NUMERO 248 - PAGINA 1-  GORINO E I CORRIDOI UMANITARI



















































Corridoi Umanitari
Modelli di accoglienza
che possiamo esportare
di Goffredo Buccini







Incompetenti e menfreghisti passacarte



Gorino, Ferrara
La solitudine
dell'indigeno medio
di Ezio Mauro





































































































Illusione e realtà, panico e ragione: ci sono almeno due modi di essere Euro­pa di fronte ai migranti, e ancora ieri ne abbiamo visto la dimostrazione plasti­ca. Il primo inganno sta, come sempre, sulla punta della lin­gua: parlare di «emergenza» significa fingere di non vedere che le migrazioni sono un dato strutturale di questo secolo e dunque non si può rispondere con soluzioni straordinarie e diktat prefettizi a flussi per i quali dobbiamo attrezzare for­me di integrazione stabile. Il secondo inganno è politico, sta nel bluff dell'Unione, nella bugia della relocation, la redi­stribuzione dei rifugiati su tut­to il territorio europeo. «L'Ita­
lia è oggi ancora più sola di prima», ha detto, a Torino, Stephane Jaquemet, il delega­to dell'Alto commissariato Onu: «L'Europa fa un passo avanti e uno indietro, è para­lizzata». Con questi due gri­maldelli, emergenza e separa­zione, destre radicali ed estre­mismi identitari stanno



Il problema sta davanti a noi. I centri d'acco­glienza sono intasati, i vecchi Cara agonizzano eppure resta­no in vita, i tempi per decidere lo status dei migranti e il lorodiritto a rimanere in Italia so­no troppo lunghi (inaccettabi­li le attese tra il verdetto delle commissioni e l'appello). Insomma, le risposte di un siste­ma malato come in ogni setto­re dell'amministrazione, qui fanno più danni: perché scon­certano e spaventano la gente.
Proprio in queste ore, da Fiumicino, viene tuttavia una piccola luce, una diversa pro­spettiva. Stanno sbarcando tra ieri e oggi centotrenta siriani, da un volo di linea e non da un da un volo di linea e non da un barcone, attraverso il corrido­io umanitario creato da Sant'Egidio e dalle Chiese protestanti italiane in accordo con il nostro governo: sono così 400 da febbraio, diventeranno più di mille in un anno.
Questo da­to è paradossale perché, da so­li (e a loro spese), Sant'Egidio, valdesi
ed evangelici avranno por-



Gorino e l'Italia hanno la sfortuna di avere un governo col peggior ministro degli interni nell'anno più drammatico per gli arrivi di immigrati e clandestini: potrebbero essere 180-190mila a fine anno. Ad ottobre siamo dell'11% in più rispetto al medesimo periodo del 2015. Oltre questa sfortuna abbiamo quella di un'Europa che non si assume la responsabilità di prendersi in carico quegli immigrati distribuiti in base ai patti assieme a una governo che solo adesso minaccia di non votare il bilancio comune se l'Ue non impone a tutti gli stati di adempiere a quegli impegni. Magari si fossero svegliati cinque otto anni prima.
Il prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento Immigrazione del ministero degli Interni, non ha risparmiato critiche agli abitanti di Gorino: “È un amaro ricordo che quei cittadini si porteranno appresso a lungo” ha detto, sottolineando che “gli italiani che rifiutano l'aiuto doveroso a donne e bambini sono ottusi, mi vergogno di averli come connazionali”.
Il prefetto di Ferrara Michele Tortora dopo avere precisato che l'ipotesi di ospitare dei profughi a Gorino non era più in agenda perché aveva scelto di far  prevalere la tranquillità dell'ordine pubblico, e dice di rendersi conto che il fenomeno o si gestisce insieme con buonsenso oppure non si gestisce.



"Qui a Gorino non c'è niente. Niente per noi, che ci siamo nati: figurarsi per gli altri”. Potrebbe finire sui manuali di storia dei nostri anni complicati questa frase di una cittadina italiana, probabilmente moglie e madre, abitante della frazione di Gorino sul delta del Po, che ha partecipato al blocco stradale del suo paese per impedire l'arrivo di dodici donne immigrate coi loro figli nell'ostello requisito dal prefetto.
Le straniere sono state dirottate in tre altri centri del Ferrarese, Gorino continuerà a non ospitare nemmeno un immigrato, la protesta ha vinto. Smontate le barricate e il gazebo notturno i bambini possono tornare a scuola, i pescatori riprenderanno il mare. Tutto come prima? Non proprio. Quella frase dimostra che dall'egoismo del niente può nascere una vera e propria guerra per il nulla in cui viviamo. Che ci angoscia, ma che non vogliamo dividere con nessuno.
Sono parole sincere, fotografie brutali delle mille periferie italiane quelle pronunciate al posto di blocco di Gorino. L'ospedale più vicino è a 60 chilometri, il medico viene in paese un'ora al giorno e se ne va, gli uomini sono fuori in barca dal mattino presto fino al tardo pomeriggio perché vivono di 



