NUMERO 235 - PAGINA 4 - DARE UNA PROSPETTIVA AI CLANDESTINI





































































































































































La nuova prefettessa non ce le ha mandate a dire: appena posate le valigie, ha immediatamente chiarito che dovremo per forza o per amore accettare l'idea dell'accoglienza, ovviamente sappiamo di chi. Ma lo sapevamo già, grazie. I suoi puntini sulle «i» dovrebbe eventualmente rivolgerli a una parte dei bergamaschi, soprattutto di estrazione leghista. Quanto agli altri, alla maggioranza, possono ben dire senza falsa modestia e senza arroganza di non averne proprio bisogno. Storicamente e culturalmente, Bergamo ha certamente molti difetti, ma non ha nulla da imparare nel settore solidarietà. Dicendola tutta, avrebbe caso mai da insegnare. Se questo arrivo di immigrati sta sollevando qualche accigliata obiezione, non è per pulsioni razziste o per insofferenze borghesucce: è perché qui, abitualmente, piace fare le cose per bene. Seriamente. Magari senza tante cerimonie e senza tante smancerie, ma nel modo più efficace. La nuova prefettessa, calabrese di nascita, sa come può ridursi nella sostanza l'accoglienza all'ingrosso, senza se e senza ma: basta che torni un paio d'ore a Rosarno e comprenderà meglio quanto intendo dire. A Bergamo nessuna Rosarno.
Per noi, ma soprattutto per loro, gli immigrati. Siamo da secoli gente di emigrazione, sappiamo cosa hanno sofferto i nostri nonni e i nostri padri, in giro per il mondo: non possiamo permettere che i nuovi disperati subiscano uguale pena. È questo il vero nervo scoperto dell'immigrazione, almeno qui da noi. Pretestuoso e stucchevole affrontare il fenomeno con il metro grossolano del buonismo o del razzismo. Se possibile, bisogna usare la ragione. E questa ci dice subito un paio di cose essenziali. La prima: serve una grande trasparenza. Proprio quella che è mancata nel caso dei 250 disperati (o sono 300?) «scoperti» al vecchio ospizio di via Gleno.
Caro signor prefetto, è sacrosanto da parte sua chiedere ai bergamaschi di onorare i propri impegni morali e civici con il fenomeno epocale degli esodi biblici.







"Il coraggio uno non se lo può dare" mormora don Abbondio al termine di un durissimo colloquio col cardinale Federico sentendosi come un pulcino nelle grinfie di un falco. Vengono in mente queste parole studiate alla scuola dell'obbligo davanti all'atteggiamento di molti amministratori stretti tra la voglia personale di dare ospitalità a questa gente e il rifiuto –non sai mai se politico o personale- di loro stessi o delle rispettive maggioranze e delle rispettive popolazioni che proprio non vogliono i «nigher».
Non siamo d'accordo con Gatti e le sue argomentazioni perché, come fai a scrivere: ”Si fermano mesi e mesi, non è accettabile che se ne stiano a ciondolare nel nulla .Immaginiamoci il loro animo e la loro psiche, affacciati sul vuoto ventiquattr'ore su ventiquattro. Immaginiamo quali abissi di depressione e di pessimismo possano raggiungere. Poi è inevitabile che qualcosa si rompa: chi ha forza e carattere può reagire nel modo peggiore, sfogando rabbia e frustrazioni nel vandalismo e nel malaffare. Chi è più debole e più fragile può cadere nel labirinto del disagio mentale”.
Ad essere buoni è un ossimoro: come fai a collegare il non poter far nulla con la possibile volontà di “sfogare rabbia e frustrazioni nel vandalismo e nel malaffare”?
Se fai un tubo diventi un delinquente (Mah ! ? )..
Speriamo (non)valga anche per gli italiani questa eguaglianza altrimenti abbiamo capito finalmente tutto.
In una cosa Gatti ha ragione: queste persone sono sostanzialmente abbandonate perché non esiste una linea politica funzionante per deciderne il destino.



