NUMERO 236 -PAGINA 3 - A PROPOSITO DI UN FEMMINICIDIO

















































































































La bambina. «Un metro e 55 per 40 chili», c’è scritto nelle carte dell’inchiesta. È della bambina che stanno parlando. «Se l’è cercata!». «Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione». «Sapevamo che era una ragazza un po’ movimentata». Movimentata? «Una che non sa stare al posto suo». Arriva in piazza il parroco Benvenuto Malara, va davanti alle telecamere: «Purtroppo corre voce che questo non sia un caso isolato. C’è molta prostituzione in paese».
 
Hanno violentato la bambina per tre anni di seguito. La prostituzione non c’entra niente. L’hanno violentata in nove, a turno e insieme. Tenendola ferma per i polsi, e poi obbligandola a rifare il letto. «C’era la coperta rosa», ha ricordato la bambina nelle audizioni con la psicologa. «E non avevo più stima in me stessa. Certe volte li lasciavo fare. Se mi opponevo, dicevano che non ero capace. Mi veniva da piangere. Mi sentivo una merda». Andavano a prenderla all’uscita della scuola media Corrado Alvaro, con la lettera V dell’insegna crollata. È sulla via principale, proprio di fronte alla caserma dei carabinieri. Caricavano la bambina in auto e andavano al cimitero vecchio, oppure al belvedere o sotto il ponte della fiumara. Più spesso in una casa sulla montagna a Pentidattilo, dove c’era il letto.
 
Quando questa tragedia italiana è incominciata, la bambina aveva 13 anni. Ora ne ha compiuti sedici. Una settimana fa, annunciando l’arresto degli stupratori, il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, ha detto: «Questo territorio sconta un ritardo costante. C’è una mancanza di sensibilità. Anche i genitori sono stati omertosi. Tutti sapevano».
 
Adesso c’è una fiaccolata in piazza davanti alla stazione. Quattrocento persone presenti, molte arrivate da altri paesi. L’associazione Libera di don Ciotti, gli scout, i gonfaloni. Quattrocento persone su 14 mila residenti. L’altro parroco si chiama Domenico De Biase: «Sono tutte vittime - dice - anche i ragazzi. E poi, io credo che certe volte il silenzio sia la risposta più eloquente».
Ce n’è già stato troppo di silenzio, a Melito di Porto Salvo. Le parole qui sono sempre colpevoli, come uno specchio che rimanda indietro l’immagine che non si deve vedere.
Il sindaco Giuseppe Meduri sale sul palco ed attacca la giornalista Giusy Utano del TgR Calabria:







Tiziana Cantone si è uccisa. Lapidata dalla rete. Messa alla gogna nella rumorosa agorà dei social.
Perseguitata dal dileggio pecoreccio confezionato con le tecnologie del web: video, clip mescolati alle immagini private di quel tristemente famoso filmino hard, finito in mani sbagliate e diventato virale. I verbi risultano ossimorici rispetto ai contesti ai quali si riferiscono: lapidare, ingiuriare, perseguitare… evocano scenari tribali e violenti, culture primitive o che comunque vorremmo lontane da noi, non solo nel tempo ma anche nello spazio geografico; mentre lo scenario in cui si collocano l'agonia pubblica e il suicidio di Tiziana è tecnologico, è postmoderno. Ed è forse in questo stridente contrasto o, meglio, nell'ibrida mescolanza di arcaico e contemporaneo, vecchio e nuovo, degrado culturale e spregiudicatezza morale che si potrebbe cercare il senso ultimo di questa brutta storia che ha per l'ennesima volta come vittima una donna presa d'assalto dal branco. Perché quel che fa la differenza non è il mezzo (in questo caso la rete), ma le culture, e sarebbe più esatto dire le sottoculture, che vi si esprimono: il voyeurismo, il sessismo, l'aggressività collettiva che una volta veniva aizzata dallo spettacolo del sangue e oggi è eccitata dalle immagini che violano la privacy, ridicolizzano l'handicap e il guasto, o espongono la nuda fragilità di tutti noi nei momenti più intimi.
Allora, quel che è accaduto a Tiziana non è che l'insopportabile deja-vu di quanto è già successo mille e mille volte ad altrettante donne prima di lei.







