NUMERO 226 -PAGINA 3 - LA FLESSIBILITA' NEI CONTI NON BASTA PIU'.







































La crescita zero del PIL nel secon do trimestre é un campanello di al
larme che restrin ge gli spazi per la prossima mano-
-vra di bilancio e ci obbliga più che mai a utilizzare le (poche) risorse disponibili in modo mirato. La priorità deve andare, a mio giudizio, ad interventi per rilanciare gli investimenti e sostenere le famiglie. Per finanziarli, bisogna mettere sul piatto non solo spazi di flessibilità più ampi da negoziare in sede Ue ma anche la rinuncia alla riduzione dell'aliquota Ires, che libererebbe ulteriori risorse per 3 miliardi nel 2017 e 4 miliardi annui dal 2018. Gli investimenti sono il fattore chiave per rilanciare la produttività, che è ferma al palo da parecchi anni e zavorra la crescita dell'economia. Tra il 2009 e il 2014 - gli anni delle manovre lacrime e sangue - gli investimenti della pubblica amministrazione sono crollati del 32 per cento, con una ripresa solo marginale nel biennio successivo. Le decisioni del Cipe di pochi giorni fa pongono le premesse per un'accelerazione degli investimenti infrastrutturali. È però necessario dare una forte spinta anche alle spese in conto capitale degli enti locali, rendendo il fondo pluriennale vincolato pienamente valido per l'equilibrio di bilancio.
Secondo il FMI un aumento permanente dell’1% degli investimenti pubblici in infrastrutture produrrebbe un aumento del PIL sia nel breve (+0,4%) sia nel medio e lungo periodo (+1,5% dopo quattro anni), effetti ulteriormente rafforzati se gli investimenti venissero attuati in periodi di bassa crescita e finanziati con debito.
Sul versante degli investimenti privati - a loro volta letteralmente franati con la grande crisi - è sicuramente opportuno prorogare il superammortamento, magari con agevolazioni più generose per gli investimenti in tecnologie digitali, così come il bonus ristrutturazioni. L'ecobonus, a sua volta, potrebbe diventare il volano di un vasto programma di riqualificazione dei condomini, trasformandolo in un contributo a fondo perduto bancabile, stabile e pienamente fruibile dagli incapienti. Andrebbero infine finanziate la strategia nazionale per Industria 4.0 (cruciale per non rimanere indietro nella grande sfida della manifattura digitalizzata), una maggiore defiscalizzazione del salario di produttività e gli investimenti delle famiglie in capitale umano (leggasi: diritto allo studio universitario).
Una dotazione di 3 miliardi sarebbe una buona base di partenza per questo “pacchetto investimenti”. Quanto ai redditi delle famiglie, anche in questo caso sono opportuni interventi mirati. Le proposte del governo in materia previdenziale vanno nella giusta direzione. La riduzione generalizzata delle aliquote Irpef costerebbe invece troppo, dati gli spazi di bilancio disponibili.



Delle recenti polemiche per la fermata della crescita nel secondo trimestre e l'idea renziana di chiedere ulteriore flessibilità all'UE per una politica espansiva ci sono alcuni aspetti che non convincono. Prima di tutto non credo molto che la crescita si sia fermata.
Questo non vuol dire che l'ISTAT abbia errato ma da quel che vedo non è così.
Vero che c'é un'Italia che non riparte ma questa non ripartirà mai. vero che questa parte d'Italia non riesce a contribuire a quella che invece, inserita in una economia più



I dati del secondo trimestre 2016 sono impietosi. Contrariamente alla "narrazione" della stagnazione secola re o del rallenta -mento delle econo-
-mie Ue, l'Italia va peggio degli altri.
Ed é attanagliata da un male domestico. La crescita zero del Pil è condivisa solo dalla Francia (malata con sintomi simili a quelli nostrani) che però annualmente raddoppia su di noi: +1,4% contro il nostro magro +0,7%. Quindi, finite le scuse su Brexit (che fino al 30 giugno non può avere influenzato alcunché: il Regno Unito è cresciuto al 2,2% l'anno) o terrorismo, rimane come unica àncora cui aggrapparsi la trita storia dei vincoli europei.
La parola d'ordine è “flessibilità”, ottenuta la quale il governo potrebbe varare una manovra espansiva in grado di dare ossigeno alla nostra boccheggiante economia. Più nello specifico, sia dalla politica che dalle imprese, si invoca una revisione del limite dell'1,8% al deficit pubblico concordato con la Commissione Europea per il 2017.
Dobbiamo allora porci due domande fondamentali: è vero che finora abbiamo patito più degli altri per colpa dell'austerità? E ci convengono queste mitiche politiche “espansive”?
Sotto il primo profilo è difficile affermare che la pubblica amministrazione abbia tirato la cinghia in Italia. Se prendiamo gli ultimi tre anni completi, dal 2013 al 2015, notiamo che la spesa pubblica ha rappresentato rispettivamente il 51%, 51,2% e 50,5% del Pil, una dinamica che non catalogherei come draconiana. Ed attenzione: se eliminiamo la spesa per interessi passivi, quelli che lo Stato paga ai suoi creditori,
numeri diventano 46,2%, 46,6% e 46,3%. Insomma, dal 2013, se non consideriamo il calo dei tassi di interesse, abbiamo addirittura aumentato un po' la spesa, che comunque nel triennio è piatta come l'olio. Anche a volere calcolare in modo diverso i famosi 80 euro (come una diminuizione di tasse

