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E se invece questo referendum non fosse un finimondo? Se il 5 dicembre
scoprissimo che non è cambiato nulla? Gettiamo in un cestino gli
ansiolitici, proviamo a spalancare gli occhi sugli scenari che ci
attendono. Sono quattro, come le stagioni.
Ma il loro paesaggio è già dipinto, quale che sia il responso delle
urne. Primo: la Costituzione. Siamo alle prese con la sua riforma da
trent'anni; se lasciamo passare questo treno, chissà quando ne
incroceremo un altro. Quindi l'alternativa è fra rivoluzione e
stagnazione. Sicuro? Dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di
revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra
Carta e ne hanno abrogati 5. Insomma: di riforme ne abbiamo cucinate,
eccome. Però piccole, leggere. Sono le macroriforme che ci risultano
indigeste. È successo con 3 Bicamerali, è risuccesso nel 2005 con la
Devolution di Bossi e Berlusconi. Invece nel 2012 l'introduzione del
pareggio di bilancio, promossa dal governo Monti, ottenne la
maggioranza dei due terzi in Parlamento, tanto da rendere impossibile
il referendum.
E adesso? Comunque vada, s'apre una stagione di microriforme. Se vince
il Sì, perché la Grande Riforma sarà stata già timbrata, lasciando
spazio solo a qualche aggiustamento; d'altronde anche il presidente
Renzi, anche il ministro Boschi, ammettono che il loro testo presenta
talune imperfezioni da correggere. Se vince il No, lo stesso. Ne
trarremo giocoforza la lezione che gli italiani accettano soltanto
interventi chirurgici, puntuali, sulla Costituzione. E in entrambi i
casi procederemo a piccoli passi, senza sbalzi, senza troppi scossoni.
Se non altro, eviteremo d'inciampare.
Secondo: la legge elettorale. Verrà emendata, a prendere sul serio il
«foglietto » ( copyright Bersani), ovvero l'accordo siglato all'interno
del Pd: e dunque via il ballottaggio, premio di governabilità, sistema
di collegi. Ma anche a non prenderlo sul serio, resta pur sempre
l'esigenza d'approvare una nuova legge elettorale, immediatamente dopo
il referendum. O quella della Camera, o quella del Senato. Difatti: se
la riforma costituzionale cade nelle urne, insieme ad essa cade anche
l'-Italicum (che presume una sola Camera politica); quindi tocca
rimpiazzarlo. Se invece la riforma sopravvive, ci sarà da scrivere la
legge elettorale del Senato, per renderlo operante. Mutando l'esito del
voto popolare, non mutano gli effetti.
Terzo: il governo. Dovrebbe restare indenne da un'eventuale bocciatura:
è un esecutivo, non un'Assemblea costituente. E ha davanti un
referendum, mica una mozione di sfiducia. Invece no, non in questo
caso. Il quesito che ci interrogherà fra dieci giorni si è caricato
d'elementi politici, fino a oscurare il merito costituzionale.
Sbagliato, però inevitabile; dopotutto votiamo (per la prima volta) su
una riforma battezzata dalla stessa maggioranza, dallo stesso esecutivo
ancora in sella. Dunque se prevale il Sì, Renzi rimane a cavallo;
altrimenti verrà disarcionato. Davvero? Lui è pur sempre l'azionista di
maggioranza del partito di maggioranza alla Camera, grazie al premio
somministrato dal Porcellum. Sicché dopo Renzi c'è Renzi, oppure un
renziano.
Quarto: le elezioni. Quando si vota?
