NUMERO 258 - PAGINA 2 - LE RADICI DELLA CRISI



































































In un ventennio la produttività oraria nelle aziende italiane è cresciuta in tutto del 5 per cento. Negli Stati Uniti, nel medesimo periodo, otto volte di più: 40 per cento. In Francia, Gran Bretagna e Germania sei volte di più.Il livello medio di istruzione (in particolare il numero di laureati) in Italia e molto piu basso della media europea, quindi il capitale umano è più basso. E vero che la produttività di un buon diplomato di un istituto tecnico spesso non è inferiore, anzi, a quella di molti laureati. Ma il capitale umano conta eccome, non solo il numero di anni di istruzione, ma anche la qualità e l'adeguatezza alle esigenze produttive.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi /Corriere della Sera







































































































In un ventennio la produttività oraria nelle aziende italiane è cresciuta in tutto del 5 per cento. Negli Stati Uniti, nel medesimo periodo, otto volte di più: 40 per cento. In Francia, Gran Bretagna e Germania sei volte di più. Anche Spagna e Portogallo hanno fatto meglio: +15 per cento in Spagna, tre volte più che noi, e +25 per cento in Portogallo, cinque volte di più. Differenze straordinarie.
Ma spesso un grafico vale più di mille parole: osservate questo sotto e chiedetevi cosa



Ma mentre in Germania meno del 30 per cento delle imprese familiari è gestito da membri della famiglia — e tutte le altre da manager professionisti — in Italia quasi il 70 per cento è gestito in famiglia. Quale è la probabilità che il miglior manager possibile per un'impresa fondata da un padre o da una madre sia la figlia o il figlio? A noi pare piuttosto bassa. Infatti, vari lavori di ricerca dimostrano che le imprese a gestione familiare sono in media meno



La loro analisi mostra che molte nostre imprese hanno perso vent'anni di innovazione tecnologica. Ciò vale soprattutto per le imprese piccole che, come abbiamo visto, in Italia sono particolarmente numerose.
Il livello medio di istruzione (in particolare il numero di laureati) in Italia e molto piu basso della media europea, quindi il capitale umano è più basso. E vero che la produttività di un buon diplomato di un istituto tecnico




La  mia idea è che gli esiti elettorali confermino quello che è accaduto e si avvia a consolidare nella società. Da ultimi (in ordine di tempo) gli USA ne hanno dato una risposta eclatante che ha mostrato come il cittadino «risponda» prima dei governi e delle elites intellettuali e finanziarie ai mutamenti.
L’Italia che è arrivata alla crisi del 2008 aveva ed ha tuttora una struttura produttiva e dei servizi che riflette da un lato la bassa scolarizzazione della sua società (e quindi anche degli imprenditori e politici)  e dall’altro soffriva e soffre ancora di quel sistema premiale che era la svalutazione delle moneta per stare sul mercato internazionale.
Da quella malattia non ne è mai uscita ed anche i vouchers oppure lo sfruttamento criminale degli immigrati clandestini e non ne sono (in un certo verso) una versione aggiornata.
Vedo quattro Italie che non  si capiscono nemmeno più. Paiono vivere su territori differenti. Non parlo del settore pubblico.
Nei settori industriali ed artigianali abbiamo a che fare con due modelli del tutto differenti che si spiegano soltanto su una base di formazione culturale. Se è possibile che esistano p.e. una FreniBrembo oppure una Locatelli Crane oppure una Tesmec oppure una Bossong che dal nulla negli ultimi 40 anni sono diventate leader nel proprio settore a livello mondiale, allora ci si deve interrogare su che livello o modelli di formazioni abbiano o avessero tutta la miriade di imprenditori che nel frattempo sono spariti inghiotti dalla concorrenza.
L’Italia della bassa o nulla scolarizzazione
ha risposto alla globalizzazione puntando sull’allargamento spropositato del commercio e dei servizi, sull’uso di forza lavoro dequalificata pagata a poco prezzo per (de)merito dei vouchers. In quel contesto era più importante il basso costo dei materiali ed oggetti comprati in Cina per essere rivenduti ad alto prezzo che non l’innovazione, la qualità reale, l’organizzazione.
Se un italiano si spoglia e si cataloga tutto quel che si porta addosso, si verifica che dalle scarpe al telefono non sono di produzione italiana ma nemmeno Ue. Qualcosa del genere se fai l’inventario delle cose in casa e in ufficio. Perfino gran parte degli alimentari non ha origine italiana o Ue.
































































































































































































































































































































































































































































































































ci è successo in questi vent'anni.
Dato che si tratta di produttività oraria, la partecipazione alla forza lavoro (bassa in Italia per donne, giovani, e anziani) o la disoccupazione (in certi periodi alta in Italia) sono ininfluenti, anche se peggiorano il quadro complessivo. Questi numeri misurano la produttività di chi lavora, quando lavora. Ed è questa variabile che determina il livello dei salari e del reddito pro capite. Quindi il grafico del reddito per persona in questi Paesi negli ultimi vent'anni è molto simile a quello della produttività oraria.
Rispetto agli anni Novanta la crescita della produttività ha rallentato in molti Paesi: quindi l'eccezione italiana è ancora più preoccupante. Facciamo peggio di altri che già crescono meno che in passato. Negli Stati Uniti, per esempio, si parla di «stagnazione secolare» per descrivere l'andamento insoddisfacente della loro produttività, peraltro cresciuta otto volte di piu di quella italiana! Rispetto a noi quella «stagnazione» americana sembra un boom straordinario.

