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La crescita zero del PIL nel secon do trimestre é un campanello di al
larme che restrin ge gli spazi per la prossima mano-
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-vra di bilancio e ci obbliga più che mai a utilizzare le (poche)
risorse disponibili in modo mirato. La priorità deve andare, a mio
giudizio, ad interventi per rilanciare gli investimenti e sostenere le
famiglie. Per finanziarli, bisogna mettere sul piatto non solo spazi di
flessibilità più ampi da negoziare in sede Ue ma anche la rinuncia alla
riduzione dell'aliquota Ires, che libererebbe ulteriori risorse per 3
miliardi nel 2017 e 4 miliardi annui dal 2018. Gli investimenti sono il
fattore chiave per rilanciare la produttività, che è ferma al palo da
parecchi anni e zavorra la crescita dell'economia. Tra il 2009 e il
2014 - gli anni delle manovre lacrime e sangue - gli investimenti della
pubblica amministrazione sono crollati del 32 per cento, con una
ripresa solo marginale nel biennio successivo. Le decisioni del Cipe di
pochi giorni fa pongono le premesse per un'accelerazione degli
investimenti infrastrutturali. È però necessario dare una forte spinta
anche alle spese in conto capitale degli enti locali, rendendo il fondo
pluriennale vincolato pienamente valido per l'equilibrio di bilancio.
Secondo il FMI un aumento permanente dell’1% degli investimenti
pubblici in infrastrutture produrrebbe un aumento del PIL sia nel breve
(+0,4%) sia nel medio e lungo periodo (+1,5% dopo quattro anni),
effetti ulteriormente rafforzati se gli investimenti venissero attuati
in periodi di bassa crescita e finanziati con debito.
Sul versante degli investimenti privati - a loro volta letteralmente
franati con la grande crisi - è sicuramente opportuno prorogare il
superammortamento, magari con agevolazioni più generose per gli
investimenti in tecnologie digitali, così come il bonus
ristrutturazioni. L'ecobonus, a sua volta, potrebbe diventare il volano
di un vasto programma di riqualificazione dei condomini, trasformandolo
in un contributo a fondo perduto bancabile, stabile e pienamente
fruibile dagli incapienti. Andrebbero infine finanziate la strategia
nazionale per Industria 4.0 (cruciale per non rimanere indietro nella
grande sfida della manifattura digitalizzata), una maggiore
defiscalizzazione del salario di produttività e gli investimenti delle
famiglie in capitale umano (leggasi: diritto allo studio
universitario).
Una dotazione di 3 miliardi sarebbe una buona base di partenza per
questo “pacchetto investimenti”. Quanto ai redditi delle famiglie,
anche in questo caso sono opportuni interventi mirati. Le proposte del
governo in materia previdenziale vanno nella giusta direzione. La
riduzione generalizzata delle aliquote Irpef costerebbe invece troppo,
dati gli spazi di bilancio disponibili.
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Delle
recenti polemiche per la fermata della crescita nel secondo trimestre e
l'idea renziana di chiedere ulteriore flessibilità all'UE per una
politica espansiva ci sono alcuni aspetti che non convincono. Prima di
tutto non credo molto che la crescita si sia fermata.
Questo non vuol dire che l'ISTAT abbia errato ma da quel che vedo non è così.
Vero che c'é un'Italia che non riparte ma questa non ripartirà mai.
vero che questa parte d'Italia non riesce a contribuire a quella che
invece, inserita in una economia più
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I
dati del secondo trimestre 2016 sono impietosi. Contrariamente alla
"narrazione" della stagnazione secola re o del rallenta -mento delle
econo-
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-mie Ue, l'Italia va peggio degli altri.
Ed é attanagliata da un male domestico. La crescita zero del Pil è
condivisa solo dalla Francia (malata con sintomi simili a quelli
nostrani) che però annualmente raddoppia su di noi: +1,4% contro il
nostro magro +0,7%. Quindi, finite le scuse su Brexit (che fino al 30
giugno non può avere influenzato alcunché: il Regno Unito è cresciuto
al 2,2% l'anno) o terrorismo, rimane come unica àncora cui aggrapparsi
la trita storia dei vincoli europei.
