NUMERO 256 - PAGINA 3 - LA DEMOCRAZIA SECONDO OBAMA


























































































Gli Stati Uniti hanno schierato nel mondo 20mila soldati.
Franco Iacch - Fonte: Difesa Italiana - 13/12/15
Gli Stati Uniti, al 13 dicembre 2015, per combattere il terrorismo hanno schierato nel mondo 15.475 soldati, 2.650 in più rispetto al precedente report. E' quanto emerge dalla relazione semestrale della Casa Bianca prevista dalla War Powers Resolution. Spetta al presidente degli Stati Uniti informare il Congresso sul dispiegamento semestrale dei soldati USA nel mondo secondo quanto previsto dai nuovi poteri conferiti al Comandante in capo dopo gli attacchi dell'11 settembre. La più grande presenza americana è in Afghanistan dove Obama ha abbandonato i suoi piani per un ritiro completo delle truppe entro la fine del suo mandato.Gli USA hanno 10.500 soldati in Afghanistan, 1.400 in più rispetto lo scorso giugno. 3.550 soldati sono in Iraq e nel nord della Siria per addestrare e consigliare le truppe dell'opposizione locale. Nel rapporto si evidenzia la possibilità di utilizzare team di 50 elementi delle special forcesqualora fosse “necessario”. Dallo scorso luglio 350 soldati sono in Turchia per sostenere gli attacchi aerei dalla base di Incerlik. A novembre altri 375 soldati americani hanno raggiunto le infrastrutture turche. Le truppe americane stanno conducendo anche operazioni di anti-terrorismo nelle nazioni africane del Niger (350 soldati) e Camerun (300 soldati). Dallo scorso giugno, gli Stati Uniti hanno anche condotto operazioni antiterrorismo in Somalia, Yemen, Gibuti e Libia. Obama cita anche nei poteri conferiti nella legge del 2001 l'autorizzazione per il coinvolgimento degli Stati Uniti in Somalia, Yemen, Gibuti, Libia e Cuba. Ai 15.475 soldati bisogna aggiungerne altri 3.700 schierati nei punti caldi del mondo come la Giordania, l'Egitto, il Kosovo e l'Africa centrale.



















































































































































































































































































































































































Obama lascia una democrazia decadente

Roberto Toscano

LA “lectio magistralis” di Barack Obama sulla democrazia meriterebbe di essere inclusa nei programmi del primo anno dei corsi di Scienze politiche, e soprattutto in quelli di Educazione civica. Impeccabile la sua definizione della democrazia e del suo valore universale contro il relativismo dei sostenitori delle alternative violente e autoritarie, che sostengono, in modo sostanzialmente razzista, che l'aspirazione degli esseri umani di contare e di essere rispettati è solo “occidentale”.
Ma anche della sua problematicità, delle sue imperfezioni, delle sue contraddizioni. Il pubblico che lo ha ascoltato ad Atene, nella sede della Fondazione Niarchos, era prevalentemente giovane: vi è da chiedersi se ascoltavano il professor Obama o il presidente Obama.
Pronunciato alla vigilia della sua uscita dalla Casa Bianca, il discorso merita di essere incluso — assieme a quelli pronunciati nel 2009 al Cairo sui rapporti con l'islam e a Praga sul disarmo nucleare — in un'antologia dell'“Obamapensiero”.



Obama è certamente progressista nei fini, ma profondamente centrista sul terreno del metodo politico. Ed è proprio qui la vera e propria tragedia politica cui stiamo assistendo. È stato sconfitto da chi può solo essere definito non solo come “anti- Obama”, ma antidemocratico e illiberale. Qualcuno che rispetta soltanto il potere, addirittura rivendica lo spregio delle regole e dei limiti etici, qualcuno che esalta non la conoscenza ma l'ignoranza («amo quelli che sono poco istruiti» — ha detto durante la campagna elettorale). Obama ha cercato di dialogare con l'opposizione repubblicana in un momento in cui il Gop — Grand Old Party — è nelle mani di una combinazione di neoliberali non pentiti e di estremisti fascistoidi. Che Trump sia diventato il candidato repubblicano è una sorpresa solo per chi non aveva capito cosa fosse il Tea Party.
La sconfitta di Obama è la sconfitta di un intero progetto di democrazia liberale e capitalismo sociale. Non è facile immaginare in che modo si possano mettere le basi di una ripresa politica e morale, ma certo la democrazia — la democrazia egalitaria, eticamente forte, sostanzialmente partecipativa







