NUMERO 249 - PAGINA 1  - ANDARE A SCUOLA NEL 2016























































Scuola
Quando i genitori non si rendono conto
di danneggiare i figli



In teoria gli insegnanti dovrebbero essere più ignoranti degli allievi.
Visto quel che c'é adesso.



Se la mamma ha un lavoro flessibile, i figli parleranno più tardi






















































































Quasi quotidianamente scoppiano polemiche sul rapporto tra famiglie e scuola. Su ilLibraio.it le amare riflessioni di Isabella Milani, insegnante, blogger e scrittrice, secondo cui ci sono tanti tipi di genitori: quelli che amano il loro bambino, ma non hanno bisogno di dimostrarlo a nessuno; quelli convinti del fatto che più intervengono nella vita del figlio e più dimostrano quanto lo amano; altri ancora che al sorgere di un problema scolastico, partono all'attacco degli insegnanti... e ci sono le chat di genitori via whatsapp, "un'invenzione recente e assurda, in cui spesso viene violata la privacy"...

Per prima cosa vorrei precisare il fatto che l'amore verso i figli – in realtà – non è così scontato.
Ci sono anche genitori che considerano i figli come un peso o – peggio – come i responsabili del fatto che non hanno potuto realizzare i loro sogni, colpevoli di essere venuti al mondo, indesiderati.
Ce ne sono altri che li ignorano semplicemente; o che li maltrattano e li picchiano, e che addirittura li violentano. Lo sanno gli assistenti sociali, gli insegnanti, e a volte i casi di violenza li leggiamo sui giornali.
Nella mia carriera ho toccato con mano gli effetti disastrosi di queste situazioni. Ma non voglio parlare di questi genitori, ma di tutti gli altri, che sono la maggioranza.



Ci sono poi i genitori convinti del fatto che più intervengono nella vita del figlio e più dimostrano quanto lo amano.
Pensano sempre a lui, rispondono al suo posto quando qualcuno lo interpella, lo vestono con abitini sempre nuovi e alla moda, lo riempiono di giocattoli, e, quando è un po' più grandicello, invece di farlo giocare liberamente e spensieratamente, lo mandano a calcio, a nuoto, a judo, a karate, a pallavolo, a tennis. Arrivano a far fare al loro piccolo anche tre attività a settimana. Si lamentano perché devono accompagnarlo a destra e a sinistra, ma in realtà sono fieri di questo loro bambino super impegnato. Sicuri di indirizzarlo verso una buona cultura, lo mandando anche a lezione di danza, di chitarra, di pianoforte, di inglese, di matematica, di italiano, di francese; oppure lo aiutano tutti i giorni nei compiti, spiegano di nuovo le lezioni che l'insegnante ha spiegato in classe, studiano insieme a lui le poesie, la storia, le scienze, la geografia. Arrivano a far fagli fare esercizi in più, perché secondo loro l'insegnante ne ha dati troppo pochi.

Quando poi il bambino diventa un adolescente, continuano a metterlo sotto una campana di vetro, evitando loro ogni fatica e ogni potenziale dispiacere: lo accompagnano fino all'ingresso



E fra un “che cosa c'era di compito?”, un “a che ora è la riunione?”, ci sono anche i “ma l'ha spiegata la lezione? Secondo me quella lì non spiega niente e poi pretende che i nostri figli capiscano”, “a Mario ha dato 9 e al mio 8. Come mai?”, “Oggi Ruggero ha di nuovo dato una spinta a Mariolino. Ma che cos'ha quel bambino? È matto? Mi hanno detto che i genitori si picchiano”. E la privacy va a farsi benedire.
Questi genitori si convincono che il miglior modo per dimostrare a tutti quanto amano il figlio – bambino o adolescente – sia quello di difenderlo a spada tratta contro tutto e tutti: essendosi occupati a tempo pieno dei compiti e delle lezioni, delle attività sportive o ludiche o culturali del figlio, se per disgrazia un insegnante o un istruttore punisce il bimbo o il ragazzo, partono con la difesa a oltranza, anche in associazione con gli altri genitori, scrivendo lettere o rivolgendosi al dirigente perché intervenga. Difendono il figlio attaccando l'insegnante, reo di non aver capito le doti dell'alunno, di “avercela con lui”, di non saper insegnare o di non sapere tenere la disciplina, di fare delle preferenze, di essere nevrotico, ecc. Una nota, un rimprovero, un brutto voto vengono vissuti come insulti al bambino e rimproveri al genitore che lo segue, o a quello che non può seguirlo.





