NUMERO 223 -PAGINA 4 -L'EUROPA DAVANTI ALL'ISIS IN LIBIA










Il fisico sovietico Andrej Sakharov, dissidente e premio Nobel per la pace, diceva dall'alto della sua scienza che «se un carretto sta fermo a lungo in salita, finisce per arretrare». La politica italiana sulla Libia rischia di dargli ragione ancora una volta, ora che l'America ha rotto gli indugi e ha cominciato una campagna di bombardamenti sul caposaldo Isis di Sirte.
La decisione presa da Barack Obama risponde a una richiesta del governo di riconciliazione libico e nasce dalle difficoltà militari delle milizie di Misurata, dissanguate dalle perdite e incapaci di conquistare il centro di Sirte. Ma è difficile non vedere, nella scelta di Washington, anche una delusa rinuncia alla linea tante volte ribadita secondo cui della Libia dovevano occuparsi gli europei guidati e coordinati dagli italiani. Da molti mesi, invece, dietro una facciata di concordia gli europei inseguono progetti diversi, i britannici e soprattutto i francesi sono assai meno contrari alla divisione della Libia di quanto lo siano gli italiani, gli italiani fanno gioco di sponda con gli americani assai più di quanto facciano francesi e britannici.
L'unica determinazione comune sembra essere quella di non andare oltre l'invio di poche truppe speciali incaricate di appoggiare senza combattere la guerra dei libici contro l'Isis (e di tenere d'occhio le truppe speciali altrui).

Strategia peraltro corretta, perché l'invio di contingenti terrestri non richiesti da autorità libiche alimenterebbe il nazionalismo anti stranieri, procurerebbe nuove reclute al Califfato e potrebbe comportare perdite pesanti. Ma un giusto realismo strategico non dovrebbe tradursi in paralisi politica e operativa, non dovrebbe impedire di cogliere i momenti in cui è necessario fare atto di presenza. Quando diventa evidente che la milizia di Misurata non ce la fa a prendere Sirte, quando il premier sostenuto dall'Occidente e dall'Onu chiede un aiuto aereo per liquidare la roccaforte dei tagliagole dell'Isis, è normale che siano soltanto gli Stati Uniti a rispondere? Non eravamo anche noi in attesa delle richieste operative del governo di riconciliazione? In una guerra che lambisce le nostre coste un uso ragionato della forza, più che mai contro l'Isis, non dovrebbe essere escluso. Con il risultato che la diplomazia dell'attendismo italiana ed europea rischia ora di delegittimarsi presso la fazione che dovrebbe esserci più vicina, quella del governo di Tripoli, mentre restano considerevoli le distanze rispetto ai poteri rivali di Tobruk e di Bengasi.

L'Italia rimasta ferma non poteva d'altra parte negare il suo appoggio all'iniziativa statunitense. Manifestare perplessità ci avrebbe esposti a un pericoloso isolamento. Ma dietro al placet e alle dichiarazioni di circostanza le preoccupazioni per il futuro non mancano.
Dallo scorso mese di maggio, quando Italia e Stati Uniti patrocinarono insieme la conferenza di Vienna e partì l'attacco delle milizie di Misurata contro l'Isis ormai asserragliato a Sirte, la nostra diplomazia si è data un traguardo ambizioso: coinvolgere nell'unità rappresentata dal governo Serraj quel generale Haftar che bloccava la ratifica del Parlamento di Tobruk e affermava da Bengasi di comandare lui l'unico esercito libico esistente. Viste le difficoltà nei rapporti con il Cairo per l'atroce affare Regeni, fu chiesto agli Emirati di convincere il presidente egiziano Fattah al-Sisi ad intercedere presso il suo protetto generale Haftar.

Ma lo scontro con la realtà si è dimostrato finora più forte delle buone intenzioni. Una Cirenaica che facesse da cuscinetto strategico piacerebbe moltissimo al Cairo. Haftar non ha mai mostrato propensioni a essere il numero due. E i capi della milizia di Misurata hanno sì accettato di diventare la fanteria del governo di Tripoli, ma esprimono un odio profondo nei confronti di Haftar. Di fatto l'unico passo che potrebbe forse sbloccare l'impasse è una rinegoziazione degli accordi di Skhirat del dicembre scorso, cioè un grande salto all'indietro.
Quale effetto potrà ora avere su una congiuntura diplomatica tanto precaria l'intervento americano? Una iniziativa militare di tutti gli alleati, richiesta da Tripoli contro l'Isis, avrebbe potuto essere una manifestazione di forza, un segnale di cui tener conto. I bombardamenti americani rischiano invece di essere visti come l'ennesima arroganza da superpotenza capace di peggiorare la situazione. Radicalizzando i contrasti interni in Libia, alzando ancora il prezzo di Haftar e vanificando quel clima di unione nazionale contro l'Isis sul quale troppo presto si voleva contare.