È l'ultima espressione del welfare state: nato come forma di solidarietà, come strumento di emancipazione e di integrazione — dunque di cittadinanza —, diventa simbolo di divisione e di identità, come un privilegio da consumare soltanto noi, al riparo dagli occhi stranieri e alieni.
Per capire bisogna avere il coraggio e la pazienza di guardare dentro l'impoverimento morale prodotto in ognuno di noi dalla crisi, che agisce sul sentimento di sé e degli altri. È un percorso scavato dalla paura e dall'insicurezza, due giganteschi motori politici di cui raccoglieremo i risultati avvelenati tra qualche anno. La crisi più lunga del dopoguerra, la mancanza di lavoro, l'erosione dei risparmi, la disoccupazione giovanile, il terrorismo jihadista nei nostri Paesi sono fenomeni che tutti insieme trasmettono la sensazione di un mondo fuori controllo, senza più governance, con la mondializzazione che diventa una minaccia, la politica e le istituzioni fuori gioco. L'insicurezza sociale determinava ancora domande politiche, l'attesa di una soluzione di governo. Quando l'insicurezza da sociale diventa fisica, cerca invece soluzioni pre-politiche o post-statuali, che rispondano a paure più che a bisogni, a una necessità di protezione più che di emancipazione, come se in gioco ci fosse non più la sicurezza del cittadino, ma l'incolumità dell'individuo.
Questa miscela fatta di spaesamento e solitudine, panico del presente e angoscia del futuro, si scarica facilmente e immediatamente sull'immigrato. Soprattutto nelle piccole comunità, e nel caso di anziani soli davanti allo spettacolo della paura moltiplicato dalle televisioni, c'è il timore di perdere il filo di esperienze biografiche condivise, che è quel che forma identità e comunità. C'è il timore, cioè, di finire “globalizzati” a casa propria, spostati senza muoversi, mentre il mondo fa un giro completo intorno a noi che non sappiamo più padroneggiarlo, con le nostre mappe diventate inutili. “Noi non siamo razzisti”, ripetevano davanti ad ogni microfono gli abitanti di Gorino sulle barricate. Ed erano sinceri. Ma siamo arrivati al punto che la coscienza di sé diventa esclusiva, la paura spiega l'egoismo, il destino degli altri non ci interpella: purché non qui da noi, finiscano dove vogliono, finiscano come possono, finiscano comunque. È la presa d'atto di una sotto-classe umana che non ha diritti e non può pretenderne, perché non assimilabile e dunque superflua, quindi inutile. Quanto alla sua pretesa di sopravvivere, alla sua ricerca disperata di libertà a costo della vita, è un problema che non ci riguarda: non noi,













































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































pesca, quell'ostello prima requisito poi restituito funziona anche da bar, è l'unico centro di ritrovo del paese, ha qualche camera per i pochi turisti che in stagione vogliono fermarsi per un giro sul delta. È una vita minima, s'immagina di sacrificio, attorno alla casa, la famiglia e la pesca. Dovrebbe farci riflettere il fatto che l'unica volta in cui il paese si sente comunità, agisce insieme, trova un'espressione collettiva, è davanti alla notizia che arriveranno dodici richiedenti asilo. Gorino non ha stranieri, tutti sono del posto. Ma ugualmente reagisce ribellandosi al sindaco di Goro, al prefetto, al colonnello dei carabinieri che pro









































































































































































