Al calo del peso degli interessi, ovviamente. Se prendiamo infatti il documento del Mef pubblicato qualche settimana fa sulla gestione del debito pubblico, scopriamo che nel 2015 il costo medio annuo dell'indebitamento (gli interessi offerti per le nuove emissioni) ha toccato il minimo storico assoluto pari allo 0,7%. I Bot vengono ormai emessi con tassi negativi e il calo sta proseguendo per tutto il 2016, talché la stima fatta dal Mef di una spesa per interessi in discesa dal 4,2% nel 2015 al 4,0% nel 2016, potrebbe ancora ridursi, toccando il 3,9%. Vi siete persi in queste micropercentuali? Niente paura, vogliono dire che, salvo che per il costo del debito, la spesa pubblica non cala di un grammo.
E come mai non ci siamo potuti permettere i mega deficit di Spagna, Regno Unito e Irlanda che dopo aver dilatato la loro spesa nel 2010-2011 hanno intrapreso una via di rigore e ora crescono che è una bellezza? Per il fardello del nostro debito pubblico, che è continuato ad aumentare piano piano ogni anno, fino a toccare il 132,7% del Pil e che pure quest'anno, se va bene, rimarrà allo stesso livello. Ma possiamo contare per sempre su questo precario equilibrio?
Leggiamo ancora il documento del Mef: “Per i Paesi ad alto debito una quota non trascurabile dei movimenti dei tassi può derivare dalla componente di rischio di credito che spesso è avulso dal ciclo economico: (…) il premio di rischio richiesto dagli investitori potrebbe aumentare in situazione di rallentamento della crescita, nella misura in cui (ciò) tende a influenzare in senso negativo la percezione circa la sostenibilità del debito”. Traduzione: se diamo l'impressione che non riusciamo a controllare il debito e per di più cresciamo poco si può creare una spirale negativa di percezione che aumenta i tassi richiesti dai creditori, il che aumenta il deficit e il debito e così via.
Altro che troppa austerità! Chi ci presta i soldi può avere l'impressione che non siamo seri nel tagliare il deficit, non il contrario, e quindi per l'Italia la prudenza di bilancio è una necessità, non un'opzione.
D'altronde, le virtù del moltiplicatore keynesiano, per il quale la spesa pubblica in momenti di stagnazione o recessione ha un effetto moltiplicatore del reddito, sono da sempre discusse. A prescindere che si sia seguaci di Keynes o di Friedman e Lucas, però, l'esperienza ci insegna comunque una cosetta: un recentissimo studio di tre economisti della Banca Mondiale, Huidrom, Kose e Ohnsorge, esaminando l'evidenza empirica disponibile, ha concluso che lo stimolo fiscale ha effetti più positivi quando la base di partenza è un debito pubblico basso, mentre per i Paesi fortemente indebitati può addirittura creare una diminuzione di Pil! Spendo l'1% di più e il reddito nazionale cala ulteriormente persino durante una recessione. Se pensiamo a quanto poco gli 80 euro abbiano stimolato i consumi, capiamo ad esempio cosa vogliono dire gli economisti quando parlano dell'effetto ricardiano (le persone non consumano e risparmiano perché si attendono tasse più alte). Parlare dei vari mali italiani prenderebbe troppo tempo: sicuramente pensare di curarli con la “flessibilità” è una pia illusione.

