NUMERO 220 - LA PAURA DEL DECLINO DI NOI EUROPEI













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La serie di attentati che sta colpendo i Paesi del Vecchio Continente ancor di più rafforza lo stato d'animo
di sfiducia e di angoscia che si è insediato da tempo nelle opinioni pubbliche europee. Ognuno di quegli attentati consolida l'idea che bisogna «fare qualcosa», qualcosa di realmente efficace, reagire in qualche modo. Ma ogni volta è giocoforza constatare che nessuno sa indicare veramente che cosa si possa fare, e come. Tanto meno lo sanno i governi e i partiti che li sostengono, i quali appaiono sempre più destinati a perdere in tal modo autorevolezza e consensi.
Cresce così ogni giorno quel sentire venato di angoscia e nutrito dall'impotenza che ormai si sente spirare un po' dappertutto in Europa. Il sentimento della nostra decadenza, di una vera e propria crisi di civiltà. Nutrito potentemente dall'idea — o forse bisognerebbe dire dalla consapevolezza? — che una lunga fase felice della nostra storia si è chiusa per sempre e che ne è iniziata una di segno contrario: caratterizzata dalla dissoluzione dei precedenti equilibri mondiali favorevoli, dalla progressiva perdita da parte delle nostre società di una messe vastissima di opportunità preziose, dal subitaneo tramonto di convinzioni, di abitudini, di modelli di relazioni interpersonali più che degni e per l'innanzi radicatissimi.

Sempre più andiamo familiarizzandoci con l'idea di vivere un'epoca di sconfitta e di ripiegamento, di declino. Che non a caso è innanzi tutto un inquietante declino demografico:

Penso che noi (europei e italiani) non abbiamo  ancora compreso che non siamo più l'alfa e l'omega della civiltà e dello sviluppo economico e sociale. Non abbiamo ancora compreso cosa significhi avere in tasca un cellulare prodotto in Cina, avere in casa una lavatrice prodotta in India. sapere che  gran parte dei palazzi che svettano nelle nostre metropoli sono di proprietà di fondi sovrani di qualche nazione araba che finanzia il terrorismo. Ed alle quali noi vendiamo armi ben contenti perchè così i nostri operai lavorano e il nostro PIL cresce. Non abbiamo ancora  realizzato che le armi di Erdogan con le quali sta virando il mproprio paese nell'islamismo le abbiamo prodotte noi e gliele abbiamo vendute noi.
Non ci rendiamo conto che quei popoli "sottosviluppati" ci vedono in diretta sul cellulare o sulle tv e sognano chiedono pretendono la nostra democrazia benessere welfare. Magari pure qualcosa di più: essere trattati finalmente da pari a pari.
La differenza tra "noi e loro" sta nel fatto che "loro" hanno già realizzato di essere come noi mentre noi non lo abbiamo ancora realizzato.
Poi c'é il fattore demografico.
La nostra popolazione anziana difende coi denti i risparmi accantonati e sogna almeno un'inflazione  del 2% per pagarsi le pensioni e nel contempo "se ne frega" che 1/3 dei giovani non abbiano ne un lavoro ne una famiglia e forse non ce l'avranno mai.
Chiusa nel suo egoismo la popolazione dell'Occidente misura il suo futuro nel perimetro del salotto, del dentista, del medico, nella vecchia berlina e non s'é accorta che proprio quelli che ha eletto con la sua democrazia malata ha diviso l'Europa tra una parte che corre e s'arricchisce vieppiù e loro che -con parecchi soldi in banca- annaspano coi tichet e il prezzo della benzina .




La pervasività dei media elettronici, con il conseguente declino della scrittura; la perdita di capacità formativa da parte dell'istruzione scolastica, non più custode come un tempo di alcun legame con il passato; infine la secolarizzazione, intrecciata a un sempre crescente individualismo frantumatore di ogni legame a cominciare da quello familiare: sono questi fattori che disegnano un orizzonte in cui una parte non piccola (forse maggioritaria) della popolazione dell'Occidente euro-americano fatica sempre di più a riconoscersi.

Accade, tra l'altro, che una popolazione sempre più composta di anziani — quindi per forza di cose legata a costumi antichi — sia sospinta invece, inesorabilmente quanto paradossalmente, verso abitudini, valori, modelli di rapporti umani e stili di vita nuovi, nuovissimi (penso ad esempio a quanto sta accadendo nella sfera della vita sessuale) per essa inediti ed estranei, i quali richiedono un adattamento e un abbandono del proprio retaggio personale spesso penosi, non poche volte impossibili. Chi può dire il senso di frattura, di spaesamento, che tutto questo produce? Il malessere che scava come un tarlo nello spirito pubblico, e magari è destinato a toccare livelli esplosivi quando vi si aggiunge con il fenomeno dell'immigrazione l'arrivo di genti sconosciute? È un senso di frattura rispetto al passato, di spaesamento, di non essere più padroni in casa propria, che confluisce e a propria volta alimenta l'impressione di perdita, di declino e di crisi di cui dicevo prima. Come se la storia, dopo avere per tanto tempo lavorato a nostro favore, lavorasse ormai contro di noi.

