NUMERO 204 - ALLEGATO UNO |
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QUELLA GENERAZIONE DI GIOVANI CHE POTREMMO PERDERE di Massimiliano Valerii, direttore generale del CENSIS |
EMERGENZA MIGRANTI IL RISCHIO DELLA TENAGLIA Lucio Caracciolo, direttore di LIMES |
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Caro Direttore, le preoccupazioni di questi giorni per il futuro incerto delle pensioni dei millennial e per gli alti tassi di disoccupazione giovanile ci hanno ricordato che in Italia vive una generazione perduta. Ma la lost generation di Hemingway che usciva a pezzi dalla Grande Guerra non c'entra. Oggi in Italia si combatte una guerra del tutto diversa: la contesa generazionale sul lavoro e le risorse (scarse) del sistema di welfare. I giovani italiani sono una generazione perduta innanzitutto nelle statistiche. Quelle sulle nascite, di cui abbiamo una solida serie storica che parte dal 1862 (il Regno d'Italia aveva un anno di vita e la capitale era Torino) , dicono che nell'ultimo anno sono nati solo 488mila bambini, ovvero il minimo storico da quando disponiamo di dati affidabili (il 1862, appunto). In altri termini, non si sono fatti così pochi figli neanche in tempo di guerra, quando gli uomini stavano al fronte e sulle città cadevano le bombe (ne erano nati 676mila nel 1918, 821mila nel 1945). E siamo precipitati a meno della metà rispetto al picco storico recente (correva l'anno 1964: 1 milione e 35mila nati). Già nel 1972 eravamo scesi sotto la soglia delle 900mila unità, nel 1977 sotto le 800mila, nel 1979 sotto le 700mila, dal 1 984 in poi non abbiamo mai recuperato quota 600mila e il 2014 è stato l'ultimo anno soprai 500mila. La curva del- le nascite si piega inesorabilmente nonostante il grande aumento nel corso del tempo della popolazione (ci sono state più persone che potenzialmente potevano fare figli), nonostante i progressi della medicina (le morti al momento del parto sono, oggi un evento raro, la medicina riproduttiva consente ormai di fare miracoli), nonostante il contributo della popolazione straniera stabilmente residente nel nostro paese (il tasso di fecondità delle donne immigrate è più elevato di quelle italiane) . E' una deriva ineluttabile, si dice: in Occidente va così, ormai. Ma è falso. In paesi a noi molto vicini, ma meno fatalisti di noi, non c'è stata una emorragia di questa portata. Le coorti di giovani alla base di quella che non ha più alcun senso geometrico chiamare "piramide demografica" non sono così esangui: li i giovani non sono una specie in via di estinzione. In Italia gli under 30 costituiscono il 29 per cento della popolazione, in Francia superano il 36 per cento, nel Regno Unito sono il 37 per cento. E la Germania, che è stata afflitta come noi da una grave riduzione delle nascite, ha però messo in campo misure efficaci per attrarre giovane capitale umano da altri paesi. – La denatalità, insieme alla senilizzazione della popolazione, definisce i contorni di un fenomeno talmente nuovo che i demografi non dispongono nemmeno di un termine appropriato per nominarlo: qualcuno ora prova con "degiovanimento" (il contrario di ringiovanimento ) . I sociologi dei consumi, invece, hanno prima blandito i giovani sezionandoli in tribù e sottocategorie (la generazione Z fino a 20 anni, i millennial fino a`34, analizzati al microscopio rispetto alla generazione X che va dai 35 ai 49 anni, i baby boomer dai 50 ai 64, gli aged oltrei 65), sostenendo che erano loro i big spender e i trendsetter del mercato. Salvo poi accorgersi che, in realtà, sono gli anziani il vero motore dell'economia, semplicemente in ragione della capacità' di spesa legata a redditi sicuri e stabili nel tempo e in ragione della loro ricchezza patrimoniale accumulata negli anni passati. Prendi l'anno 1951 , quando l'Italia preparava il miracolo econornico, e il confronto è impietoso. Allora gli italiani erano 47,5 milioni: 14 milioni avevano meno di 18 annie 13 milioni avevano tra 18 e 34 anni. Oggi, invece, su quasi 61 milioni di abitanti, gli under 18 sono 10 milioni e i giovani di 18-34 anni sono 11 milioni. In sessantacinque anni, mentre la popolazione complessiva aumentava di 13 milioni di unità, abbiamo perso 5,7 milioni di giovani. |
Insomma,
nell'Italia del miracolo economico i giovani con meno di 35 anni erano
il 57 percento della popolazione, nell'Italia del letargo si sono