Alessandro De Nicola
La Repubblica 15 agosto 2015

















































Concentrare le risorse sulle famiglie con figli a carico sarebbe una scelta politica di grande forza, sicuramente preferibile dal punto di vista economico e sociale. La direzione da seguire dovrebbe essere quella indicata da molte proposte avanzate anche in Parlamento: una delega al governo per l'introduzione di un assegno per i minori e i figli a carico di carattere universalistico,

più europea o internazionale, si sta muovendo nonostante Brexit e terrorismo (sai quanto questo importa a quell'Italia!). Bisognerebbe poi verificare come vanno i pagamenti degli enti locali perché un certo dinamismo di quella spesa verrà contestualizzato con qualche mese di ritardo.

C'è un'Italia che non diverrà mai “Industria 4.0” (o fornitori di quella) non tanto perché non ci sono le basi economiche ma perché manca la testa dei padroni e di buona parte dei loro dipendenti.















































































selettivo attraverso l'Isee, differenziato a seconda della composizione del nucleo familiare.
L'assegno per i figli sostituirebbe tutte le agevolazioni esistenti (detrazione Irpef, assegno per il nucleo familiare, ecc.), bene
ficerebbe di significativi stan ziamenti aggiuntivi (almeno










Dieci miliardi di flessibilità che poi saranno in gran parte destinati come già gli 80 euro non faranno ripartire l'Italia. Al massimo infondono un po' di coraggio per la spesa privata.

Manca un disegno nazionale del “che fare” dell'Italia nel contesto internazionale: non si può lasciare tutto solo e sempre in mano al privato. Le banche? Il governo barcolla anziché mirare a ridurne il numero e potenziarne la capacità operativa.



































































il 20 per cento in più a regime rispetto ai 14 miliardi attuali). Un investimento rilevante ed equamente distribuito in favore delle famiglie sarebbe una bella scommessa sul futuro dell’Italia. Un segnale forte di inversione di tendenza in un Paese in cui le nascite sono crollate al minimo storico e l'invecchiamento demografico è uno dei fattori più importanti (ma meno affrontati) della nostra ventennale stagnazione economica.

Antonio Misiani
Deputato Pd
Commissione Bilancio
L’Unità 15 agosto 2016

La banda larga? Boh, mah, chissà, questo, quello, speriamo. Il territorio e i beni culturali: riduzione della spesa. Alta capacità e alta velocità: alla fine saranno peggiori i danni al territorio che il risultato. Sanità? Poche regioni vanno bene ma con un carico eccessivo sul cittadino mentre il resto siamo a zero. Disoccupati? Finora la legislazione e le enormi spese messe in atto sono servite soprattutto a pagare lo stipendio di chi s'è inventato questo “nuovo” lavoro che alla fine colloca meno del 4% del personale.


Mi sto convincendo che ormai occorre una netta riduzione del debito pubblico non solo con la riorganizzazione della spesa pubblica e l'interruzione definitiva delle ruberie che vi si praticano ma che occorre un programma di riduzione dell'evasione fiscale (grande e piccola) che in cinque anni la riporti entro limiti fisiologici europei e nel contempo una tassa sulla rendita identica, anno dopo anno, a quella riduzione. Contemporaneamente occorre ridurre la tassazione di 10 punti nel livello più basso ed alzarlo al 70% - patrimoniale inclusa- da un milione in avanti. Anche le “tangenti di stato” applicate ai consumi energetici vanno drasticamente ridotte: quando accendi la lice non sai se paghi l'energia o qualche danno di terremoto o i profitti di Terna.
La redistribuzione di quanto recuperato va all'Industria 4.0 ed al mantenimento della forza lavoro che non si è riusciti a reimmettere in fabbrica.
E comunque occorre che i governi abbiano il coraggio di dire alla propria gente che il mondo è completamente girato per una serie di motivi che stanno sotto gli occhi di tutti e addirittura “indosso” a tutti.



e non aumento di spesa, come invece li considerano le statistiche Eurostat), il saldo finale, cioè il deficit pubblico, non cambia (2,9% nel 2013, 3,0% nel 2014 e 2,6% nel 2015), a conferma che sulla flessibilità abbiamo già ottenuto parecchio, per la precisione circa l'1,7% del Pil negli ultimi 3 anni (compreso il 2016 quando il disavanzo dovrebbe attestarsi sul 2,3 % del Pil) e, a quanto pare, non ne abbiamo tratto grandi benefici.
D'altronde, il rallentamento economico previsto per il 2016, stimato in almeno 5 miliardi di prodotto lordo in meno, rischia di non farci rispettare nemmeno l'obiettivo di bilancio di quest'anno: se comunque ci sarà un lieve miglioramento rispetto al deficit dell'anno prima questo sarà dovuto indovinate a cosa?