gruppo WhatsApp di cui sopra prima di un evento deflagrante. Invece ci sono volute le manette.
e scuse non bastano, lo ha detto ieri anche qualche esponente nazionale del M5S. Tanto più se accompagnate da un bugia. Le dimissioni di Raggi non sarebbero un'ammissione che «erano meglio quelli di prima», cioè Pd e centrodestra. Ma al contrario un segnale che come quelli di prima non si è e non si vuole essere. Che si sia del M5S, di altre simpatie o liberi da ogni affiliazione, ma comunque "persone verticali".



Scrive wiki che la Raggi é originaria del quartiere Appio-Latino di Roma, è diplomata al liceo scientifico I.Newton (azz...! non ha fatto il classico!) e laureata in giurisprudenza presso l'Università di Roma Tre, specializzata in diritto civile, giudiziale e stragiudiziale. Nel 2003 incominciò la pratica forense presso lo studio di Cesare Previti muovendo in seguito verso lo studio Sammarco. Nomi particolarmente famosi in positivo e negativo nella storia repubblicana.  Nel 2007 fu nominata cultrice della materia presso l'Università degli Studi di Roma Foro Italico. Cultrice?..
È sposata e separata con il regista radiofonico Andrea Severini, anch'egli militante del Movimento 5 Stelle, con il quale ha avuto un figlio nel 2010.
Sulla carta appare tutt’altro che una sprovveduta uscita da una ignota città e università albanese. Per ricordare un episodio lumbard.  Ma l’»uno vale uno» l’aveva già pesata e sapeva che ci poteva contare.




Pietro Salvatori 
Il problema della Raggi non è il commissariamento. Sono i commissari

I primi sei mesi di giunta di Virginia Raggi hanno racchiuso i casini che mediamente investono un'amministrazione di una grande città lungo il corso di una consiliatura, diluiti nei cinque anni e dunque di più facile gestione. La prima cittadina, vittima di una cocciutaggine che ha dell'infantile,ha selezio-
-nato una classe dirigente palesemente inadeguata se non opaca per quanto riguarda numerose figure apicali. E, peggio, l'ha difesa oltre ogni ragionevole convenienza politica contro le critiche esterne e l'esplosione di una violenta faida interna.
L'arresto di Raffaele Marra è il nodo scorsoio di una lunga corda che la stessa Raggi ha steso pazientemente e ostinatamente, in un totale e ingenuo sprezzo del pericolo. E sul quale ha preso per i fondelli gli elettori, definendolo per quello che non è, uno dei 23 mila dipendenti comunali, non la figura potente e sfuggente sul cui ruolo di vertice nella macchina capitolina ha comdotto un lunghissimo e durissimo braccio di ferro con l'opinione pubblica e i suoi stessi























































































































































































































colleghi di partito. Come se avessero arrestato l'usciere dell'anagrafe, insomma. Un insulto per l'intelligenza di chiunque l'abbia ascoltata.
Eppure stupisce il coro di peana contro l'intervento di Beppe Grillo e dei suoi colonnelli. La macchina di Roma è affare complesso, che per il palcoscenico che rappresenta tiene dentro il sangue della politica nazionale e la merda di un carrozzone amministrativo tra i più complicati e paludosi d'Italia. Non esiste sindaco a Roma che governi ignorando la forza politica che ha condotto una difficile battaglia per insediarlo, o che rimanga in sella dopo esserne stato sfiduciato.
È questo aspetto a legare l'esperienza di Ignazio Marino a quella della Raggi. Due figure che, per motivi diversi, erano considerate corpi estranei alle proprie appartenenze politiche e che hanno provato a governare non con, ma malgrado i rispettivi partiti.
Marino, che dal punto di vista comunicativo ha fatto tutto quello che era in suo possesso per apparire quel che non era, ha rifiutato seccamente l'aiuto/imposizione del Partito democratico per tirarsi fuori dalle secche in cui si era impantanato. Rifiutando quel commissariamento - anticorpo duro, spesso sguaiato, molte volte improduttivo, che ha la politica per mettere una toppa là dove sta crollando tutto, ma pur sempre anticorpo - è andato a sbattere.
Anche perché i Dem hanno evidenziato una cultura della democrazia dell'alternanza talmente immatura e sfibrata che si sono rifiutati di lasciarlo andare per la sua strada, il cui termine sarebbe stato stabilito cinque anni dopo dai cittadini romani, per farlo cadere nottetempo in un salto nel vuoto autolesionista e senza senso.
La Raggi, dopo sei mesi di contorsioni senza senso, aveva avanti due possibilità. Rifiutare l'intervento esterno e andare verso le dimissioni o la caduta; o accettarlo e provare ad andare avanti, iniziando a governare e a fare politica, mediando tra interessi contrapposti e contrastanti. Chi oggi invoca la prima strada e si straccia
le vesti per la seconda, dimostra la stessa sfilacciata idea della























































































































































































































































































































































































































