L'addio di Barack per ricordare cos'è la democrazia

Vittorio Zucconi

Profugo di una democrazia americana che lo ha rinnegato bocciando la sua erede designata, Barack Obama sembra camminare sconfitto, invecchiato e ingrigito proprio sulla terra che la democrazia ha inventato. La passeggiata d'addio sull'Acropoli del due volte ex presidente americano, prima ex per limiti costituzionali raggiunti poi ex per il rifiuto elettorale di tutti i valori che lui ha incarnato, sono stati l'amarissima, per lui, riaffermazione di quello che un suo predecessore, Dwight Eisenhower, disse a un collaboratore preoccupato per l'avanzata del partito Comunista proprio in Grecia: «Quando si vuole la democrazia, poi si deve vivere con i risultati».
Nell'accorata, ansiosa rassicurazione su intenzioni del successore Trump, che Obama e neppure lo stesso Trump conoscono davvero, c'è, a spargere sale sulle ferite, la constatazione di quanto crudele possa essere quella democrazia che gli Stati Uniti
hanno codificato in un sistema elettorale che nega di fatto il principio dell'«uno vale uno», del “One Man, One Vote”.



Eppure proprio questa apparente distorsione della volontà popolare è, come Barack Obama sa perfettamente avendola accettata senza recriminazioni, l'altra gamba sulla quale cammina un sistema democratico insieme con il voto ed è il rispetto delle convenzioni. Il conteggio dei Grandi elettori assegnati per Stato, secondo una Costituzione scritta due secoli or sono da diffidentissimi mercanti e agrari che non volevano cedere prerogative locali in favore di un temutissimo governo centrale, lascia inevitabilmente la possibilità di risultati come questo di Clinton contro Trump. Ma insieme riafferma che l'accettazione preventiva delle regole del gioco, le convenzioni valide per tutti, sono una condizione indispensabile alla sopravvivenza della repubblica.
Se le regole cucite sulla misura di piantatori della Virginia o di mercanti di Boston che attribuiscono un peso diverso all'elettore secondo il luogo dove vota appaiono anacronistiche o ingiuste, paradossalmente allo stesso Trump che dice di detestarle, le regole vanno cambiate prima e non contestate dopo. Se il risultato non piace, come aveva minacciato di fare Trump, come migliaia di dimostranti stanno facendo, e lo si rifiuta, significa non accettare mai più qualsiasi esito elettorale, dallo sceriffo di un paesino nel Texas alla Casa Bianca. E dunque distruggere quell'edificio che si pretende di voler difendere gridando che Trump «Non è il mio presidente».
Ma l'aspetto formale della democrazia presidenziale americana, che Obama ha detto di rispettare fino in fondo nel suo “addio” alla sorgente della democrazia e che Trump ha saputo sfruttare meglio della sua avversaria Clinton che avrebbe dovuto conoscerlo meglio di lui, non risolve il dilemma sostanziale che i sistemi come quello americano o di quelli basati su premi di maggioranza lascia sempre irrisolto: la questione del mandato politico. Il distacco impressionante nel totale dei voti mette in dubbio la narrazione dello “tsunami populista”. La sollevazione popolare, l'insurrezione movimentista, non si sono tradotte in un plebiscito per il miliardario populista con i bagni placcati d'oro, ma in una serie di decisive vittorie in Stati chiave contro una candidata tradita dalla propria presunzione e dalla propria imprevidenza.




























































