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Cosa c'è di realmente nuovo nell'in-
tervento di Renzi alla Ver-
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-siliana? Un aspetto essenziale, solo in parte collegato alla promessa
di dimissioni più o meno rientrata. Difatti in passato il
premier-segretario aveva parlato di un “ritiro dalla vita pubblica”,
che è cosa assai più impegnativa di una normale procedura di
dimissioni. Essendo Renzi anche il capo del Pd, una simile eventualità
avrebbe gettato nello scompiglio sia il partito di maggioranza sia
ovviamente il governo, rendendo impossibile il cammino della
legislatura.
Oggi il presidente del Consiglio non dice a chiare lettere di aver
cambiato idea circa le dimissioni. Nelle sue parole non c'è nulla che
escluda la salita al Quirinale in caso di vittoria referendaria del No.
E infatti sarebbe strano il contrario: difficile immaginare che una
sconfitta nella consultazione popolare non abbia immediati effetti sul
governo. Tuttavia Renzi non parla più di abbandonare la vita pubblica e
butta lì la frase che ha dato il titolo ai giornali: “si voterà nel
2018”. Anche questa è un'affermazione da soppesare con prudenza perché
nessuno è in grado di prevedere adesso, agosto 2016, cosa potrà
accadere nei prossimi mesi o addirittura nei prossimi due anni. Ma quel
richiamo al '18 un senso ce l'ha.
In primo luogo è un gesto rispettoso nei confronti del capo dello Stato
a cui la Costituzione assegna il dovere di verificare e decidere se e
quando la legislatura può essere interrotta. Si tratta, come è noto, di
un compito tipico del presidente della Repubblica e non è mai stato
espropriato da Palazzo Chigi, al di là di qualche confusione mediatica.
Ma soprattutto Renzi ha inteso dire che in caso di vittoria del No il
Pd continuerà a svolgere il suo ruolo di partito di maggioranza. Lo
farà con l'attuale governo, magari dopo un inevitabile chiarimento
davanti alle Camere, oppure con un altro.
Ne deriva che il giorno dopo il referendum le dimissioni di Renzi ci
possono stare: dipende ranno dalle scelte sue e del presidente della
Repubblica.
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Quel
che è certo, non avremo l'apocalisse. Con l'eventuale affermazione del
No le istituzioni non saranno destinate al collasso. Non ci sarà alcun
abbandono della vita politica da parte dell'attuale premier, ma è
verosimile che il Quirinale riacquisterà quella maggiore centralità nel
sistema che era andata perduta nell'ultimo periodo. Mattarella si
troverà per la prima volta ad avere in mano il bandolo della matassa e
se ne occuperà secondo il suo stile, che è comunque diverso da quello
di Giorgio Napolitano. In ogni caso, sembra di capire, Renzi non ha
alcuna intenzione di abbandonare il controllo del suo partito, ormai in
buona misura plasmato a sua immagine e somiglianza.
Al momento bisogna quindi dar ragione a Piero Fassino quando afferma,
nell'intervista a questo giornale, che con le dichiarazioni di domenica
il premier “ha definitivamente archiviato la personalizzazione del
voto”. Il richiamo al 2018 e il tono in generale cauto rappresentano
nella sostanza il tentativo di chiudere il cerchio, evitando che il
referendum sia percepito dagli italiani come una sorta di giudizio di
Dio sulla stagione renziana.
Fu un grave errore l'avere impostato la propaganda in quel modo ed é conveniente oggi correre ai ripari, anche a costo di farsi
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Voterò SI al referendum costituzionale ma se vince il NO questo Parlamento deve andare a casa e si dovranno fare nuove elezioni.
La retromarcia impostata da Renzi di togliere alla tornata di voto
quello di un referendum pro o contro di lui non è solo tardiva e
opportunistica ma poiché questa riforma costituzionale è stata fatta su
netto e determinato impulso del governo, se il Paese la boccia, tutti a
casa.
Apprezzo l’idea di un PdC che si sia tolta la maschera ipocrita del
«governo che non fa le riforme che spettano al Parlamento» ma bisogna
accettare il responso delle urne.
In ordine sparso: ad approvare la riforma costituzionale ora al vaglio
referendario è stato un Parlamento eletto con una legge poi dichiarata
incostituzionale; nel programma elettorale del partito che se ne è
fatto promotore non se ne faceva cenno; il processo legislativo che ha
prodotto tale riforma è stato contrassegnato da un costante ricorso al
porre la questione di fiducia, dalla rimozione dei parlamentari
dissidenti dalla commissione per gli affari costituzionali, da
vergognosi episodi di ricatto, di intimidazione e di trasformismo;
pareva che il problema fosse il bicameralismo, e il problema
rimane; si dovevano ridurre i costi, e a conti fatti il risparmio
è risibile; sembra che il
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referendum
sia una cortese concessione del governo, e invece è dovuto per il
mancato raggiungimento dei due terzi dei voti parlamentari in favore
della riforma; un Senato, che nelle intenzioni doveva essere abolito,
diventa una mostruosità in ordine a composizione e prerogative...
Ecco perché, se vince il NO, é necessario spazzare via questo Parlamento e con esso il governo.
Gli italiani pagheranno o riscuoteranno i frutti del proprio voto come
si addice a un paese maturo e responsabile piuttosto che a una
maggioranza di italiani furbi (sai quanto, poi...!) che si barcamenano
pur di tenere a galla il pacco o il pacchettino di BOT su cui hanno
investito la liquidazione o i proventi dell'evasione, mentre adesso
quei BOT li stan-
no pagando una seconda volta (alle banche...) coi
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accusare di incoerenza da Brunetta e Salvini (non da Stefano Parisi, ed è significativo).
Il tentativo in atto è dunque chiaro. Che l'operazione riesca, è un
altro discorso. L'impronta iniziale in una campagna aspra come quella
referendaria è difficile da cancellare. Del resto, Renzi è il primo a
sapere che nel voto d'autunno peserà molto lo stato non brillante
dell'economia. In qualche misura è inevitabile che il giudizio sulla
nuova Costituzione contenga anche una valutazione del governo che
quella riforma ha tenacemente voluto. Sotto questo aspetto, fa bene
Renzi a giocare la carta internazionale. La giornata nel mare di
Ventotene forse non rilancerà il progetto di Spinelli, ma è una mossa
accorta per guadagnare credibilità agli occhi dell'opinione pubblica
interna più attenta e preoccupata soprattutto di non perdere il legame
con l'Europa.
Stefano Folli
Corriere della Sera
24 agosto 2016
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tassi negativi.
Questo è un Parlamento nato dalla mezza vittoria o mezza sconfitta del
PD cui la parte più responsabile del paese ha cercato di dare una
risposta fallita col progetto bersaniano, poi coll’immobilismo lettiano
ed infine -buttati a mare un po’ di vecchi sugheri- col renzismo.
L’Italia s’è mossa un poco con Renzi ma nel Paese non si vede la voglia
di cambiare registro, cioè di sopportare ancora gli anni
necessari per creare una classe dirigente (che vanno dal neo diplomato
al grande statista passando per l’imprenditoria e l’artigianato).
Troppi preferiscono navigare a vista in attesa che paghino gli altri.
Del resto la tragicomica vicenda della legge elettorale, collegata alla
riforma costituzionale, dimostra al peggio l’ottusità della classe
politica. Quando si sono accorti che dal bipolarismo si era passati al
tripolarismo col terzo partito che faceva perdere il primo partito,
hanno pensato fosse opportuno cambiare legge.
Forse, però, perché Renzi pare ancora fermo .
Fino a quando pare sia quello della risposta della Consulta.
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