La parola d'ordine è “flessibilità”, ottenuta la quale il governo
potrebbe varare una manovra espansiva in grado di dare ossigeno alla
nostra boccheggiante economia. Più nello specifico, sia dalla politica
che dalle imprese, si invoca una revisione del limite dell'1,8% al
deficit pubblico concordato con la Commissione Europea per il 2017.
Dobbiamo allora porci due domande fondamentali: è vero che finora
abbiamo patito più degli altri per colpa dell'austerità? E ci
convengono queste mitiche politiche “espansive”?
Sotto il primo profilo è difficile affermare che la pubblica
amministrazione abbia tirato la cinghia in Italia. Se prendiamo gli
ultimi tre anni completi, dal 2013 al 2015, notiamo che la spesa
pubblica ha rappresentato rispettivamente il 51%, 51,2% e 50,5% del
Pil, una dinamica che non catalogherei come draconiana. Ed attenzione:
se eliminiamo la spesa per interessi passivi, quelli che lo Stato paga
ai suoi creditori,
numeri diventano 46,2%, 46,6% e 46,3%. Insomma, dal 2013, se non
consideriamo il calo dei tassi di interesse, abbiamo addirittura
aumentato un po' la spesa, che comunque nel triennio è piatta come
l'olio. Anche a volere calcolare in modo diverso i famosi 80 euro (come una diminuizione di tasse
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Al
calo del peso degli interessi, ovviamente. Se prendiamo infatti il
documento del Mef pubblicato qualche settimana fa sulla gestione del
debito pubblico, scopriamo che nel 2015 il costo medio annuo
dell'indebitamento (gli interessi offerti per le nuove emissioni) ha
toccato il minimo storico assoluto pari allo 0,7%. I Bot vengono ormai
emessi con tassi negativi e il calo sta proseguendo per tutto il 2016,
talché la stima fatta dal Mef di una spesa per interessi in discesa dal
4,2% nel 2015 al 4,0% nel 2016, potrebbe ancora ridursi, toccando il
3,9%. Vi siete persi in queste micropercentuali? Niente paura, vogliono
dire che, salvo che per il costo del debito, la spesa pubblica non cala
di un grammo.
E come mai non ci siamo potuti permettere i mega deficit di Spagna,
Regno Unito e Irlanda che dopo aver dilatato la loro spesa nel
2010-2011 hanno intrapreso una via di rigore e ora crescono che è una
bellezza? Per il fardello del nostro debito pubblico, che è continuato
ad aumentare piano piano ogni anno, fino a toccare il 132,7% del Pil e
che pure quest'anno, se va bene, rimarrà allo stesso livello. Ma
possiamo contare per sempre su questo precario equilibrio?
Leggiamo ancora il documento del Mef: “Per i Paesi ad alto debito una
quota non trascurabile dei movimenti dei tassi può derivare dalla
componente di rischio di credito che spesso è avulso dal ciclo
economico: (…) il premio di rischio richiesto dagli investitori
potrebbe aumentare in situazione di rallentamento della crescita, nella
misura in cui (ciò) tende a influenzare in senso negativo la percezione
circa la sostenibilità del debito”. Traduzione: se diamo l'impressione
che non riusciamo a controllare il debito e per di più cresciamo poco
si può creare una spirale negativa di percezione che aumenta i tassi
richiesti dai creditori, il che aumenta il deficit e il debito e così
via.
Altro che troppa austerità! Chi ci presta i soldi può avere
l'impressione che non siamo seri nel tagliare il deficit, non il
contrario, e quindi per l'Italia la prudenza di bilancio è una
necessità, non un'opzione.