Dipenderà dal referendum, dicono tutti gli analisti. Se vince il No,
elezioni anticipate; altrimenti la legislatura toccherà la sua scadenza
naturale, nel 2018. Errore: si voterà comunque in primavera. Anche se
vince il Sì, soprattutto in questo caso. Per una ragione politica: a
quel punto, il presidente del Consiglio passerà all'incasso, come
farebbe chiunque altro nei suoi panni. Per una ragione istituzionale:
si può tenere in vita, per un paio d'anni ancora, un Senato abrogato
dal voto popolare? Sarebbe come se nel 1948, dopo l'entrata in vigore
della Carta repubblicana, si fosse lasciato sopravvivere il Senato
regio, come un fantasma intrappolato nella città dei vivi. Sicché
mettiamoci tranquilli: il voto del 4 dicembre è solo un antipasto. E il
pasto cuoce già nel forno. Speriamo di non farne indigestione.
Miche Ainis
La Repubblica /25 novembre 2016
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Con una molletta al naso voteremo SI al Referendum del quattro dicembre
sperando che questo primo passo non sia anche l'ultimo. Contrariamente
a tutti quelli che annunciano che il cinque dicembre sarà un giorno
come il precedente sono convinto che a fine gennaio lo spread arriverà
a 250 o 300. Già due terzi dell'Italia é ferma perchè non sa cosa
produrre e nemmeno saprebbe inventare qualcosa come sono fermamente
convinti di stare fermi tutti quelli che voteranno NO.
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Dopo il 5 dicembre, chiunque vinca, sarebbe bello se le due Italie che
si sono volute dividere col voto tornassero a unirsi per affrontare il
problema più importante: il declino italiano. Ho dedicato al tema del
declino uno dei primi Contromano del Venerdì, oltre vent'anni fa, e
molti altri da allora. Senza mai vedere un governo di qualsiasi colore
capace di metterlo al centro della propria azione o almeno della
discussione pubblica. La campagna elettorale che ci saremo lasciati
alle spalle a dicembre è stata pessima, come del resto lo sono sempre
di più le campagne elettorali in tutte le democrazie. Basti pensare al
referendum inglese e alle presidenziali americane, che hanno prodotto
la Brexit e la vittoria di Donald Trump. Del resto, perché
l'imbarbarimento progressivo della politica non dovrebbe alla fine
portare all'arrivo dei barbari?
Il 5 dicembre la smetteremo dunque tutti di pensare che la vittoria del
No spalanchi le porte alla presa del Palazzo d'inverno o che la
vittoria del Sì arresti di colpo la deindustrializzazione.
Il declino italiano in Europa non c'entra con la Costituzione, che per
trent'anni dal Dopoguerra ha accompagnato la straordinaria
parabola dalle macerie belliche al ruolo di quarta o quinta potenza
industriale, ma piuttosto deriva da anomalie degli ultimi decenni che
ci si ostina a non affrontare. Un elenco sommario: 1) una colossale
evasione fiscale, quasi la metà di tutta l'Unione, che ci costringe a
una pressione fiscale intollerabile su lavoratori e imprese, con
gravissimo danno competitivo; 2) Una corruzione da 60 miliardi
all'anno; 3) Investimento pubblico insufficiente e mal indirizzato,
quasi tutto assorbito da spesa corrente. L'Italia è diventata il paese
europeo che spende meno e peggio il denaro pubblico, ultima per
investimenti strategici e prima per opere pubbliche incompiute; 4) Un
totale e drammatico disinvestimento in formazione, istruzione e
cultura, tre settori nei quali siamo diventati ultimi o penultimi sui
28 paesi Ue; 5) Siamo un paese per vecchi, che continua a spendere
troppo per le pensioni e non fa nulla per arginare un fenomeno
crescente di emigrazione giovanile unico fra le nazioni ricche del
pianeta. Con il Sì o con il No, con o senza bicameralismo, dentro o
fuori l'euro, fin tanto che non si affronteranno sul serio questi
problemi l'Italia, come mai si è fatto negli ultimi vent'anni, l'Italia
non potrà che continuare sulla strada del declino, della
deindustrializzazione, della progressiva deriva verso la
marginalità in Europa e nel mondo.
Curzio Maltese
IL VENERDI/La Repubblica
25 novembre 2016
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