NUMERO 228 -PAGINA 1- SE VINCE IL NO, QUESTO PARLAMENTO VADA A CASA


























Cosa c'è di realmente nuovo nell'in-
tervento di Renzi alla Ver-
-siliana? Un aspetto essenziale, solo in parte collegato alla promessa di dimissioni più o meno rientrata. Difatti in passato il premier-segretario aveva parlato di un “ritiro dalla vita pubblica”, che è cosa assai più impegnativa di una normale procedura di dimissioni. Essendo Renzi anche il capo del Pd, una simile eventualità avrebbe gettato nello scompiglio sia il partito di maggioranza sia ovviamente il governo, rendendo impossibile il cammino della legislatura.
Oggi il presidente del Consiglio non dice a chiare lettere di aver cambiato idea circa le dimissioni. Nelle sue parole non c'è nulla che escluda la salita al Quirinale in caso di vittoria referendaria del No. E infatti sarebbe strano il contrario: difficile immaginare che una sconfitta nella consultazione popolare non abbia immediati effetti sul governo. Tuttavia Renzi non parla più di abbandonare la vita pubblica e butta lì la frase che ha dato il titolo ai giornali: “si voterà nel 2018”. Anche questa è un'affermazione da soppesare con prudenza perché nessuno è in grado di prevedere adesso, agosto 2016, cosa potrà accadere nei prossimi mesi o addirittura nei prossimi due anni. Ma quel richiamo al '18 un senso ce l'ha.
In primo luogo è un gesto rispettoso nei confronti del capo dello Stato a cui la Costituzione assegna il dovere di verificare e decidere se e quando la legislatura può essere interrotta. Si tratta, come è noto, di un compito tipico del presidente della Repubblica e non è mai stato espropriato da Palazzo Chigi, al di là di qualche confusione mediatica. Ma soprattutto Renzi ha inteso dire che in caso di vittoria del No il Pd continuerà a svolgere il suo ruolo di partito di maggioranza. Lo farà con l'attuale governo, magari dopo un inevitabile chiarimento davanti alle Camere, oppure con un altro.
Ne deriva che il giorno dopo il referendum le dimissioni di Renzi ci possono stare: dipende ranno dalle scelte sue e del presidente della Repubblica.

Quel che è certo, non avremo l'apocalisse. Con l'eventuale affermazione del No le istituzioni non saranno destinate al collasso. Non ci sarà alcun abbandono della vita politica da parte dell'attuale premier, ma è verosimile che il Quirinale riacquisterà quella maggiore centralità nel sistema che era andata perduta nell'ultimo periodo. Mattarella si troverà per la prima volta ad avere in mano il bandolo della matassa e se ne occuperà secondo il suo stile, che è comunque diverso da quello di Giorgio Napolitano. In ogni caso, sembra di capire, Renzi non ha alcuna intenzione di abbandonare il controllo del suo partito, ormai in buona misura plasmato a sua immagine e somiglianza.
Al momento bisogna quindi dar ragione a Piero Fassino quando afferma, nell'intervista a questo giornale, che con le dichiarazioni di domenica il premier “ha definitivamente archiviato la personalizzazione del voto”. Il richiamo al 2018 e il tono in generale cauto rappresentano nella sostanza il tentativo di chiudere il cerchio, evitando che il referendum sia percepito dagli italiani come una sorta di giudizio di Dio sulla  stagione renziana.
Fu un grave errore l'avere impostato la propaganda in quel modo ed é conveniente oggi correre ai ripari, anche a costo di farsi



Voterò SI al referendum costituzionale ma se vince il NO questo Parlamento deve andare a casa e si dovranno fare nuove elezioni.
La retromarcia impostata da Renzi di togliere alla tornata di voto quello di un referendum pro o contro di lui non è solo tardiva e opportunistica ma poiché questa riforma costituzionale è stata fatta su netto e determinato impulso del governo, se il Paese la boccia, tutti a casa.
Apprezzo l’idea di un PdC che si sia tolta la maschera ipocrita del «governo che non fa le riforme che spettano al Parlamento» ma bisogna accettare  il responso delle urne.
In ordine sparso: ad approvare la riforma costituzionale ora al vaglio referendario è stato un Parlamento eletto con una legge poi dichiarata incostituzionale; nel programma elettorale del partito che se ne è fatto promotore non se ne faceva cenno; il processo legislativo che ha prodotto tale riforma è stato contrassegnato da un costante ricorso al porre la questione di fiducia, dalla rimozione dei parlamentari dissidenti dalla commissione per gli affari costituzionali, da vergognosi episodi di ricatto, di intimidazione e di trasformismo; pareva che il problema fosse il bicameralismo, e il problema rimane;  si dovevano ridurre i costi, e a conti fatti il risparmio è risibile; sembra che il

























































































































referendum sia una cortese concessione del governo, e invece è dovuto per il mancato raggiungimento dei due terzi dei voti parlamentari in favore della riforma; un Senato, che nelle intenzioni doveva essere abolito, diventa una mostruosità in ordine a composizione e prerogative...
Ecco perché, se vince il NO, é necessario spazzare via questo Parlamento e con esso il governo.
Gli italiani pagheranno o riscuoteranno i frutti del proprio voto come si addice a un paese maturo e responsabile piuttosto che a una maggioranza di italiani furbi (sai quanto, poi...!) che si barcamenano pur di tenere a galla il pacco o il pacchettino di BOT su cui hanno investito la liquidazione o i proventi dell'evasione, mentre adesso quei BOT li stan-
no pagando una seconda volta (alle banche...) coi





























































accusare di incoerenza da Brunetta e Salvini (non da Stefano Parisi, ed è significativo).
Il tentativo in atto è dunque chiaro. Che l'operazione riesca, è un altro discorso. L'impronta iniziale in una campagna aspra come quella referendaria è difficile da cancellare. Del resto, Renzi è il primo a sapere che nel voto d'autunno peserà molto lo stato non brillante dell'economia. In qualche misura è inevitabile che il giudizio sulla nuova Costituzione contenga anche una valutazione del governo che quella riforma ha tenacemente voluto. Sotto questo aspetto, fa bene Renzi a giocare la carta internazionale. La giornata nel mare di Ventotene forse non rilancerà il progetto di Spinelli, ma è una mossa accorta per guadagnare credibilità agli occhi dell'opinione pubblica interna più attenta e preoccupata soprattutto di non perdere il legame con l'Europa.

Stefano Folli
Corriere della Sera
24 agosto 2016



tassi negativi.
Questo è un Parlamento nato dalla mezza vittoria o mezza sconfitta del PD cui la parte più responsabile del paese ha cercato di dare una risposta fallita col progetto bersaniano, poi coll’immobilismo lettiano ed infine -buttati a mare un po’ di vecchi sugheri- col renzismo.
L’Italia s’è mossa un poco con Renzi ma nel Paese non si vede la voglia di cambiare registro, cioè di sopportare  ancora gli anni necessari per creare una classe dirigente (che vanno dal neo diplomato al grande statista passando per l’imprenditoria e l’artigianato).
Troppi preferiscono navigare a vista in attesa che paghino gli altri.
Del resto la tragicomica vicenda della legge elettorale, collegata alla riforma costituzionale, dimostra al peggio l’ottusità della classe politica. Quando si sono accorti che dal bipolarismo si era passati al tripolarismo col terzo partito che faceva perdere il primo partito, hanno pensato fosse opportuno cambiare legge.
Forse, però, perché Renzi pare ancora fermo .
Fino a quando pare sia quello della risposta della Consulta.