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































Il pensiero di un intellettuale in politica, di un personaggio che come pochi ha saputo volare alto affrontando in modo mai banale, mai demagogico, mai superficiale i grandi nodi del mondo contemporaneo.
Ma invece di essere il coronamento di una straordinaria, incredibile avventura politica (quella del figlio di un africano e una sessantottina Wasp che arriva alla presidenza in una società ancora profondamente razzista come quella americana), il discorso di Atene risulta in realtà decontestualizzato. La sua apologia della democrazia, nello stesso tempo apologia dei propri otto anni da presidente, viene infatti pronunciata in un momento in cui i principi democratici e pluralisti da lui esposti sono sotto attacco e spesso in ritirata in tutto il mondo. Un momento in cui la democrazia spesso è ridotta al solo rituale delle elezioni, senza il rispetto delle minoranze, della libertà di stampa, della divisione dei poteri. Un momento in cui la disuguaglianza smentisce un po' dovunque le promesse della democrazia.
Un momento in cui vincono le risposte semplici ai problemi complessi — come clamorosamente dimostrato dalla vittoria di Donald Trump.
Sulla Cnn qualcuno ha commentato a caldo il discorso di Obama definendolo «un messaggio a Trump». Un'interpretazione legittima, soprattutto nel monito a non immaginare che si possa andare indietro e nell'appello a ricordarsi che la democrazia è più importante e più permanente delle singole opzioni politiche e delle singole personalità. Ma forse si tratta dell'aspetto più discutibile del discorso. Certo, nelle sue funzioni istituzionali Obama non poteva non rispettare le regole del gioco e rendersi disponibile per un processo di transizione fra le due presidenze. Va detto però che quello che definisce Obama non è soltanto il rispetto delle regole tipico di un professore di diritto costituzionale ed un estremo “fair play” ma una profonda fede — da democratico “da manuale” — nella possibilità del dialogo con l'avversario.



oltre il semplice rituale delle elezioni — non potrà prevalere contro i suoi nemici, sia quelli violenti che quelli fraudolenti, sulla sola base della superiorità intellettuale. All'intelletto servirà aggiungere la passione politica: quella che, nell'impossibilità di scrutare il suo animo, non sappiamo se sia davvero mancata a Barack Obama, ma che certamente non ha saputo trasmettere.
La campana, comunque, suona anche per noi. Anche nell'attuale fase postimperiale dell'America la presidenza americana rappresenta un punto privilegiato da cui si proiettano a livello globale potenti influenze politico-ideologiche. Pensiamo a Kennedy, che ha lanciato a livello mondiale, ben al di là della sua stessa sostanza politica, un forte messaggio di progresso e apertura e a Reagan, che con Thatcher ha promosso l'egemonia neoliberista che risulta ancora oggi dominante a livello globale nonostante le dure repliche della più recente storia economica.
Vi è quindi da temere che, dopo la parentesi Obama, Trump riesca a lanciare, dal potente pulpito della Casa Bianca, un messaggio reazionario e non semplicemente conservatore che rafforzerà ulteriormente e renderà difficilmente reversibile la spinta antidemocratica già evidente: da Putin a Erdogan, da Modi ai movimenti xenofobi in Europa. Non sarà facile evitare che il discorso di Obama ad Atene passi direttamente agli archivi della storia senza avere un impatto sulla politica del nostro tempo.

























































































































































































































































































































Mentre il presidente pronunciava la sua orazione all'ombra del Partenone, i conteggi dei voti popolari espressi nella elezione presidenziale di martedì scorso arrivavano ad assegnare alla sconfitta Hillary Clinton un vantaggio attorno al milione, secondo gli istituti indipendenti di ricerca. Questa sarà la quarta volta nella storia Usa in cui entrerà alla Casa Bianca un presidente di minoranza — l'ultimo fu George Bush nel 2000 — ma nessuno aveva perso con tanto margine di superiorità come Hillary Clinton.




Il tour d'addio di Obama serve dunque a ricordare agli europei tentati dal nostro neo-trumpismo di provincia che l'America è quello che è sempre stata: una società divisa, lacerata da contraddizioni estreme costrette dal sistema elettorale a trovare sintesi temporanee e recalcitranti in vincitori perf orza. Oggi si è affidata, con la diffidenza espressa dall'avarizia del voto, a Trump che vuole la vendetta di una metà sull'altra e ha acquisito il diritto di farlo. Fino a quando le stesse convenzioni che lo hanno fatto vincere si capovolgeran no contro di lui e la ruota della democrazia continuerà a girare.