La Libia già divisa nei fatti e preda di una profonda crisi economica e finanziaria potrebbe invece abbandonarsi alla deriva che la spinge verso una separazione tra Cirenaica e Tripolitania, rendendo vana la strategia seguita dall'Italia. 
























Parole parole parole. Anzi: paura paura paura ma il nodo resta sempre lo stesso. Petrolio e fondi sovrani dell’Arabia Saudita. Se l’Occidente non si spoglia quasi del tutto di questi due problemi e non la smette di fare affari coi finanziatori dell’ISIS e i fornitori di petrolio, hai voglia di aspettare che mamma America coi suoi droni missili ed aviazione risolvano il problema.
Perché l’ISIS è ormai un insieme di molteplici bande armate che mira solo a far soldi e se ne è sempre strafregato del Corano e relativi casini di contorno. Solo noi occidentali ipocriti e  doppi come solito possiamo credere alla balla della guerra  contro noi infedeli.
Noi occidentali siamo in balia da una parte dell’ISIS e dell’Arabia e dall’altra parte di Putin  verso il quale siamo stati efficaci idioti nel rovinare quel poco di ripresa economica che poteva venire dai commerci.

E’ giunto il momento in cui l’Europa faccia una conferenza per capire quanti dei legami energetici ed economici possono essere recisi da ogni singolo stato definitivamente coi paesi produttori di petrolio -Arabia e Libia in primis- perché messaggio ai finanziatori e all’ISIS arrivi chiaro.

Il problema interno agli stati occidentali è che dell’energia ne abbiamo bisogno perché  stroppiamo sempre in tutto.



































































































































































Abbiamo gran parte di importanti beni nazionali e debito pubblico in mano come azionisti agli stati petroliferi. Dall’energia ogni stato nazionale ricava enormi profitti e risorse con cui finanzia opere pubbliche e benessere del paese.

La cancellazione militare e la sconfitta politica dell’ISIS non passa quindi con un guerra leggera e costosissima nella quale prevale il gioco ludo-bellica di generali scoionati, ma attraverso un nuovo modello di vita dell’Occidente nel quale sobrietà risparmio pace no al commercio delle armi ne siano la base.

Che è poi a bene vedere, anche la risposta alla crisi economica internazionale dentro la quale l’Italia sta sempre al penultimo posto, un gradino appena sopra il fondo.

C’è un evidente legame tra la crisi economica e l’esplosione dell’ISIS e non è la crisi economica che ha fatto da detonatore di questa nuova forma di terrorismo che può essere davvero catalogato come un insieme di bande criminali internazionali, bensì trattasi della incapacità - dello stordimento- dell’Occidente a ripensare un altro modo di vivere dove non abbia più pratica l’imperialismo sotto qualsiasi  aspetto.

Il meccanismo è paradossalmente semplice. Queste bande criminali  hanno compreso che l’Occidente non  potrebbe ridurre il proprio tenore di vita e quindi, verificato che  siamo dipendenti energeticamente da stati sostanzialmente canaglia, queste bande di criminali sanno come dove quando ricattarci al meglio spostando gli obiettivi secondo la convenienza immediata, sapendo che i nostri media faranno rendere l’episodio mille a mille.

Poi dietro al piatto ricco ci sono tutti i vari contorni. Ormai é notizia condivisa e accertata che Francia Inghilterra e gli USA ma anche Putin  abbiano i loro uomini sul campo dove combattono «un’altra guerra» che da un lato serve a garantirsi l’accesso alle risorse petrolifere e dall’altro a spostare e riequilibrare equilibri che potrebbero sballare al momento.

Insomma l’ISIS si  vince stringendo  la nostra cintura piuttosto che una mezza guerra che serve solo a consumare risorse, arricchire i soliti noti, proseguire all’infinito perchè finchè c’è guerra ci sono profitti per tanti.







































Con due aggravanti. Che crescerà il rischio terrorismo se i prossimi raid Usa partiranno da Sigonella o da Aviano. E soprattutto che resterà totalmente fuori controllo il criminale traffico dei migranti diretti in Italia, sulla cui pelle lucrano milizie costiere che meriterebbero lo stesso trattamento dell'Isis.

Franco Venturini
Il Corriere della Sera
03 luglio 2016