Vai poi a capire fino a quando ha contato la voglia dei romani e in particolare della destra romana di dare una lezione ad un dei peggiori PD nazionali e quanto abbia contato la certezza e la necessità di metterle il cappio al collo.
In meno di sei mesi ha compiuto una autentica strage di collaboratori. Uno meglio dell’altro e uno peggio dell’altro. Di sicuro finora appare come la destra romana sia stata l’ultima -occorreva un arresto!- a mollare l’osso.
Tanto i romani e gli italiani perdonano tutto ai propri beniamini -vedi il cavaliere- e quindi la brava e bella signora dal potente fondoschiena ha il futuro assicurato. Per toglierla di mezzo prima della fine del mandato occorrerà un arresto ma non ci sarà. Comunque mai dire mai con Josep Pignatone al comando della procura romana. Uno che spacca il capello in otto.
La tragedia romana non sta però in una sindaca inaffidabile incapace che non pare conosca nemmeno l’abc delle leggi sugli enti locali e le leggi dello stato (ed é pure avvocato!).
La tragedia è che Roma non ha ricambi potenziali e se ci sono  si guardano bene da finire nelle fauci dei pentastellati, dei piddini e della ferocissima destra romana. Meglio casa e lavoro che il Campidoglio.
Roma come tante città indebitate e troppo grandi va commissariata per almeno un decennio da una mezza dozzina di commissari e tutti i dirigenti comunali vanno licenziati di botto.
Occorre una cesura netta e violenta, quindi anche ingiusta in alcuni casi, perché la città rinasca.
Perché smetta di rotolare in un baratro di cui non si vede il fondo.



























democrazia e dei partiti. Quella per la quale si governa la capitale del paese da soli, contro tutto e contro tutti. Come se il sindaco sia un'entità comparsa improvvisamente dal nulla, senza appartenenze e legami, impegnato in una sorta di guerra dochisciottesca senza lieto fine.
In questa folle rincorsa al peggio, il vero problema non è il commissariamento. Sono i commissari. A partire da Beppe Grillo, che ha costruito dinamiche di selezione di classe dirigente che vanno avanti per botte di fortuna: ti va bene e ti capita una Appendino, ti va male ed ecco la Raggi. È lo stesso Grillo attraverso l'impostazione dell'intero Movimento 5 stelle ad aver permesso a una ragazza evidentemente non preparata e dal passato pieno di non detti di arrivare alla poltrona di primo cittadino. È lo stesso Grillo ad aver investito una larga fetta del capitale politico 5 stelle su una persona inadeguata - come hanno mostrato i condizionamenti destrorsi che ha subito e la scelta dei più stretti collaboratori - provandole a mettere cappelli (mini Direttorio, remember?) e disfacendoli, senza minimamente progettare prima, con accortezza e con minuzia, quel che sarebbe stato poi.
Per tacer di Luigi Di Maio, la cui benedizione alla giunta per propri interessi personali (leggasi: premiership) ha prima sbattuto sulla cacciata di Minenna e Raineri, per poi asserragliarsi in un silenzio che della trasparenza invocata come un mantra dal vicepresidente della Camera ha ben poco. Quello stesso Di Maio rimasto avviluppato - per non averle sapute districare - in una lunga corrida di invidie, faide e vendette interne che hanno origini lontane, a partire dal Meetup romano la cui balcanizzazione non è stata assorbita in nessun modo dai vertici nazionali, generando quel che è sotto gli occhi di tutti. Senza che gli esponenti più in vista tra i 5 stelle romani abbiano dato segnali di lungimiranza e visione prospettica, lavandosene le mani (Alessandro Di Battista), o infilandosi in una sfibrante lotta di posizione per poi chiamarsene fuori e aspettare lungo la riva (Roberta Lombardi, Paola Taverna).
Il problema non è dunque che il livello nazionale - la compensazione, la mediazione della politica sull'amministrazione - si interessi di Roma. Il commissariamento, insomma, che è sì certificazione di un fallimento ma anche, almeno tentativamente, segnale che si è in cerca di una via d'uscita.
Il problema è che invece che costituire gli albori di una soluzione al problema, i commissari sono paradossalmente più unfit del commissariato.
Portando il disastro dei giorni di Marino ad un livello ancora più alto di inadeguatezza.