Tiziana Cantone si è suicidata, impiccata con un foulard nello scantinato della sua nuova casa di Mugnano, in provincia di Napoli; il corpo è stato trovato dalla zia. Si chiude nel modo più drammatico possibile una vicenda che per mesi era rimbalzata sui social: girando prima fra una cerchia ristretta di utilizzatori di WhatsApp, per poi approdare alla “ribalta” più ampia di Facebook e Twitter. On line erano finiti (a sua insaputa) filmini piccanti girati per un (pericoloso, a giudicare da quel che è successo dopo) gioco hard. Non più tardi di qualche giorno fa il suo nome è tornato agli onori della cronaca, stavolta per una sentenza che avrebbe potuto garantirle, finalmente, il diritto all’oblio. Ma, paradossalmente, avrebbe dovuto anche pagare le spese processuali. Infatti, da un lato il giudice le aveva dato ragione obbligando alcuni social, come Facebook, a rimuovere video, commenti, apprezzamenti e al pagamento delle spese per una cifra pari a 320 euro. Dall’altro lato, però, la donna era stata a sua volta condannata a rimborsare le spese legali a cinque siti per circa 20mila euro.

Le spese
La decisione è stata depositata lo scorso 8 agosto. Il giudice Monica Marrazzo aveva accolto parzialmente le richieste stabilendo che per alcuni motori di ricerca e altri siti, che avevano già provveduto alla rimozione delle immagini e dei commenti, l’azione era da respingere. La domanda, invece, era stata accolta nei confronti di Facebook e di altri soggetti ai quali veniva imposta l’immediata rimozione di ogni post o pubblicazione con commenti e apprezzamenti riferiti alla donna. Per quanto riguarda, poi, le spese il giudice aveva condannato Facebook ed altri tre soggetti al pagamento di 320 euro ciascuno per esborsi e 3645 euro per compensi professionali. La ricorrente era stata condannata al rimborso nei confronti di Citynews, Youtube, Yahoo, Google e Appideas di 3645 euro, per ciascuno, per le spese legali oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15%.

No al diritto all’oblio
Nell’ordinanza relativa al provvedimento di urgenza con cui è stata stabilita la rimozione dal web di immagini e commenti lesivi della reputazione della donna, il giudice aveva precisato come a Tiziana Cantone non potesse essere accordato il diritto all’oblio.
«Nel caso di specie - scrive infatti il magistrato - non si ritiene che rispetto al fatto pubblicato sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività.






























































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































«Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi». Ma che colpa ne ha la giornalista, se una delle voci raccolte nel servizio mandato in onda era quella di una signora che diceva così? «Sono vicina alle famiglie dei figli maschi. Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare».
 
Melito di Porto Salvo è un paese in discesa, tagliato in due dalla statale 106 e dalla ferrovia. Ci sono rifiuti accatastati, case senza intonaco, balconi crollati. Il commissariato di polizia è davanti allo scheletro di una costruzione abusiva. E adesso, alla fiaccolata in solidarietà, in mezzo alle poche persone presenti, c’è anche il padre della bambina. «Purtroppo mi aspettavo questo tipo di partecipazione», dice camminando con un piccolo lumino in mano. «Tante volte avrei voluto andarmene da questa situazione. Non mi piace usare la parola schifo, perché a Melito ci sono cresciuto. Ma se potessi, certo, se non avessi il lavoro, prenderei mia figlia e la porterei lontana. Abbiamo cercato solo di difenderci».Uno stupratore si chiama Giovanni Iamonte, «rampollo di un esponente di spicco della locale cosca della ’ndrangheta, soggetto notoriamente violento e spregiudicato». Un altro stupratore si chiama Antonio Verduci, ed è figlio di un maresciallo dell’esercito.
Un altro stupratore è Davide Schimizzi, fratello di un poliziotto. Intercettato durante le indagini, chiede consigli proprio a lui. E li ottiene: «Quando ti chiamano, tu vai e dici:non ricordo niente!. Nooooo. Davide, non fare lo "stortu". Non devi parlare.























