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Alessandro Gilioli
Roma: non essere come quelli di prima |
Ho scritto ieri sui social, quasi a caldo, che dopo l'arresto di Raffaele Marra la sindaca di Roma avrebbe dovuto dimettersi.
Non perché Marra è di sicuro colpevole dei reati di cui è indagato - ci
sono i processi, e siamo tutti innocenti fino alla Cassazione etc - ma
perché il personaggio a cui aveva dato tanto potere nel governo della
città era del tutto incompatibile con i principi di trasparenza e di
alterità rispetto alle relazioni clientelari della vecchia politica.
Stiamo parlando - questo è indubbio e al netto delle imputazioni - di
un signore legatissimo all'«immobiliarista della casta» Scarpellini
(così veniva definito dal M5S, quando era all'opposizione), ma anche
vicino a Franco Panzironi, oggi sotto processo per Mafia Capitale, e a
Mauro Masi, quello della Rai berlusconiana che «neanche in Zimbabwe».
E che, per sua stessa ammissione, aveva cercato di farsi assumere nei
servizi segreti attraverso la raccomandazione di un vescovo e di Gianni
Alemanno. E che cosa c'entri tutto questo con l'etica quasi
palingenetica del Movimento - tanto più a Roma - dio solo lo sa.
Penso
ancora di più che Raggi dovrebbe dimettersi dopo aver visto la sua
"conferenza stampa" (va tra virgolette, non avendo lei consentito
alcuna domanda) perché lì, semplicemente, ha mentito ai cittadini, ai
suoi elettori, agli attivisti del suo Movimento.
Lo ha fatto quando ha detto che Marra era solo uno dei 23 mila dipendenti del Comune di Roma.
Non è vero. Marra era il suo potente braccio destro in Campidoglio. Era
uno dei dei “quattro amici al bar”, come si chiamavano tra loro su
WhatsApp - fino a ieri mattina - Marra, la stessa Raggi, il segretario
generale Salvatore Romeo e il vicesindaco Daniele Frongia. Ed era
questo il vertice politico e decisionale della giunta, sempre fino ieri
mattina.
Ecco, quella di Raggi, ieri, in conferenza stampa, è stata una
menzogna. E un politico che mente ai cittadini - su una casa come su
una laurea, tanto più sulla distribuzione dei poteri - perde
legittimità, perde il rapporto di fiducia.
Il 67 per cento dei romani (quorum ego) al secondo turno delle elezioni
amministrative, il 19 giugno scorso, ha chiesto a Raggi e al M5S di far
voltare pagina a una città di cui centrodestra e centrosinistra avevano
fatto per decenni carne di porco - a turno ma anche insieme.
È stata una rivolta civile e pacifica - nelle urne - contro un ceto
politico che al di là dei simboli di partito si era comportato più o
meno allo stesso modo, mettendo i propri interessi di potere e talvolta
economici davanti a quelli della città, della qualità della vita. È
stato anche un urlo - sempre pacifico, sempre declinato con una ics a
matita sulla scheda - contro la rete di relazioni di convenienze, di
spartizioni, di dazioni e di malaffare con cui centrodestra e
centrosinistra avevano avvolto la città fino a soffocarla.
Bene: oggi non credo che quel 67 per cento abbia la sensazione che
quella soffocante rete sia stata sollevata e buttata nel cassonetto.
Non credo che abbia la sensazione di respirare più profondamente e aria
più pulita.
Eppure questo respirare aria pulita era - è - la ragion d'essere del
voto del 19 giugno. Credo che sia anche la ragion d'essere del
Movimento 5 Stelle stesso.