Terzo aspetto, riguardante chi vuole fermarsi in Italia, che siano affidati immediatamente a privati o aziende dove comincino un tirocinio per imparare a lavorare, a stare cogli altri, a vivere con standard europei, a curare la salute e imparare lingua e costumi.
Non più quindi i pollai delle varie organizzazioni dove stanno come in collegio da cui escono per fare dei lavoretti per i comuni. No. Vadano in famiglie o presso aziende e li inizino il loro ciclo di vita italiano fatto di imparare un lavoro, imparare a rapportarsi coi compagni di lavoro e scuola, insomma verificare se hanno voglia di diventare cittadini dell'Ue oppure decidere diversamente.
Ovvio che tutto questo ha bisogno non solo di buona volontà o di costrizione nei confronti degli enti locali da parte delle prefetture ma va creato in breve tempo –protezione civile, sveglia!- un protocollo molto scheletrico ma ben chiaro dove siano anche indicate le  risorse e come siano distribuite.
Chiaro poi che anche l'Ue non può limitarsi a dare un po' di soldi e mandare qualche nave. Dinanzi ai numeri dell'immigrazione occorre una struttura politica e militare e civile di prim'ordine molto più ferrata del fare la guerra in







Se, come diceva Carlo Levi, le parole sono pietre, allora stiamo seriamente rischiando di seppellire le possibilità di vincere la sfida dell'accoglienza sotto un pesante ammasso di vocaboli faziosi e fuorvianti. Clandestini, ladri e finti profughi sono solo gli esempi più recenti delle definizioni fuori luogo che certi politici e perfino alcuni rappresentanti delle istituzioni usano per definire migranti, richiedenti asilo e rifugiati. La lista è lunga e ricca, purtroppo. Ed è il simbolo delle provocazioni che, quotidianamente, avvelenano il dibattito pubblico, falsano i presupposti di ogni confronto e tolgono umanità a chi, dopo viaggi estenuanti, arriva nel nostro Paese per rifarsi una vita. Serve allora ribaltare la prospettiva.
Oggi, ancor prima di mettere piede sulla terraferma, chi attraversa il Mediterraneo viene incasellato: profugo, clandestino, richiedente asilo, migrante economico, e chi più ne ha più ne metta. A volte per interesse, altre per consuetudine, ci si dimentica che stiamo parlando di persone. Ovvio, diranno alcuni. Banale, diranno altri. Posizione da buonista, sosterranno altri ancora.
Personalmente, sono fermamente convinto che l'umanità sia la premessa dalla quale cominciare ogni ragionamento sulle misure da mettere in campo.



























































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































Afganistan o vigilare la pace in Libano. Cogli immigrati non servono droni che fanno profitti delle imprese ma occorre «intelligenza» che è una materia che non si fabbrica e comprare.
L'Ue non solo non ha un esercito militare proprio (non sarebbe poi la mancanza peggiore…) ma non dispone nemmeno di un “esercito di pace” che sia in grado di gestire unitariamente con la necessaria “forza della politica” interna e verso l'esterno (dell'Ue) questa emergenza profughi che ormai è diventata un fenomeno stabile.
Magari elastico o variabile ma stabile nei prossimi anni.


























Avere un approccio umanitario significa partire da queste premesse per mediare tra il sacrosanto dovere all'accoglienza e i diritti altrettanto sacrosanti di tutti i cittadini alla legalità, alla coesione sociale e a una vita dignitosa, soprattutto nei territori più complessi e meno ricchi. Per farlo, è necessario che la politica e, soprattutto, le istituzioni non cedano alla tentazione di semplificare, strumentalizzare e fomentare.
È poi cruciale che i nostri governanti accolgano le preoccupazioni e le paure della cittadinanza, quelle reali, autentiche, umane.
Solo incontrando le persone e mettendo-












































































































































































































-ci la faccia, è possibile togliere ossigeno ai populismi, evitare che le paure diventino isteria o peggio. Solo spiegando e dialogando è possibile trasformare questa crisi in un'opportunità. Non è un paradosso e nemmeno una provoca -zione: credo fortemente che sia possibile far diventare la cosiddetta emergenza immigrazione un'occasione di sviluppo e coesione per i nostri territori.
Certo, perché ciò avvenga è necessario lavorare con convinzione, dal punto di vista pratico, ma anche culturale. Per quanto riguarda il primo aspetto, è indispensabile distribuire le persone capillarmente sul territorio e attivare la cittadinanza che, laddove