Presupposto fondamentale perche’ l’interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali adducendo il diritto all’oblio - scrive il giudice nelle motivazioni - e’ che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo (e dalle quali l’interessato ha cercato di allontanarsi intraprendendo nuovi percorsi di vita personale e sociale) che pero’, per mezzo della rappresentazione istantanea e cumulativa derivante dai risultati delle ricerche operate mediante i motori di ricerca, rischiano di riverberare comunque per un tempo indeterminato i propri effetti sull’interessato come se fossero sempre attuali; e cio’ tanto piu’ considerando che l’accesso alla rete Internet e il successivo utilizzo degli esiti delle ricerche effettuate .

L'azione legale.
L'avvocato della ragazza Roberta Foglia Manzillo aveva citato in giudizio












































































































































































































































































































































Dici: guardate, la verità, non mi ricordo. E come fai a non ricordare? Devi dire: sono stato con tante ragazze, non mi ricordo!».
 
Lo storto. La verità. E la bambina. All’inizio pensava che Schimizzi fosse il suo fidanzato, ma poi ha spiegato in cosa consistesse lo stare con le ragazze: «Questo suo amico si mette dove era prima Davide, cioè sopra di me. Però io faccio di tutto per andarmene perché non volevo e mi ero già rivestita. Così Davide ha aiutato questo suo amico a riscendermi i pantaloni. E con questo Lorenzo abbiamo avuto un rapporto, ma proprio un attimo, perché non stavo ferma, dopo di che hanno iniziato ad insultarmi…».
 
La bambina non mangiava più. Spesso mancava da scuola. Il vecchio preside Anastasi: «Una situazione squallida, ma all’omertà non ci credo». Il nuovo preside Sclapari: «La scuola non c’entra, ognuno deve pensare alla sua famiglia». In realtà la scuola c’entra eccome, malgrado se stessa. Mentre frequentava un istituto di Reggio Calabria, la bambina ha scritto un tema sui suoi genitori. La brutta copia di quel tema è arrivata a casa. E’ stata lei stessa a spiegare alla psicologa cosa ci fosse scritto: «I miei genitori si stavano separando. E nonostante io non abbia detto niente per proteggere anche loro, ero un po’ arrabbiata perché loro comunque non si sono mai accorti…». Quel tema è l’inizio della consapevolezza.
 
Nessuno potrà mai considerarsi salvo in Italia se in Calabria non verranno liberate le parole e salvata la bambina di Melito. Su Facebook ha cancellato tutti gli amici. Nella fotografia è accanto al padre. Ha scelto una frase del filosofo nichilista Friedrich Nietzsche: «La migliore saggezza è tacere ed andare oltre».

