Chi ha
detto che la storia è maestra di vita? Chi ha aggiunto che nessuna
pagina di storia si ripete mai due volte? Non è vero, non alle nostre
latitudini. Ne è prova il film proiettato nelle sale cinematografiche
italiane in questi pomeriggi estivi: Porcellum 2, la vendetta. Perché
il dibattito sulla riforma della legge elettorale sembra un film già
visto, un déjà- vu.
Cadeva il 2011, cadeva il IV gabinetto Berlusconi. E i partiti
dichiararono l’urgenza di sbarazzarsi del Porcellum, spronati — allora
come oggi — dai moniti di Napolitano. Questione impellente, dirimente,
conturbante. Tant’è che a un certo punto il nuovo presidente del
Consiglio (Mario Monti) carezzò l’idea d’intervenire sulla legge
elettorale per decreto. Ma il decreto no, non si può fare, dissero i
soloni del diritto. Mentre nel frattempo i soloni dei partiti
s’arrovellavano su soglie di sbarramento, premi di maggioranza, collegi
uninominali o plurinominali, apparentamenti, ballottaggi. Trascorse
così il 2012, poi il 2013. Quando i leader di destra e di sinistra, di
sopra e di sotto, trovarono un soprassalto d’unità timbrando una tacita
intesa: fermi tutti, tanto c’è pur sempre la Consulta a toglierci le
castagne dal fuoco. Che infatti emise il suo verdetto attraverso la
sentenza n. 1 del 2014: e nacque il Consultellum.
In seguito l’Italicum ne ha preso le veci, salutato da grandi squilli
di fanfara. Dopo le amministrative di primavera, tuttavia, e in vista
del referendum costituzionale d’autunno, la politica si è accorta
(meglio tardi che mai) che l’Italicum può ben essere una trappola per
la maggioranza di governo, e soprattutto per la democrazia italiana. Da
qui un concerto di proposte, da qui un coro d’appelli a riformare la
riforma elettorale. La sinistra Pd presenta il Bersanellum. I Giovani
turchi puntano sul sistema greco.
I Cinque Stelle insistono sul loro Democratellum. Alfano, e con lui
Franceschini, chiede di spostare il premio: dalla lista alla
coalizione. Concorda Sala, neosindaco di Milano. Concorda il centro-
destra, o ciò che ne rimane. Accelerano due ministri (Orlando e
Martina): facciamo presto, prima del referendum. Il vicesegretario del
Pd (Guerini) apre ai cambiamenti. Il segretario (Renzi) apre
all’apertura.
Domanda: e allora perché non è successo nulla? Perché manca ancora un
testo condiviso, o almeno una bozza, un protocollo, una lettera
d’intenti? Risposta: per le stesse ragioni che a suo tempo bloccarono
la riforma del Porcellum: veti incrociati, opposte convenienze. Sicché,
oggi come ieri, va in scena l’antica strategia dello scaricabarile. La
sua prima rappresentazione si trova nella Bibbia ( Genesi, 3, 9-13). Il
Padreterno domandò ad Adamo: perché hai mangiato il frutto proibito? E
lui: me l’ha dato Eva. Allora il Padreterno ne chiese conto a Eva, e
lei: fu il serpente ad ingannarmi. In questo caso l’inganno parrebbe un
po’ meno funesto per le sorti dell’umanità, però la sequenza è sempre
uguale. E infatti il governo dichiara che la correzione della legge
elettorale tocca al Parlamento, il Parlamento traccheggia aspettando la
Consulta. Che deciderà il 4 ottobre, mettendosi in groppa il peso del
barile.
Ma su chi si scarica lo scaricabarile? Sulla Corte costituzionale,
certo, già tirata per la giacca dalla riforma Boschi, con quella
competenza non richiesta (e non gradita) che le assegna un giudizio
preventivo sulle nuove leggi elettorali. Ma il danno ricade altresì sul
sistema politico, perché la Consulta non ha ago e filo per cucire, ha
solo un paio di forbici. Può tagliare qualche lembo dell’Italicum, non
può confezionare un abito di sartoria. Non a caso, due anni fa, il
Consultellum lasciò tutti insoddisfatti. Infine il barile si rovescia
addosso ai cittadini, ed è questo il danno principale.