Nasce da qui, da questi stati d'animo, la difficoltà psicologica di credere nel futuro, di aprirsi ad esso, di cominciare a costruirne uno. Ci sentiamo delle società vecchie, prive di energia. Alle quali proprio mentre questo sentimento di sfiducia nell'avvenire andava prendendo piede e divenendo dominante, dall'alto, dalle classi dirigenti, paradossalmente non ci sono venuti altro in tutti questi anni che inviti a cambiare. Dal suono sempre più insulso nella loro astrattezza, dal momento che erano proprio i cambiamenti fin lì intervenuti a fare paura, a essere visti con crescente inquietudine.

È in questo modo che si è creata in molti l'idea di un incombente destino di decadenza, di una crisi di civiltà. Un'idea alla quale ha dato un contributo decisivo — io credo, e lo dico sapendo di dire qualcosa che a certe orecchie suona blasfemo — il constatare da parte della gente comune, dell'uomo della strada, come stessero progressivamente scomparendo dall'orizzonte del pensiero politico dell'Occidente e dalla sua azione concreta, ambiti ideali, dimensioni e modalità pratiche che non solo ne avevano caratterizzato la secolare esistenza, ma ne avevano altresì assicurato un successo così rilevante.
Fatti oggetto a vario titolo, negli ultimi trent'anni (ma naturalmente tutto è cominciato assai prima), di una delegittimazione ideologico-culturale sempre più penetrante, l'impiego della forza, la dimensione dello Stato, e il Cristianesimo, più in generale il nesso religione-società, sono stati messi più o meno del tutto fuori gioco. In certo senso sono virtualmente — e agli occhi di molti «semplici», sospetto, inspiegabilmente — scomparsi dall'orizzonte sia pubblico che privato. È stata per gran parte l'opera di élite superficialmente progressiste, di debolissima cultura storica e politica, succubi delle mode, le quali hanno così creato un vuoto culturale e sociale enorme. Quel vuoto che da tempo forze torbidamente eterogenee hanno facilità a cercare di riempire con le loro ricette il più delle volte improbabili ma dalla presa emotiva potenzialmente sempre più forte.
















































































































































come se ci stesse venendo meno perfino la volontà biologica di avere un futuro. Qualcosa, insomma, che assomiglia, come dicevo, a una vera e propria complessiva crisi di civiltà.
Dopo il 1989 e la fine dell'Unione Sovietica la storia si è rimessa in moto a un ritmo che nessuno immaginava così impetuoso.
Nel vicino e medio Oriente, dal Bosforo all'Atlante, dal Karakorum a Bassora, sta rapidamente venendo meno  sta rapidamen-







































-te venendo meno l'ultima parte che ancora resisteva della vecchia sistemazione territoriale della Pace di Versailles — quella voluta a suo tempo dai franco-inglesi e poi ereditata dagli americani — ratificando un vuoto di potere mondiale, non proprio a noi propizio. Che ha il suo simbolo nelle ritirate e nelle sconfitte strategiche Usa dell'ultimo quindicennio.

In tutt'altro campo, un trentennio di crescita debole e di salari stagnanti in Europa e non solo, accompagnati da una prolungata contrazione dovunque della spesa sociale, ci stanno conducendo a dubitare sempre di più dell'antico sogno democratico. Ritornano massicciamente tra noi antiche povertà e antiche diseguaglianze, fratture e rancori antichi. Mentre i sistemi politici delle nostre società appaiono sconvolti dalle conseguenze di quanto ho appena detto e dagli effetti della globalizzazione pseudoliberista: con i poveri, le vittime del disagio sociale, e parti massicce della classe operaia che votano per la Destra, e invece la Sinistra che sempre più si qualifica come il partito delle élite mondializzate, colte, moderniste e agiate.

Anche il quadro ideale cui eravamo abituati, l'insieme dei valori e delle istituzioni deputati a incarnarli e preservarli, gli orizzonti culturali che ci erano consueti, appaiono sconvolti e in buona parte annichiliti.



Stiamo diventando più poveri proprio per via di quel cellulare prodotto in Cina e della lavatrice prodotta in india ma anche perchè facciamo un figlio in meno ogni cinque dei francesi.
Non siamo più quelli che hanno in mano il pallino del futuro ma siamo quelli che saranno per sempre in balia dei migranti econo mici e libertari di tutto il mondo se non smettiamo di produrre e vendere armi  in cambio degli enormi consu mi energetici di cui siamo famelici.
Non é moralismo. Non dimentichiamo cosa ci dicevano i nostri genitori quando nasceva un fratellino: ti accor ciamo la camicia. Per farne una per il nuovo arrivato.
Ecco: il nostro domani sarà sicura mente anco ra com'era il nostro ieri che abbiamo troppo presto dimenticato.