Come spiegare il caso italiano? Scartiamo subito la possibilità di errori di calcolo. È vero che misurare la produttività non è facile, soprattutto nel settore dei servizi. Ma questo vale per tutti i Paesi, non solo per l'Italia. Anzi, in Italia il settore dei servizi, dove spesso la produttività è sottostimata, è relativamente piccolo rispetto agli Stati Uniti, al Regno Unito e altri Paesi europei. Che si tratti dell'economia sommersa? Ovvero una parte delle ore lavorate produrrebbe merci non ben conteggiate perché vendute «in nero». Non c'è dubbio che in Italia esista una vasta economia sommersa, ma anche in altri Paesi inclusi nel grafico come per esempio Spagna e Portogallo. Inoltre non è affatto ovvio che l'economia sommersa sia cresciuta così tanto in Italia dalla metà degli anni Novanta. Anzi, la recente riforma del mercato del lavoro e la decontribuzione per i nuovi assunti se mai hanno ridotto l'incentivo di alcune imprese a «lavorare in nero».
E allora? Ci sono varie possibilità. La prima è il «nanismo» delle imprese italiane. Aziende piccole tendono — in media, non tutte — ad essere meno produttive di quelle grandi. Queste ultime, infatti, possono sfruttare meglio economie di scala e la specializzazione nell'uso della forza lavoro. È normale che le imprese nascano piccole, ma poi devono crescere per aumentare, con la loro dimensione, anche la loro produttività. Se non lo fanno la produttività ristagna.

La seconda ragione, in parte collegata alla prima, è la proprietà delle imprese. L'86 per cento circa delle nostre imprese è di proprietà familiare. In Germania sono anche di più: circa il 90 per cento.



produttive di quelle a gestione professionale e rimangono, in media, più piccole, proprio per «tenere tutto in famiglia». L'insufficiente sviluppo dei nostri mercati finanziari, per cui servono più capitali propri, oltre alla nostra «cultura» della famiglia come azienda, sono cause concomitanti.

Ma vi sono altre ragioni. Una ricerca di Caligaris, Del Gatto, Hassan, Ottaviano e Schivardi

































































































































































































Evidente che la ggente si renda conto  che mentre l’»operaio» della FreniBrembo o della Locatelli Crane o della Tesmec lavorano, hanno un buon stipendio-salario, hanno un futuro  viceversa lui che sta nella fabbrichetta pinco pallino o fa la commessa part time nel negozio in franchising non riesce a vedersi al primo gennaio 2017 ancora a lavorare.
La somma della scarsa e bassa scolarizzazione che alimenta sia la disoccupazione giovanile che la incapacità della gran parte dell’imprenditoria di innovarsi non evita a questa gggente di vedere che  la situazione in Germania se non é esattamente capovolta (rispetto all’Italia) certamente vede la maggior parte delle imprese capaci di stare sul mercato internazionale  proprio sfruttando una generale professionalità dell’insieme che in Italia manca.
Questa gggente si è accorta che quello che una volta si chiamava l’ascensore sociale non è rimasto privo di corrente ma sono loro che  non saprebbero che fare.
Questa gggente si sente «scartata» da un qualche ruolo nel futuro ed ha anche la certezza di non possedere ne di accedere agli strumenti e mezzi per darsi una formazione adeguata per passare... di la.









































































































































































































































































































































mostra che in Italia, in molti settori, l'allocazione delle risorse produttive è inefficiente. Cioé non c'è stato abbastanza ricambio. Le imprese meno produttive non sono uscite dal mercato, così lasciando spazio a quelle più produttive. Questo è uno dei risultati delle politiche che per decenni, fino al Jobs act, hanno difeso il posto di lavoro invece che il lavoratore. Un sistema di protezione sociale fortemente voluto dai sindacati e che ha obbligato a mantenere in vita imprese poco produttive, anziché facilitarne l'uscita dal mercato proteggendo temporaneamente il disoccupato, finché quest'ultimo non abbia trovato lavoro in una impresa più produttiva. A ciò va aggiunto che molti imprenditori passano più tempo nei corridoi dei ministeri e nelle loro associazioni di categoria a cercare favori e protezione dalla concorrenza invece che a migliorare la produttività.
Due nostri colleghi della Bocconi, Fabiano Schivardi e Tom Schmitz, sostengono, con dati convincenti, che le imprese italiane non hanno tratto altrettanto beneficio dalla rivoluzione informatica rispetto a quelle di altri Paesi. L'industria italiana ha mancato, in parte, questa spinta tecnologica, arrivandoci in ritardo.









spesso non è inferiore, anzi, a quella di molti laureati. Ma il capitale umano conta eccome, non solo il numero di anni di istruzione, ma anche la qualità e l'adeguatezza alle esigenze produttive.

Lo scorso anno il 40% dei nostri studenti universitari si è laureato in materie umanisti che o in giurisprudenza.
Solo il 29% in ingegneria, chimica, biologia e altre discipline scientifiche. A tutto ciò dobbiamo aggiungere i costi della burocrazia e di regolamenti asfissianti per le imprese. Per la verità questi ci sono anche in altri Paesi europei, ma l'Italia nelle graduatorie sulla facilità di «fare business» è sempre in coda.
Insomma, è una combinazione di questi fattori ciò che spiega il triste grafico da cui siamo partiti. Deve essere chiaro a tutti che se dopo il 4 dicembre non ci rimboccheremo le maniche e accelereremo le riforme che il governo Renzi ha finalmente incominciato a fare, come il Jobs act appunto, saremo destinati ad uno straordinario declino.