Nell'anno di grazia 1953 in prima elementare eravamo in 28 tutti maschi: a scuola avevamo
una sola matita e poi una sola penna col pennino.Classi maschili e femminile perchè c'erano 800 scolari. A fine anno due erano morti per il tifo e andammo in seconda  in 26. Insegnante il maestro Ghislotti da Urgnano. Per arrivare a scuola dovevo percorre una mulattiera di circa due chilometri e poi un po' di strada non asfaltata (ancora). Tranne pochi ragazzini figli di persone abbienti (allora si diceva così) nessuno di noi veniva accompagnato a scuola dai genitori. Avevamo in dotazione due soli quaderni, dalla copertina nera (pareva pelle ma era solo stampata in modesto rilievo) ed il libro di lettura. Uno solo.Cartella di materiale composito cartone e cuoio macinati e incollati. Il sottoscritto -come tutti- era stato avvisato che oltre alle tirate d'orecchie del maestro si sarebbe aggiunte quelle del padre. Un ricordo chiaro: non veniva in classe il prete a fare dottrinino, forse perchè un paio di noi erano valdesi ed almeno uno nemmeno battezzato.
che ogni anno ci regalavano un puledrino.Dei 28 che siamo partiti in prima elementare ben cinque hanno fatto le superiori e tre si sono laureati. Nonostante siamo partiti con due quaderni e un solo libro, senza mensa, senza pre e dopo scuola. Noi però abbiamo applicato con oltre 50 anni di anticipo il "piedibus"ed eravamo meglio delle scimmie nel salire sugli alberi per cibarci la frutta. Io e mia sorella, due anni più grande del sottoscritto, eravamo anche provetti cavalieri di Irma e Giulia. La nostra casa, al primo piano perchè era in montagna e sotto c'era la cantina, aveva sei stanze. Quella centrale verso il sole  era del tutto aperta  e dall'alta collina guardavamo la valle e il monte delle coti. Uno spettacolo. La casa. La vita




Hai un contratto precario, quindi con meno diritti legati alla maternità? Allora aumentano le probabilità che tuo figlio — rispetto al bambino di una mamma con un contratto di lavoro “regolare” — sviluppi in ritardo le capacità di linguaggio. È questo il risultato di una ricerca effettuata per l’università Bicocca dal giuslavorista Riccardo Bonato, prendendo in esame 334 nuclei familiari milanesi. Tradotto ancor più brutalmente: i contratti flessibili non solo sono economicamente svantaggiosi per il lavoratore, ma le minori tutele poi influiscono direttamente sulla vita (e sul benessere) in famiglia.
Lo studio, pubblicato dall’editore Franco Angeli, si intitola La famiglia flessibile. Sottotitolo: “Gli effetti transgenerazionali della flessibilità lavorativa: il caso di Milano”. «Il punto è che le storie di vita dei lavoratori flessibili raccontano qualcosa che passa spesso in secondo piano nel dibattito pubblico — spiega Bonato — . Professionalità altamente qualificate retribuite meno dei limiti di sopravvivenza; coppie senza accesso al credito per l’acquisto della casa; lavoratrici costrette a posticipare la maternità; uomini e donne senza un’identità lavorativa che possa dare loro dignità di fronte alla società». Da qui l’idea dello studio, che mira a dimostrare come «la flessibilità influenza la tutela della genitorialità e la differente fruizione di queste ultime ha un impatto sulla famiglia e sulla crescita del bambino».
Poco più di un quarto delle lavoratrici flessibili (o precarie) prese in esame utilizzano i permessi di allattamento. Contro il 60 per cento circa delle lavoratrici con un contratto stabile. Questo semplice fattore ha un impatto diretto sullo sviluppo del linguaggio del neonato: «La mancata fruizione del permesso da parte della figura di riferimento — si legge — aumenta del 48 per cento la probabilità che il figlio appartenga al gruppo dei bambini nei quali si rileva un rallentamento dello sviluppo linguistico».
Il campione della ricerca è stato stratificato, proporzionalmente alla cifra complessiva delle 9.900 famiglie con bambini da zero a tre anni a Milano, suddividendolo per tipologia del nido frequentato, per zona territoriale e per classe di età del bambino. Ne esce fuori quindi anche uno spaccato generale delle nuove famiglie in città: l’86 per cento ha uno o due figli, ma quasi il 40 per cento di tutte loro desidera tre o più bambini. Il 65 per cento alloggia in una casa di proprietà, ma il 70 per cento di queste è gravata da un mutuo.
Per quasi il 10 per cento delle donne l’essere diventata madre ha comportato la perdita del lavoro. È interessante, poi, come un terzo delle famiglie percepisca gli educatori precari come meno capaci di assolvere ai bisogni di cura, visti come soggetti che han- no meno tempo di instaurare una buona relazione con il bambino.

























