ristretti al 35 per cento. Rispetto agli anni '50, il boom degli ultrasessantacinquenni è dirompente: sono aumentati di 9 milioni.E se nel 1951 i grandi vecchi over 80 erano 622mila, oggi sono poco meno di 4 milioni. Se le persone con più di 90 'anni erano solo 28mila, oggi sono 666mila. E se gli oldest old, i centenari, allora erano una rarità (in quell'anno se ne contavano 1 65 in tutto), adesso sono diventati un esercito di quasi 20mila persone. Tutti questi dati ci piombano in un bel paradosso. Quello di un mercato del lavoro che tiene alla porta una generazione di giovani che, rispetto a tutte le generazioni che li hanno preceduti, mai prima d'ora sono stati così istruiti (il tasso di laureati tra loro è senza precedenti), mai prima d'ora sono stati così dotati di competenze specifiche possedute in modo pressoché esclusivo (rispetto ai quasi analfabeti digitali più vecchi di loro) , mai prima d'ora sono stati così aperti alla globalità (hanno una conoscenza delle lingue straniere, ad esempio, superiore a quella di chiunque altro li ha preceduti). Altro che "bamboccioni" o choosy. Secondo ragione, sono tutti fattori altamente spendibili in termini occupazionali. Mail mercato del lavoro, invece di approfittarne, per quanto li riguarda ristagna nella dissipazione del capitale umano che non si trasforma in energia lavorativa, scoraggia gli inattivi e i sottoinquadrati, è flagellato da tassi di disoccupazione giovanile che non riescono a scendere a livelli tollerabili E malgrado l'introduzione del Jobs act e degli sgravi contributivi sulle nuove assunzioni. Il cavallo non beve. Mentre nella ridotta di Palazzo Chigi ora si studiano ipotesi di flessibilità in uscita e di "staffetta generazionale”, per riacciuffare quei pochi talenti in fuga, nella cronaca il problema sembra ammantato da una coltre retorica che vorrebbe i giovani tutti interessati a un impiego (magari autonomo) nel mondo delle app e startup. Come se fosse vero che tutti i giovani possano trovare lavoro in una iniziativa imprenditoriale nelle piattaforme digitali, che sia creativa e innovativa, magari in grado di rivoluzionare il mondo. Come se non fosse vero che una startup su mille ce la fa e tutte le altre falliscono nel giro di una manciata di mesi. A voler tirare le somme con onestà, bisogna riconoscere che lo scarso peso demografico dei giovani si traduce automaticamente in una scarsa incidenza politica. Molto prosaicamente, i giovani sono pochi: per questo' non contano. Chi rappresenta, poi, i loro interessi? "Rappresentanza” è una parola che, mi rendo' conto, rischia di apparire desueta nell'epoca della disintermediazione, in cui uno vale uno e non c'è aggregazione identitaria (men che meno ideologica) che tenga. Però il problema rimane (i pensionati, almeno, hanno in mano la metà delle tessere sindacali, per quello che oggi possono valere). Se i giovani devono mangiare futuro, come vuole l'assunto biologico, le scelte politiche dovrebbero essere lungimiranti, strategiche, programmatiche, anziché rimanere intrappolate in un –presentismo che garantisce consenso. Ma i millennial che hanno diritto al voto sono 11 milioni (e negli ultimi quindici anni sono diminuiti di oltre 17 punti percentuali: 2,3 milioni in meno) rispetto a un corpo elettorale fatto di quasi 50 milioni di persone: numeri bassi da contendersi nel mercato elettorale. Chi scommetterebbe su una componente sociale (elettorale) ridotta al lumicino e che si va ulteriormente eclissando? Così, il cerchio si chiude al punto di partenza: sulle statistiche della generazione perduta. Non si tratta di mettere un cartello in cima allo stivale con su scritto "AAA Cercasi giovani”. Ma almeno non riduciamo la questione a un giovanilistico hashtag (#AAA- cercasigiovani). 01 giugno 2016 |
