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Michele Serra
La bella faccia veneta della democristiana Tina Anselmi campeggiò per
quasi due anni accanto alla testata rossa di "Cuore", giornale di
satira e altre cose, covo di comunisti, di mangiapreti e di anarchici
dei quali ero il maldestro domatore. "Tina for president": la volevamo
al Quirinale. Ci piaceva quella sua aria da Italia precedente, quella
integra e laboriosa del dopoguerra, l'Italia neorealista, contadina e
operaia, costumata, in bianco e nero, zavattiniana. Ci piacevano,
dunque, le cause perse.
Non solo una donna al Quirinale, obiettivo già azzardatissimo tra tutti
quei maschi anziani in grisaglia; ma proprio quella donna lì, stella
isolata del cattolicesimo democratico e popolare, neanche capocorrente
e per giunta in fama di scocciatrice suprema avendo presieduto la
Commissione parlamentare sulla P2 (tipico club, la P2, per maschi
anziani in grisaglia).
Di politica — ci disse ai tempi il nostro valoroso antipatizzante
Antonello Trombadori, uno che non ambiva al Nobel per l'Eufemismo —
«non capivamo un cazzo». Aveva sicuramente ragione lui. Ma fa una
certa impressione, venticinque anni dopo, leggere quanti autorevoli
italiani dicono, con il senno di poi, che Tina sarebbe stata una
presidente perfetta, la quintessenza dello spirito repubblicano, la
prima donna sul Colle, eccetera Però non lo è stata, se non sulla
testata di un giornaletto satirico. Forse qualcosa vorrà dire.
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Chiara Saraceno
ORA che Tina Anselmi è morta tutti si ricordano di lei e ne esaltano la
figura politica ed umana, il ruolo importante che ha avuto nella
costruzione della democrazia italiana fin dalla sua origine, con la
Resistenza, e successivamente con il lavoro nel sindacato e poi, da
politica e ministra, con il sostegno attivo alla parità tra le donne e
gli uomini, al diritto alla salute tramite l'istituzione del servizio
sanitario nazionale. E, ancora, come presidente della Commissione di
indagine sulla P2, che le costò l'isolamento e poi l'ostracismo da
parte del suo partito per l'inflessibile integrità con cui la condusse
e la tenacia con cui continuò a chiedere che se ne traessero le
conseguenze sul piano giudiziario e politico. Quell'ostracismo che
prima la fece emarginare dalla politica e poi è diventato un lungo
oblio.
Per molti, troppi anni ci si è dimenticati di lei, ben prima che la
malattia la costringesse a chiudere i suoi ponti con il mondo. È vero
che ad ogni elezione presidenziale, a partire dal 1992, qualche gruppo
della società civile ha fatto il suo nome come possibile candidata. Ma
è sempre rimasta una cosa puramente simbolica, senza alcuna eco, e
tanto meno sostegno, non solo nei partiti, a partire dal suo e dai suoi
colleghi di un tempo tuttora ben insediati nei gangli del potere, ma
anche nei giornali e nei media e in parte anche nel movimento delle
donne.
Non veniva neppure nominata quando si evocava ritualmente quel gruppo
di persone che si amava definire “riserva della nazione” — tutti
rigorosamente del sesso “giusto”, anche se non tutti avevano e hanno un
curriculum umano e politico dello suo spessore. Non l'hanno fatta
neppure senatrice a vita, cosa che io, che non sono mai stata
democristiana, trovo personalmente non solo una ingiustizia, ma uno
scandalo nei confronti di una persona alla quale la democrazia italiana
è molto debitrice e che avrebbe più che meritato di occupare un ruolo
designato per chi ha “illustrato la patria per altissimi meriti nel
campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Non l'avrà
illustrato in campo scientifico, artistico o letterario, ma sociale
sicuramente sì. Non ci hanno pensato né Ciampi né Napolitano, i due
presidenti che avrebbero potuto farlo e dai quali ci si sarebbe
aspettati la sensibilità necessaria per deciderlo. Rimane il sospetto
che non lo abbiano fatto perché era non solo una donna, caratteristica
che nel nostro Paese continua ad essere una debolezza quando si tratta
di trovare figure rappresentative, ma perché la sua storia politica,
proprio per le sue caratteristiche di autonomia e integrità, la rendeva
scomoda. Meglio lasciarla nell'oblio.
La sua rimozione dalla narrazione pubblica è talmente riuscita che,
quando Elsa Fornero venne designata ministra del Lavoro nel governo
Monti, molti, anche nei media, parlarono di prima donna a capo di quel
dicastero, dimenticando che c'era stata, molti anni prima, appunto
Anselmi, in un periodo altrettanto difficile e quando non era affatto
scontato per una donna trattare da pari a pari con i colleghi di
governo, con i rappresentanti sindacali e delle imprese.
La riparazione, parziale, a questo lungo oblio è avvenuta solo pochi
mesi fa, quando le è stato dedicato un francobollo. Chissà che cosa
avrebbe detto, quando era ancora lucida e piena di ironia, di questa
monumentalizzazione ex post e quando ormai era fuori gioco, lei che
ancora pochi anni fa aveva ammonito: «Lo ripeto sempre, a cominciare
dalle mie nipotine, che nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver
vinto possiamo anche perdere. Negli anni Sessanta e nei primi anni
Settanta noi donne impegnate in politica e nei movimenti femminili e
femministi, noi parlamentari con responsabilità nei partiti e nel
governo eravamo ancora pioniere. Questa parola fa pensare che in
seguito saremmo diventate più numerose e avremmo contato di più.
Purtroppo, certe speranze sembrano non aver dato i frutti che avevano
in serbo».
Aggiungo che per lei «contare di più» non significava solo “esserci”,
ma lavorare per migliorare la qualità sia della vita delle persone sia
della democrazia.
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