pro­vando a far saltare il banco delle liberal democrazie euro­pee e dell'Europa stessa. Tutta­via negli avvenimenti di ieri si può cercare un sentiero di ra­zionalità, per stretto che sia.
All'alba, un pezzo dell'Euro­pa paralizzata ha mostrato la sua faccia nello sgombero di Calais. S'è lasciato per mesi, in barba agli allarmi della stampa e delle organizzazioni umani­tarie, che la Giungla al confine franco-inglese s'ingolfasse di «emergenze» diventando una
città dell'orrore per ottomila anime in cerca di futuro: ora lo sbocco è lo svuotamento for­zato, accompagnato da scon­tri, umiliazioni (ieri sulle file, in attesa per ore, il cibo veniva lanciato), nuova disperazione, fughe più o meno di massa.
Con ben altro spirito (il soc­corso in mare resta, a nostro avviso, fonte d'orgoglio nazio­nale) i marinai italiani hanno raccolto al largo più di quat­tromila profughi, salvandoli dalla morte tra le coste norda­fricane e la Sicilia. Ma, lo sap­piamo, il percorso di queste persone in terraferma sarà quasi di certo destinato ad ali­mentare tante piccole «giun­gle», slogan d'impatto (Matteo Salvini ha ripreso a battere sul- l'«invasione»)o incauti appel­li (difficile definire altrimenti l'invito alla disobbedienza ri­volto da un vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, alle nostre forze armate impegnate nel salvataggio dei migranti). La tanto sbandierata invasione ci porterà al massimo agli stes­si arrivi del 2014 ma sarebbe miope ridurne la percezione all'uso strumentale che ne fan­no leghisti e xenofobi.
Cento giovani profughi collocati, per ordine di un prefetto e magari all'insaputa del sindaco, nel­l'albergo di un paesino di mille abitanti e lì mantenuti senza far nulla a tempo indetermina­to, con un consistente lucro per la cooperativa che li ospi­ta, sono, oltre che un errore organizzativo, un chiaro invito al razzismo.



-tato qui un numero di rifu­giati quasi pari a quello che l'intera Unione Europea è riu­scita sinora a ricollocare tra fe­roci polemiche. I profughi del­la prima ondata sono già inte­grati e aiuteranno gli ultimi: accolti non solo da parrocchie ma da privati cittadini e istitu­zioni locali. Questa piccola im­magine nel giorno di Calais parrebbe dirci che la questio­ne dell'accoglienza (altro dalla sicurezza, naturalmente) va spostata su un piano diverso; che gli Stati devono essere an­che capaci di farsi volano d'ini­ziative simili a questa di San­t'Egidio, creando rete, contat­ti. Come in Italia l'accoglienza diffusa del sistema Sprar deve diventare norma e non ecce­zione, facendo emergere il buono che c'è nei nostri picco­li comuni senza ordinanze prefettizie, così in Europa è forse tempo di capire che il cuore dei cittadini è oppresso più che dalla xenofobia dalla burocrazia. Buonismo? Maga­ri. Ma soprattutto convenien­za, per un Continente che sta invecchiando troppo in fretta per rinunciare all'integrazione di chi arriva. In questa biblica narrazione delle migrazioni del Terzo millennio, spesso non siamo capaci di fare in­contrare domanda e offerta: ma a volte l'offerta è assai mi­gliore di quanto pensiamo, storditi come siamo dagli alti lai di chi ossessivo ci ripete «lasciamoli in mare».

Goffredo Buccini
LaRepubblica
































































































































































“Il sistema dell'accoglienza diventa sempre più stressante – ha aggiunto Tortora – ma le procedure sono state corrette. Non mi aspettavo una reazione del genere e l'ho trovata sconcertante”.
Certo è che se un giornalista ha saputo, in mezza giornata, informarsi e mettere insieme il freddissimo quadro descritto da Ezio Mauro su Gorino, questo non l'hanno fatto ne il prefetto di Ferrara e nemmeno quello a Roma. Le procedure saranno state sicuramente corrette ma è mancata sia la conoscenza del territorio (che ci stanno a fare i prefetti allordunque?) che l'instaurare dei “buoni e corretti” rapporti coi sindaci su un problema che è all'ordine del giorno.
Non è un pezzo di Schiaparelli caduto a Gorino.
Basta leggere l'elenco telefonico e dare un'occhiata a google earth o street per rendersi conto della realtà di Gorino. Dove trovi centinaia di villette con la recinzione verso strada che scavalchi con un mezzo salto.
Come abbiamo scritto più volte tutta la problematica dell'immigrazione è mai stata affrontata definitivamente nonostante ce l'abbiamo addosso da almeno dieci anni. E' l'Italia che ogni due anni  subisce un terremoto e puntualmente le case si sbriciolano salvo domandare a dio dove volgesse lo sguardo in quel momento.
Problemi atavici del paese sono sempre affrontati come una emergenza improvvisa. Un governo ciabattone –non solo il Renzi uno- che non è stato in grado ne di obbligare l'Ue ad una normativa inflessibile sull'accoglimento e la distribuzione degli immigrati ne di fare una normativa interna e così  tre sindaci su quattro si defilano.
Poi ovviamente quando i casini  diventano pubblici hanno le facce degli ultimi: siano essi cittadini che immigrati.
Poi il ragionamento si può fare al contrario. La classe politica non risolve il problema perché riflette esattamente il razzismo che è intimamente proprio della maggioranza degli italiani ben battezzati ben cresimati e col matrimonio ben benedetto. … e basta!