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































A scuola ci sono genitori e
genitori.
Ci sono i genitori che lavorano tutto il giorno, ma sono consapevoli che non conta la quantità, ma la qualità del tempo che possono trascorrere con i figli. Questi genitori amano il loro bambino, ma non hanno bisogno di dimostrarlo a nessuno. Lo lasciano libero di giocare, resistono all'impulso di comperargli tanti giochi, perché sanno che non è il numero di giochi che può renderlo felice, ma il modo di giocare, la tranquillità. Lo accettano con i suoi pregi e i suoi difetti, gli dicono dei “sì” e dei “no”, dei “devi” e dei “puoi”, anche se a volte costa loro fatica. Resistono alla tentazione di piazzarli delle ore davanti alla tv o di accontentarli in tutto, anche se sarebbe più facile. Non lo aiutano se non è proprio necessario, e se occorre lo fanno faticare un po', perché sanno che questo può aiutarlo a crescere e a diventare autonomo. Non concedono più di una attività extrascolastica, perché sono convinti che un bambino debba avere tanto tempo per giocare e un po' anche per annoiarsi e imparare a stare solo con se stesso. Lo lasciano sbagliare e correggersi, gli lasciano provare anche la sconfitta, perché sanno che nella vita la incontreranno e dovranno saperla affrontare e superare. Questi genitori non trovano strano che il loro bambino o il loro ragazzo possa sbagliare ed essere rimproverato, e perciò non corrono dall'insegnante per protestare se ricevono una nota, o un brutto voto da firmare, perché sanno che l'insegnante sta facendo il suo lavoro, che comporta anche questo. Questi sono i genitori che hanno un buon rapporto con gli insegnanti, perché mirano tutti allo stesso scopo: l'autonomia e la serenità del bambino.

Ma ci sono altri genitori che hanno un pessimo rapporto con la scuola.
Ci sono i genitori che lavorano tutto il giorno e non hanno tempo per stare dietro ai figli, e che per questo hanno dei sensi di colpa e, al sorgere di un problema scolastico, partono all'attacco degli insegnanti (che magari non hanno mai visto perché non hanno trovato il tempo di andare ai colloqui), perché – dicono – “Non ho tempo, ma se occorre, guai a chi mi tocca mio figlio!”. Durante tutto l'anno, questi genitori non si vedono, non vengono ai colloqui neppure se convocati ufficialmente, protestano perché ricevono dei messaggi o delle note o dei brutti voti, e non collaborano in nessun modo con gli insegnanti, che sono costretti a gestire dei bambini e dei ragazzi che a volte sono decisamente difficili. Soltanto quando arriva la fine dell'anno e temono una bocciatura, quei genitori trovano per magia il tempo di presentarsi a scuola per parlare con l'insegnante, sperando di convincerli a non bocciarli.


















































































































































































































































































Ho messo volutamente questo amarcord in mezzo a due pezzi che descrivono problemi del
tutto impensabili negli anni della mia scuola dell'obbligo. Non furono anni certamente felici (vedi i due morti per tifo) ma  mentre i nostri genitori sfornavano figli con generosità perchè s'aspettavano per se e per  noi un futuro -allora non avevamo nemmeno la "mutua"- adesso ci troviamo davanti situazioni paradossali e inattese come quelle descritte nella ricerca illustrata a destra. Già le nostre famiglie figliano pochissimo e stiamo ai livelli più bassi di natalità in Ue e adesso si comincia a verificare che  il "disordine" lavorativo dentro le famiglie crea di problemi di apprendimento e relazione anche nei figli.
Una fragilità aggiuntiva di cui proprio non si sentiva bisogno.
Ma l'aspetto più inquietante che si rileva é che la scuola é diventata una grande rappresentazione (teatrale) di comparse poco professionali dove ciascuna parte cerca di sfruttare o sopraffare le altre.
Dentro la scuola pare sia stato travasato  il consumismo deteriore delle famiglie ed anche i piani del diritto allo studio  prima che soddisfare esigenze degli alunni paiono soddisfare esigenze occupazionali e di mercato. Ogni anno ciascun alunno consuma enormi e in gran parte del tutto inutili quantità di quaderni, penne, attrezzi vari, libri salvo poi verificare quanto scrive nel dossier OCSE: "I ragazzi che si diplomano oggi sono meno preparati dei loro predecessori. A certificarlo lo studio che l'Ocse ha appena pubblicato e che confronta i risultati delle rilevazioni della fine degli anni Novanta con quelle più recenti del 2012. Se i quarantenni e i cinquantenni di oggi sono più preparati di quelli di vent'anni fa per le ultime generazioni di ragazzi che si affacciano al mondo del lavoro, la tendenza è invertita. Si tratta di un fenomeno non solo italiano ma che riguarda i sistemi scolastici di quasi tutti i Paesi europei (vistosa è l'eccezione della scuola in Polonia). Le cause, scrive Marco Paccagnella, che ha curato lo studio, possono essere diverse, ma sicuramente c'è un generale declino della qualità dei programmi dei sistemi scolastici rispetto alle competenze che sono richieste oggi".
Insomma...