Giacché lo scaricabarile innesca una catena di supplenze che nocciono
alla certezza del diritto, come succede quando la politica — per
impotenza o negligenza — nega una legge sui diritti civili. Per esempio
quella sul fine vita, e allora il mestiere del supplente tocca al
sindaco (170 registri dei testamenti biologici adottati in altrettanti
Comuni). Oppure la
stepchild adoption, e allora diventa supplente il magistrato (con l’avallo della stessa Cassazione: sentenza n. 12962 del 2016).
Eccolo, infatti, il prezzo dello scaricabarile: la fuga dalle regole,
il disordine istituzionale. E il disordine conviene solo ai furbi, non
a chi cerca riparo sotto l’ombrello del diritto. Sicché, quanto alla
riforma dell’Italicum, non resta che una prece da rivolgere ai Signori
della Legge: questi lavori in corso, fateli di corsa.
Michele Ainis
LaRepublica - 05 agosto 2016
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Chiusa
la stagione che ci illuse di essere finalmente diventati un paese
normale per il solo fatto di essere approdati al tanto agognato
bipolarismo, formula magica che avrebbe sanato i mali della Prima
Repubblica, a cominciare da quello dell'instabilità dei governi, dalla
quale si diceva fossero sortiti tutti gli altri – sia consentito
l'inciso: s'è visto quanto fosse magica, la formula – ecco che se ne
apre una nuova, quella del tripolarismo, come a insinuarci il sospetto
che la normalità non fa per noi, che siamo nati per essere speciali,
forse semplicioni, ma refrattari alle semplificazioni, anche a quella
di due opposti schieramenti che facciano il pienone di tutte le
piccinerie in lizza a surrogare la permanente guerra civile che a
chiacchiere ci piace da impazzire, ma che poi stanca, e ci convince che
in fondo siamo nati per venire a patti, per costruire le basi di una
civile convivenza in cui ci si possa fottere a vicenda, ma a bassa
intensità.
È che dev'esserci stato, col bipolarismo, qualche fraintendimento circa
il concetto di normalità, che probabilmente – azzardo un'ipotesi –
dev'esser nato per il cronico ritardo che ci portiamo nell'arrancare
dietro un mondo che da oltre un secolo va a zigzag, ma troppo
velocemente per gente riflessiva com'è noto sono gli italiani: così,
mentre il bipolarismo già mostrava chiaramente i suoi limiti perfino
nei paesi in cui era quasi diventato forma mentis, noi lo adottavamo
con l'entusiasmo che l'animale mette nell'uso dell'organo che gli è
stato conferito da una mutazione vincente, certi che semplificare la
selva di particolarismi, per lo più corrispondenti a bassi interessi di
famiglie, clan, consorterie e corporazioni, ci avrebbe dato
l'alternanza, la solidità dell'esecutivo, un sano pragmatismo, le
ascelle sempre belle fresche e la pelle vellutata. Preso con entusiasmo
lo zig, non avevano calcolato lo zag: di una politica semplificata in
due opposti schieramenti, uno di destra e uno di sinistra, cioè, per
meglio dire, uno di centrodestra e uno di centrosinistra, entrambi a
rompersi le corna per conquistare il centro, lasciando a destra e a
sinistra zoccoli ritenuti duri, poi rivelatisi friabilissimi, il mondo
non sapeva più che farsene.
La morte delle ideologie, il ritorno del sacro, la riscoperta dei
particolarismi, il revival del nazionalismo, boh, va' a capire. Due
schieramenti erano pochi. O troppi. Pochi per farsi carico delle
diverse e perfino opposte ragioni che gemmavano in seno ad ogni
schieramento, troppi per quella bella e illuminata dittatura cui anche
il più sincero democratico cominciava a fare un pensierino.
Come risolvere l'aporia? Soluzione all'italiana: tripolarismo.
Asimmetrico, per giunta. I tre schieramenti, che insieme raccolgono più
dei tre quarti dei votanti, che comunque sono a stento i tre quinti
degli aventi diritto al voto, hanno forze pressoché pari, e la
cosiddetta morte delle ideologie ha reso estremamente mobili gli
elettori, per non parlare degli eletti, sicché un incremento o un calo
dei consensi, gratta gratta, non è mai affidato a un progetto di
società, talvolta neppure a un programma di governo, ma quasi
esclusivamente alla spinta o al risucchio di istanze labili, quasi
tutte umorali, che sembra quasi impongano a ogni soggetto politico lo
star dietro ai sondaggi, come il tafano sta appiccicato al culo della
vacca.