Così come è sacrosanto, per inciso, chiedere anche comprensione e disponibilità per trovare un luogo di culto ai musulmani. Ma non si può solo chiedere. Lo Stato deve anche dare qualcosa. Ovviamente in termini di sicurezza. Ma non solo. E qui veniamo alla seconda cosa essenziale che la ragione ci sta insegnando, la più importante: non possiamo tenere gli immigrati perennemente stoccati, in amorfo parcheggio, come merce scaduta in un vecchio magazzino. Si fermano mesi e mesi, non è accettabile che se ne stiano a ciondolare nel nulla .
Immaginiamoci il loro animo e la loro psiche, affacciati sul vuoto ventiquattr'ore su ventiquattro. Immaginiamo quali abissi di depressione e di pessimismo possano raggiungere. Poi è inevitabile che qualcosa si rompa: chi ha forza e carattere può reagire nel modo peggiore, sfogando rabbia e frustrazioni nel vandalismo e nel malaffare. Chi è più debole e più fragile può cadere nel labirinto del disagio mentale. C'è un unico modo per arginare questi rischi spaventosi: il lavoro. Non c'è come trovare uno scopo quotidiano, che in qualche modo assorba le energie fisiche e intellettuali, per rispettare la dignità di un uomo. Di questo si sente l'urgentissima necessità. Questo è il limite e il difetto della nostra accoglienza sbracata. Alle persone in arrivo bisogna affidare un ruolo e un'occupazione. Fa bene a loro e fa bene pure a noi, che possiamo beneficiare di una grande collaborazione. Inutile fare la lista dei possibili impieghi: alcuni sindaci responsabili — altro che nuovi schiavisti — stanno provandoci.
Ci sono mille ostacoli, la solita burocrazia prima di tutto, ma credendoci davvero qualcosa si











































































































































































































































































Decisione che non può essere solo di uno stato ma in primis della persona che è arrivato in fuga dalla sua terra.
Magari non gli importa nemmeno di abituarsi e imparare a vivere in Italia perché la maggioranza di loro  mira a raggiungere una Germania o una Inghilterra. O la Svezia.
Ma l'abbandono si può risolvere con diverse decisioni che non possono spettare solo ai prefetti e ai sindaci.
Prima di tutto occorre dare una risposta in brevissimo tempo se possono stare in Ue e quindi mandarli nel Paese dove hanno chiesto di andare.











informata e coinvolta, si è dimostrata molto spesso più aperta e disponibile di quanto si vorrebbe far credere. Lo ha ricordato anche l'arcivescovo Angelo Scola, ammonendo contro le posizioni di sterile chiusura e invitando tutti a far la propria parte, soprattutto in giorni in cui gli arrivi sono tornati a crescere.

Virginio Colmegna
La Repubblica /11 settembre 2016





























































































































































































































































Il buonismo renziano di aiutare i popoli a casa loro per evitare fughe altrove non è risolutivo nemmeno moltiplicando le risorse finora destinate. Serve solo a fare profitti per le imprese nazionali.
L'idea o il progetto di distribuire correttamente questi migranti in tutti i comuni in base agli abitanti (e al reddito: bisogna dirlo!!!!!!!!!) prefigura che poi le comunità si arrangino. Una cardioaspirina.
Invece deve esistere un progetto europeo che nello spazio di sei mesi traccia le linee e l'organizzazione dappertutto (nell'Ue) per affrontare il problema migrazioni comunque motivate. Che saranno sempre moltissime per moltissime ragioni: dalla guerra  dalla religione alla fame al clima ai terremoti.

Oddio!. Certo che  osservando l'Ue adesso come adesso viene da mettersi le mani nei capelli.






































































































può inventare.
Dove è successo, i risultati sono incoraggianti.
Signora prefettessa, mentre ci chiede una maggiore disponibilità, si dia da fare su questo fronte.Trasformare gli immigrati da annoiati bighelloni in preziosi lavoratori, da larve umane in creature rispettate, è una vera sfida. Nostra, ma anche sua.

Cristiano Gatti
Corriere della Sera /Bergamo
11 settembre 2016







Se vogliono raggiungere altri paesi questi li debbono accogliere se ne hanno diritto. E questa è una decisione dell'Europa: capire finalmente la differenza tra i paesi di transito obbligatorio occasionale e i paesi in cui hanno scelto di vivere.
Secondo occorre stabilire che l'accoglienza – che si faccia in Grecia piuttosto che in Italia o altrove – deve essere gestita dall'Ue e non affidata al buonismo dei singoli paesi. Tranne l'Italia il resto dell'Ue è tutto tranne che “buona”.Ogni nazione della sponda nord del Mediterraneo deve ospitare degli uffici Ue che trattano il primo incontro con questa gente. Che poi siano affidati (anche) ai centri  più vicini nel periodo (un mese al massimo) necessario per deciderne la destinazione finale ci può stare.
Un mese solo però.
Non tre o sei o dodici o diciotto.