Secondo gli studi, generalmente la prima parola del bambino avviene in un’età compresa tra i 9 e i 14 mesi. Così il campione è stato diviso in due categorie: chi l’ha pronunciata prima dei 15 mesi e chi dopo. Incrociando poi il dato con la situazione lavorativa della madre. «Nel segmento del campione in cui (la madre, ndr) è assunta con un contratto atipico la percentuale dei bambini che ha detto la prima parola dopo i 15 mesi è del 40,6 per cento. Laddove invece la madre ha un lavoro stabile, la percentuale scende al 28 per cento».
La precarietà (anzi, la flessibilità) fa sì che le neomamme prendano meno permessi e congedi e contemporanea mente lavorino di più. L’analisi statistica della ricerca, infatti, mostra che se non si fruisce dei riposi giornalieri la percentuale dei “bambini post- 15 mesi” è del 41,5 per cento; se invece si resta più a casa, scende al 25, 3 per cento.
Anche Stefania Radoccia, come Bonato, è una giuslavorista. Ma offre consulenza alle imprese. Quindi ha un punto di osservazione meno critico rispetto alla cosiddetta “flessibilità”. «Il Jobs Act ha introdotto alcune modifiche alla normativa previgente in tema di conciliazione tra vita professionale e vita privata che considero, però, marginali — ragiona — e non funzionali a sostenere le madri lavoratrici in una fase molto delicata della crescita del bambino. Analogamente anche la possibilità per i genitori di chiedere, anziché il congedo, l’orario part-time è, di fatto, subordinata alla totale discrezionalità del datore di lavoro. Non resta che giocare la partita a livello aziendale, con flessibilità che tutelino concretamente le madri lavoratrici e che siano funzionali a diffondere la cultura della diversità e di un ambiente di lavoro inclusivo».


Matteo Pucciarelli
La Repubblica /Milano




































































































della scuola media, e se per caso sono costretti a lasciarlo qualche metro più in là, piantano lì l'auto – incuranti della coda di auto che si forma – e corrono a portare loro lo zaino fino all'ingresso, perché il ragazzo non deve assolutamente stancarsi.
Intervengono nei suoi rapporti con i compagni, e guardano di nascosto il suo cellulare e la sua pagina Facebook, per controllare che nessuno lo prenda in giro.
I genitori di questo tipo – perché gli altri si rifiutano o abbandonano quando si accorgono dell'assurdità della cosa – si “associano” via chat con i genitori dei compagni di classe, per fare meglio questo loro lavoro di assistenza al figlio.
Le chat di genitori via whatsapp sono un'invenzione recente e assurda, e si sono diffuse perché fanno sentire quei genitori partecipi della vita del figlio e tanto utili.
E la chat serve – ufficialmente – a controllare quali sono i compiti assegnati o a che ora si entra il giorno dell'assemblea sindacale, e a chiedere chiarimenti circa un esercizio che né il bambino né la mamma sanno svolgere.

Per nulla preoccupati di segnare bene i compiti, o di stare attenti alle lezioni, i bambini e i ragazzi non hanno responsabilità, tanto “ci pensano le mamme”, e se il compito risulta sbagliato, dopo tutto la colpa è della mamma. Le chat evidentemente partono dal presupposto che i figli (e soprattutto gli insegnanti) siano degli incapaci e che i genitori debbano intervenire per limitare i danni.



Per qualunque problema o necessità – anche ad adolescenza inoltrata “ci pensa la mamma” o “ci pensa il babbo”, “tu non ti preoccupare”. So di genitori che cercano loro il lavoro per i figli ultraventenni, inoltrando domande e curriculum o addirittura andando personalmente a parlare con i responsabili dell'ufficio assunzioni delle aziende, magari mentre i ragazzi sono in piscina o in discoteca, belli tranquilli.
Ecco, ai genitori che rifiutano il rapporto con gli insegnanti, e a quelli iperprotettivi, persuasi che con il loro aiuto il figlio diventerà migliore e potrà, un giorno, realizzarsi, avere successo ed essere felice, vorrei dire che non è assolutamente così e che hanno buone probabilità di crescere dei figli non autonomi, scansafatiche e alla fine, disoccupati. E quindi infelici.
Rifletteteci, per il bene dei vostri figli. Soprattutto se vi siete in qualche modo riconosciuti.

Isabella Milani
27 ottobre 2016
Isabella Milani è lo pseudonimo di un’insegnante (Barbara Serra, Milano, 1974) e blogger che ha trascorso la vita nella scuola: dalla sua trentennale esperienza in cattedra nascono questi preziosi consigli pratici da insegnante a insegnante.