Ci sono ottimi assessori nella giunta Raggi, lo so. Qualcuno un po' ne
conosco da prima, direttamente o no (Marzano, Berdini, Bergamo) e sono
stato felice per la loro nomina. È anche per loro, per fiducia in loro,
che avevo sperato in un colpo d'ala che sciogliesse la cappa del gruppo
WhatsApp di cui sopra prima di un evento deflagrante. Invece ci sono
volute le manette.
e scuse non bastano, lo ha detto ieri anche qualche esponente nazionale
del M5S. Tanto più se accompagnate da un bugia. Le dimissioni di Raggi
non sarebbero un'ammissione che «erano meglio quelli di prima», cioè Pd
e centrodestra. Ma al contrario un segnale che come quelli di prima non
si è e non si vuole essere. Che si sia del M5S, di altre simpatie o
liberi da ogni affiliazione, ma comunque "persone verticali".
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Scrive
wiki che la Raggi é originaria del quartiere Appio-Latino di Roma, è
diplomata al liceo scientifico I.Newton (azz...! non ha fatto il
classico!) e laureata in giurisprudenza presso l'Università di Roma
Tre, specializzata in diritto civile, giudiziale e stragiudiziale. Nel
2003 incominciò la pratica forense presso lo studio di Cesare Previti
muovendo in seguito verso lo studio Sammarco. Nomi particolarmente
famosi in positivo e negativo nella storia repubblicana. Nel 2007
fu nominata cultrice della materia presso l'Università degli Studi di
Roma Foro Italico. Cultrice?..
È sposata e separata con il regista radiofonico Andrea Severini,
anch'egli militante del Movimento 5 Stelle, con il quale ha avuto un
figlio nel 2010.
Sulla carta appare tutt’altro che una sprovveduta uscita da una ignota
città e università albanese. Per ricordare un episodio lumbard.
Ma l’»uno vale uno» l’aveva già pesata e sapeva che ci poteva contare.
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Pietro Salvatori
Il problema della Raggi non è il commissariamento. Sono i commissari
I primi sei mesi di giunta di Virginia Raggi hanno racchiuso i casini
che mediamente investono un'amministrazione di una grande città lungo
il corso di una consiliatura, diluiti nei cinque anni e dunque di più
facile gestione. La prima cittadina, vittima di una cocciutaggine che
ha dell'infantile,ha selezio-
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-nato una classe dirigente palesemente inadeguata se non opaca
per quanto riguarda numerose figure apicali. E, peggio, l'ha difesa
oltre ogni ragionevole convenienza politica contro le critiche esterne
e l'esplosione di una violenta faida interna.
L'arresto di Raffaele Marra è il nodo scorsoio di una lunga corda che
la stessa Raggi ha steso pazientemente e ostinatamente, in un totale e
ingenuo sprezzo del pericolo. E sul quale ha preso per i fondelli gli
elettori, definendolo per quello che non è, uno dei 23 mila dipendenti
comunali, non la figura potente e sfuggente sul cui ruolo di vertice
nella macchina capitolina ha comdotto un lunghissimo e durissimo
braccio di ferro con l'opinione pubblica e i suoi stessi
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colleghi di partito. Come se
avessero arrestato l'usciere dell'anagrafe, insomma. Un insulto per
l'intelligenza di chiunque l'abbia ascoltata.
Eppure stupisce il coro di peana contro l'intervento di Beppe Grillo e
dei suoi colonnelli. La macchina di Roma è affare complesso, che per il
palcoscenico che rappresenta tiene dentro il sangue della politica
nazionale e la merda di un carrozzone amministrativo tra i più
complicati e paludosi d'Italia. Non esiste sindaco a Roma che governi
ignorando la forza politica che ha condotto una difficile battaglia per
insediarlo, o che rimanga in sella dopo esserne stato sfiduciato.
È questo aspetto a legare l'esperienza di Ignazio Marino a quella della
Raggi. Due figure che, per motivi diversi, erano considerate corpi
estranei alle proprie appartenenze politiche e che hanno provato a
governare non con, ma malgrado i rispettivi partiti.