mettono di far fermare le migranti una sola notte in paese. «Cosa vengono a fare qui? Abbiamo già i nostri guai, non ne vogliamo altri».
Non ci voleva molto a prevedere quel che sta succedendo. La superficie sottile della civiltà italiana — la solidarietà cristiana, la fraternità socialista, il buon senso compassionevole liberale — si sta sciogliendo nei punti più deboli della nostra geografia sociale, i piccoli centri della lunga periferia italiana, i paesi di montagna e di campagna, le isole ghettizzate all'interno delle grandi città. Persone in buona parte anziane, estranee al circuito del consumo multiculturale, frastornate dalla globalizzazione, con gli immigrati si trovano nei giardini spelacchiati sotto casa un mondo che non hanno mai visitato e mai conosciuto, senza che le comunità siano state preparate a gestire il fenomeno, inquadrandolo nelle sue dimensioni, nelle prospettive, nel rapporto tra i costi e i benefici. Si sentono esposti, si scoprono vulnerabili, diventano gelosi del poco che hanno, egoisti di tutto: o appunto di niente, perché l'egoismo sociale funziona anche come forma identitaria di riconoscimento sociale e di auto-rassicurazione.
Va così in scena una vera e propria lotta di classe in formato inedito, che mette di fronte la modernità esausta e logorata della democrazia occidentale con la primordialità dei mondi disperati che prendono il mare per cercare sopravvivenza, e nient'altro. Gli ultimi si trovano davanti i penultimi, che non vogliono concedere agli stranieri un millimetro di spazio sulla terra che considerano loro. Se non fossero scesi fino appunto al penultimo gradino della scala sociale (quello di un ex ceto medio che viveva del proprio lavoro, e che con la crisi si sente precipitare nella mancanza di impiego e di futuro) non si sentirebbero sfidati direttamente dai richiedenti asilo che bussano alla nostra porta: non si sentirebbero “concorrenti”, invidiosi di quell'elemosina sociale che l'Europa elargisce con un'accoglienza riluttante, mandando i carabinieri a requisire sei stanze di un ostello vuoto in una stagione turisticamente morta.



non ora, soprattutto non qui.
In questo modo mutiliamo la nostra umanità e rinunciamo ad ogni politica nei confronti dei migranti. La sostituiamo con il bando. Ci basta bandirli per non vederli, respingerli per allontanarli, non farli avvicinare per proteggerci. Non capiamo che solo una Europa che abbia un ministro degli Interni dell'Unione e una politica estera unitaria può affrontare il fenomeno. Dovremmo pretenderla, imporla, costruirla, invece di mettere in campo misure burocratiche e fisiche di selezione, le liste delle lingue e dei dialetti, la richiesta di esaminare i denti dei ragazzi richiedenti asilo per capire se sono bambini, minori o adulti, i rilevatori di battito cardiaco e di CO 2 al porto di Calais quando arrivano i camion, per scoprire se ci sono esseri umani nascosti.
Se la politica non contrasta il passo alla paura, rispondendo ai sindaci toscani che denunciano una sperequazione nelle quote di accoglienza, ascoltando il sindaco di Milano che chiede di uscire dall'emergenza perché ormai il fenomeno ha bisogno di misure strutturali, faremo crescere mille casi Gorino, tentativi disperati e inutili di privatizzazione della sicurezza nella dispersione di ogni sentimento di fiducia nello Stato, nel suo senso di giustizia, nella sua capacità di garantire insieme protezione e democrazia. Proprio nel momento in cui credono di poter far da soli, non lasciamo soli i cittadini di Gorino: lo sono già, in compagnia soltanto delle loro paure. Ma sul delta del Po, ieri è nata l'ultima nostra raffigurazione contemporanea, spogliata del cosmopolitismo, dell'identità europea, del multiculturalismo, del sentimento di cittadinanza del mondo. È l'indigeno italiano, ciò che certamente noi siamo ma che non ci eravamo mai accontentati di essere.

Ezio Mauro
LaRepubblica