Nicolò Zancan
La Repubblica
11 settembre 2016






E chissà quanto ha trovato somigliante, questa giovane donna, il villaggio dei social alle piazze e alle strade di uno dei tanti paesi dell'hinterland napoletano da cui proveniva; quanto simile la malevolenza della gente che ti addita alle spalle, che ride al tuo passaggio, che imbratta i muri di casa con scritte oscene (non ci ricordano per caso la bacheca di fb?), e che colpisce sul web come in paese con la violenza del gruppo, perché ciascuna di quelle persone, seppure conosciuta, s'è fatto folla, e nella folla siamo tutti anonimi, e tanto più cattivi. Ridevano in tanti di Tiziana, di lei sghignazzavano calciatori di una certa fama e cretini qualsiasi, tutti però al riparo dai suoi sentimenti: nessuno di loro ne ha mai visto o sentito lo sgomento, ha mai dovuto fare i conti con la sua disperazione, o assumersi il peso della vergogna provocata dalla pubblica derisione che l'aveva indotta a rifugiarsi con la madre in un domicilio diverso. La reificazione, quel processo mentale che permette di trasformare una persona in una cosa, è all'origine della violenza, e lo è della notte dei tempi. Ancora non sappiamo se il fascicolo aperto dalla Procura di Napoli per istigazione al suicidio avrà degli sviluppi e quindi dei colpevoli, ma vale comunque la pena riflettere sul fatto che in questo Paese continua a morire una donna ogni due giorni; tutte uccise da uomini che dicono di amarle: fidanzati, amanti, mariti… Che nella stragrande maggioranza dei casi non «sopportano» di essere stati lasciati, e che dunque riducono quelle donne, insieme alla loro scelta di libertà, appunto, in «cose» di loro possesso. E siamo allo stesso punto: vecchi cascami di mentalità che ci illudiamo di aver liquidato da una parte, e nuovi comportamenti dall'altra. Nel mezzo c'è tutta la strada che resta da fare a una società e a un Paese che vogliono definirsi civili per sradicare quella miseria culturale che ha portato Tiziana a un viaggio senza ritorno nell'oblio.



Iaia Caputo
Iaia Caputo (1960) è nata a Napoli e vive a Milano. A lungo giornalista, ha tenuto la rubrica di libri per “Marie Claire” e per “Flair” dal 2001 al 2006. Ha scritto per “Il Diario” e attualmente per “D di Repubblica”. Ha pubblicato i saggi Conversazioni di fine secolo (La Tartaruga, 1995), Mai devi dire. Indagine sull'incesto (Corbaccio, 1996), Di cosa parlano le donne quando parlano d'amore (Corbaccio, 2001), e il romanzo Dimmi ancora una parola (Guanda). Per Feltrinelli ha pubblicato Le donne non invecchiano mai (2009), Il silenzio degli uomini (2012) e Era mia madre (2016).







Facebook Ireland, Yahoo Italia, google e Youtube e le persone coinvolte nella diffusione dei video, ottenendo un provvedimento d’urgenza atto a rimuovere dal web qualsiasi pagina che facesse riferimento a Tiziana e a quelle immagini. Frame che avevano attirato su di lei non solo la curiosità pruriginosa dei suoi compaesani — era originaria di Casalnuovo di Napoli — ma anche una buona dose di offese e insulti. Intanto la Procura del Tribunale di Napoli nord ha aperto anche un fascicolo per istigazione al suicidio.

L’ordine del giudice: rimuovere i video
Per il giudice che si occupa del caso, Monica Marrazzo, quei video sarebbero dovuti sparire subito dopo aver compreso quanto fossero lesivi della sua identità. Ora però è tardi. A soli 31 anni Tiziana Cantone non è riuscita a superare la vergogna e il dolore, già un po’ di tempo fa aveva tentato di togliersi la vita. Dal momento in cui quei video sono finiti in rete, la sua vita è stata stravolta. Il web, con la sua ferocia, l’ha massacrata. Sulla sua bacheca di Facebook sono arrivati gli insulti più feroci e violenti, tutti da parte di centinaia di persone che di lei non sapevano assolutamente nulla. Nei mesi successivi alla vicenda Tiziana Cantone aveva persino lasciato Napoli, rifugiandosi in Toscana con la speranza di poter trovare un minimo di serenità e riprendere in mano le redini della sua vita; le era anche stato accordato l’iter per il cambio del nome. Non è riuscita però a liberarsi dal dolore di una vicenda che le ha strappato via ogni diritto. Tiziana non ha retto, si è impiccata nel suo stesso appartamento di Mugnano; alloggio nel quale assieme alla madre stava provando a rifarsi una vita.

Raffaele Nespoli
Corriere della Sera
13 settembre 2016