Questo è quanto i tre schieramenti hanno in comune (ovviamente con la
vocazione a rappresentare il meglio della società italiana, che non si
sa perché si ci accanisce a dare per scontato sia la maggioranza, in un
paese dove a ogni vizio morale o intellettuale di un eletto corrisponde
con purissima proporzionale lo stesso vizio, per lo più imbruttito, in
quanti lo hanno scelto a rappresentarli), ma il resto li fa differenti
in tutto: mentre il Pd è un partito (per meglio dire, è un comitato
elettorale), il centrodestra è una coalizione (per meglio dire, lo
sarebbe a rimuovere due o tre dozzine di problemini che vi si
frappongono) e il M5S, invece, è un movimento che fieramente disdegna
la forma partito (per meglio dire, ci tiene a darsi aspetto di
assemblea permanente, ma in fondo è un marchio dato in franchising a
ogni sfessato che sia disposto ad obbedire ciecamente alla politica
aziendale).
Non solo: tutti e tre gli schieramenti hanno vocazione maggioritaria,
ma, mentre il M5S persegue l'obiettivo in orgogliosa solitudine,
indisponibile ad alleanze con chicchessia Pd e il centrodestra hanno
una voglia matta di stringere un'intesa, però
ci tengono a far finta di esserci costretti, ovviamente per il bene del
paese, e ovviamente a malincuore, perché avessero il consenso per far
tutto da soli, e vabbè, ma per quanto fior fior di cervelloni si
alternino da anni nel tentativo di scrivere una legge elettorale che
eviti di avere due poker d'assi allo stesso giro, tant'è, chi vince è
costretto a spartirsi il piatto, sicché si tollera perfino che al
rilancio uno dica«servito» e si giochi tutte le fiches che ha davanti, |
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per
poi ritirare la posta in gioco se il giro pare butti male. E poi
comunque gli ordini vengono da Bruxelles, uguali per chiunque stia al
governo, tanto vale far finta di stare al gioco.
Non pensiate, però, che questo non abbia generato disagio. L'ha
generato, eccome. L'ha generato e continua a generarlo, come ieri
dimostrava il fenomeno del terzismo e oggi dimostra quello del
quartismo. Ma qui occorre intendersi.
Nel definire il terzismo come l'«atteggiamento di chi sostiene una
terza posizione autonoma rispetto a due schieramenti contrapposti», il
Treccani mette le mani avanti, dicendo che il termine è proprio del
«linguaggio giornalistico», come a dissuaderci da ogni considerazione
di merito sul significato che qui il significante si incarica di
rappresentare. È noto, infatti, che la logica che informa il
giornalismo non risponda affatto ai criteri sui quali in altri ambiti
si fonda la relazione tra cosa e parola, prevalendo la ratio che piega
l'una all'altra, o viceversa, per rendere efficaci delle suggestioni,
per lo più servendosi di eufemismi o iperboli.
Nel caso del terzismo, che peraltro è fenomeno tutto giornalistico
(nasce e muore dentro al Corriere della Sera, fatta eccezione per le
sue emanazioni emulative), la suggestione sta nell'evocazione di una
«posizione» che implicherebbe uno spazio ben definito, entro il quale
sarebbe possibile riconoscere, se non un'unità di pensiero, almeno un
comune sentire, che tuttavia non le conferirebbe i connotati di
«schieramento», e questo per il suo non porsi in competizione con le
due opposte «posizioni», ma anzi per offrirne ad esse una terza come
occasione di mediazione. Niente di più lontano, in realtà, da quanto
abbiamo constatato negli interventi di quanti venivano definiti
terzisti nel passato ventennio: la loro terzietà sembrava non avere
affatto un tratto univoco, né sul piano culturale, né su quello
politico, anzi, sembrava non avere neanche vocazione a mediare,
accontentandosi di trovare un'equidistanza che servisse ad assicurare
un profilo di superiore neutralità.
Tutto uguale col quartismo, che però rivela un'asimme tria di
neutralità che trova congruità con quella dello schema tripolare. E
infatti c'è quartismo e quartismo.
Luigi Castaldi
Malvino
05 agosto 2016
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