Marino, che dal punto di vista comunicativo ha fatto tutto quello che
era in suo possesso per apparire quel che non era, ha rifiutato
seccamente l'aiuto/imposizione del Partito democratico per tirarsi
fuori dalle secche in cui si era impantanato. Rifiutando quel
commissariamento - anticorpo duro, spesso sguaiato, molte volte
improduttivo, che ha la politica per mettere una toppa là dove sta
crollando tutto, ma pur sempre anticorpo - è andato a sbattere.
Anche
perché i Dem hanno evidenziato una cultura della democrazia
dell'alternanza talmente immatura e sfibrata che si sono rifiutati di
lasciarlo andare per la sua strada, il cui termine sarebbe stato
stabilito cinque anni dopo dai cittadini romani, per farlo cadere
nottetempo in un salto nel vuoto autolesionista e senza senso.
La Raggi, dopo sei mesi di contorsioni senza senso, aveva avanti due
possibilità. Rifiutare l'intervento esterno e andare verso le
dimissioni o la caduta; o accettarlo e provare ad andare avanti,
iniziando a governare e a fare politica, mediando tra interessi
contrapposti e contrastanti. Chi oggi invoca la prima strada e si
straccia
le vesti per la seconda, dimostra la stessa sfilacciata idea della
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democrazia e dei partiti. Quella
per la quale si governa la capitale del paese da soli, contro tutto e
contro tutti. Come se il sindaco sia un'entità comparsa improvvisamente
dal nulla, senza appartenenze e legami, impegnato in una sorta di
guerra dochisciottesca senza lieto fine.
In questa folle rincorsa al peggio, il vero problema non è il
commissariamento. Sono i commissari. A partire da Beppe Grillo, che ha
costruito dinamiche di selezione di classe dirigente che vanno avanti
per botte di fortuna: ti va bene e ti capita una Appendino, ti va male
ed ecco la Raggi. È lo stesso Grillo attraverso l'impostazione
dell'intero Movimento 5 stelle ad aver permesso a una ragazza
evidentemente non preparata e dal passato pieno di non detti di
arrivare alla poltrona di primo cittadino. È lo stesso Grillo ad aver
investito una larga fetta del capitale politico 5 stelle su una persona
inadeguata - come hanno mostrato i condizionamenti destrorsi che ha
subito e la scelta dei più stretti collaboratori - provandole a mettere
cappelli (mini Direttorio, remember?) e disfacendoli, senza minimamente
progettare prima, con accortezza e con minuzia, quel che sarebbe stato
poi.
Per tacer di Luigi Di Maio, la cui benedizione alla giunta per propri
interessi personali (leggasi: premiership) ha prima sbattuto sulla
cacciata di Minenna e Raineri, per poi asserragliarsi in un silenzio
che della trasparenza invocata come un mantra dal vicepresidente della
Camera ha ben poco. Quello stesso Di Maio rimasto avviluppato - per non
averle sapute districare - in una lunga corrida di invidie, faide e
vendette interne che hanno origini lontane, a partire dal Meetup romano
la cui balcanizzazione non è stata assorbita in nessun modo dai vertici
nazionali, generando quel che è sotto gli occhi di tutti. Senza che gli
esponenti più in vista tra i 5 stelle romani abbiano dato segnali di
lungimiranza e visione prospettica, lavandosene le mani (Alessandro Di
Battista), o infilandosi in una sfibrante lotta di posizione per poi
chiamarsene fuori e aspettare lungo la riva (Roberta Lombardi, Paola
Taverna).
Il problema non è dunque che il livello nazionale - la compensazione,
la mediazione della politica sull'amministrazione - si interessi di
Roma. Il commissariamento, insomma, che è sì certificazione di un
fallimento ma anche, almeno tentativamente, segnale che si è in cerca
di una via d'uscita.
Il problema è che invece che costituire gli albori di una soluzione al
problema, i commissari sono paradossalmente più unfit del
commissariato.
Portando il disastro dei giorni di Marino ad un livello ancora più alto di inadeguatezza.
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