D'altronde, le virtù del moltiplicatore keynesiano, per il quale la
spesa pubblica in momenti di stagnazione o recessione ha un effetto
moltiplicatore del reddito, sono da sempre discusse. A prescindere che
si sia seguaci di Keynes o di Friedman e Lucas, però, l'esperienza ci
insegna comunque una cosetta: un recentissimo studio di tre economisti
della Banca Mondiale, Huidrom, Kose e Ohnsorge, esaminando l'evidenza
empirica disponibile, ha concluso che lo stimolo fiscale ha effetti più
positivi quando la base di partenza è un debito pubblico basso, mentre
per i Paesi fortemente indebitati può addirittura creare una
diminuzione di Pil! Spendo l'1% di più e il reddito nazionale cala
ulteriormente persino durante una recessione. Se pensiamo a quanto poco
gli 80 euro abbiano stimolato i consumi, capiamo ad esempio cosa
vogliono dire gli economisti quando parlano dell'effetto ricardiano (le
persone non consumano e risparmiano perché si attendono tasse più
alte). Parlare dei vari mali italiani prenderebbe troppo tempo:
sicuramente pensare di curarli con la “flessibilità” è una pia
illusione.
Alessandro De Nicola
La Repubblica 15 agosto 2015
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il 20
per cento in più a regime rispetto ai 14 miliardi attuali). Un
investimento rilevante ed equamente distribuito in favore delle
famiglie sarebbe una bella scommessa sul futuro dell’Italia. Un segnale
forte di inversione di tendenza in un Paese in cui le nascite sono
crollate al minimo storico e l'invecchiamento demografico è uno dei
fattori più importanti (ma meno affrontati) della nostra ventennale
stagnazione economica.
Antonio Misiani
Deputato Pd
Commissione Bilancio
L’Unità 15 agosto 2016
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La
banda larga? Boh, mah, chissà, questo, quello, speriamo. Il territorio
e i beni culturali: riduzione della spesa. Alta capacità e alta
velocità: alla fine saranno peggiori i danni al territorio che il
risultato. Sanità? Poche regioni vanno bene ma con un carico eccessivo
sul cittadino mentre il resto siamo a zero. Disoccupati? Finora la
legislazione e le enormi spese messe in atto sono servite soprattutto a
pagare lo stipendio di chi s'è inventato questo “nuovo” lavoro che alla
fine colloca meno del 4% del personale.
Mi sto convincendo che ormai occorre una netta riduzione del
debito pubblico non solo con la riorganizzazione della spesa pubblica e
l'interruzione definitiva delle ruberie che vi si praticano ma che
occorre un programma di riduzione dell'evasione fiscale (grande e
piccola) che in cinque anni la riporti entro limiti fisiologici europei
e nel contempo una tassa sulla rendita identica, anno dopo anno, a
quella riduzione. Contemporaneamente occorre ridurre la tassazione di
10 punti nel livello più basso ed alzarlo al 70% - patrimoniale
inclusa- da un milione in avanti. Anche le “tangenti di stato”
applicate ai consumi energetici vanno drasticamente ridotte: quando
accendi la lice non sai se paghi l'energia o qualche danno di terremoto
o i profitti di Terna.
La redistribuzione di quanto recuperato va all'Industria 4.0 ed al
mantenimento della forza lavoro che non si è riusciti a reimmettere in
fabbrica.
E comunque occorre che i governi abbiano il coraggio di dire alla
propria gente che il mondo è completamente girato per una serie di
motivi che stanno sotto gli occhi di tutti e addirittura “indosso” a
tutti.
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e non
aumento di spesa, come invece li considerano le statistiche Eurostat),
il saldo finale, cioè il deficit pubblico, non cambia (2,9% nel 2013,
3,0% nel 2014 e 2,6% nel 2015), a conferma che sulla flessibilità
abbiamo già ottenuto parecchio, per la precisione circa l'1,7% del Pil
negli ultimi 3 anni (compreso il 2016 quando il disavanzo dovrebbe
attestarsi sul 2,3 % del Pil) e, a quanto pare, non ne abbiamo tratto
grandi benefici.
D'altronde, il rallentamento economico previsto per il 2016, stimato in
almeno 5 miliardi di prodotto lordo in meno, rischia di non farci
rispettare nemmeno l'obiettivo di bilancio di quest'anno: se comunque
ci sarà un lieve miglioramento rispetto al deficit dell'anno prima
questo sarà dovuto indovinate a cosa?
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