Le migrazioni rischiano di trasformare l'Italia in una pentola a pressione. Per il convergere di tre fattori: i crescenti flussi da sud e da est; i severi controlli anti-migrante lungo le frontiere alpine; soprattutto, la deriva Xenofoba che la retorica dell"'invasione" minaccia di suscitare nel nostro paese, con gravi conseguenze per la pace sociale e l'ordine pubblico. Gli oltre 14 mila sbarchi in tre giorni hanno fatto saltare la catena degli hot spot e indotto il ministero dell'Interno a emanare una circolare di emergenza per il trasferimento provvisorio di 70 migranti in 80 pro- vince (a proposito: non volevamo abolirle? ). Nella frenesia da campagna elettorale la Lega e altre destre hanno evocato lo spettro del "genocidio", ovvero la "sostituzione etnica” degli italiani che si presumono "puri" con gli "impuri" lanciati da qualche misteriosa entità (immaginiamo pluto-giudaico-massonica) alla conquista dello Stivale. Restiamo ai fatti. Dall'inizio dell'anno a oggi sono sbarcate sulle nostre coste 47.740 persone, il 4,06% in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Quasi tutte provenienti dall'Africa subsahariana e dall'Eritrea via porti della Tripolitania ormai somalizzata e, in qualche caso, dell'Egitto. L'effetto "invasione" non è dunque dato dal totale degli sbarchi ma dalla loro concentrazione nel tempo e nello spazio. Oltre che dalla smisurata eco mediatica. Questo non garantisce affatto il futuro: sappiamo che centinaia di migliaia di migranti economici e ambientali, oltre che di richiedenti asilo, attendono di raggiungere l'Unione Europea. In particolare la Germania e i paesi nordici, dove le opportunità di impiego e le garanzie di assistenza sono nettamente superiori a quanto offra l'Italia. Ed è anche probabile che la chiusura della rotta balcanica - ammesso che l'accordo Merkel-Erdogan non salti -- finisca per deviare i migranti in fuga dalle guerre mediorientali verso il Canale di Sicilia. Qui sta il rischio. Se all'aumento della pressione migratoria dovessero corrispondere controlli più aggressivi alle frontiere con Austria e Francia, o addirittura la loro temporanea chiusura, l'Italia si troverebbe compressa in una micidiale tenaglía. Non è scenario di fantasia. Il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz, ha ricordato che tra pochi mesi il suo paese raggiungerà la soglia massima prestabilita per i richiedenti asilo, il che provocherà il respingimento ( in Italia) degli aspiranti rifugiati. E il fermento a Ventimiglia, dove il parroco ha accolto in chiesa un centinaio di migranti (più di quanti il Viminale ne abbia assegnati a una provincia intera), |
non promette nulla di buono, viste anche le costanti-frizioni ranco-italiane. La Francia è infatti in prima linea nel pretendere da]l'Italia non solo più hot spot (abbiamo promesso che ne apriremo altri), ma anche più centri di identificazione ed espulsione: in parole povere - ma terribili -- campi di concentramento. Qui si devono trattenere gli "irregolari" in attesa di espulsione - ovvero persone che non hanno commesso alcun reato - in condizioni spesso rivoltanti. ll governo di Roma resiste a tali pressioni per ragioni anzitutto umanitarie. I partner nordici insistono, arrivando a minacciare procedure d'infrazione europea, peraltro prive di base giuridica. Renzi finora resiste. Sul fronte interno, respingendo l'offensiva xenofoba. In campo europeo, rilanciando con il suo migration compact. Aiutiamo gli africani a casa loro, così dovremo soccorrerne di meno a casa nostra. Giusto. Il presidente della Commissione, Juncker, ha risposto con una lettera di plauso. Punto. Siamo e probabilmente resteremo alle buone intenzioni. Fatti zero. . Di qui due conclusioni - una per l'immediato, l'altra per la prospettiva. Primo: c'è un'emergenza umanitaria nel Mediterraneo. Se non l'affrontiamo, i morti solo quest'anno potrebbero essere migliaia. Marina e Guardia costiera italiana stanno facendo miracoli, di cui forse non siamo abbastanza consapevoli. Con l'aiuto di Forze armate di altri paesi, di organizzazioni umanitarie e internazionali, oltre che di semplici volontari, il raggio d'azione delle operazioni di salvataggio può essere allargato. In attesa di allestire canali migratori umani, regolati ed economici, che mettano all'angolo gli scafisti. Il primo diritto umano è quello alla vita. Dopo averlo tanto predicato, è il momento di praticarlo. Secondo: l'Europa non ci salverà. L'Italia deve attrezzarsi ad affrontare la questione migratoria- non l'emergenza di un giorno: la normalità dei prossimi decenni - con i propri mezzi. Ciò significa investire in infrastrutture per l'accoglienza e per l'integrazione, a meno di non accettare che il Belpaese si sfiguri in arcipelago di ghetti. Con annessi lager. La Germania, scartando per una volta dal dogma antikeynesiano, ha appena varato misure analoghe per decine di miliardi, sulla cui ripartizione già s'azzannano governo centrale e Laender. E urgente che l'Italia si doti di una sua legge per l'integrazione e che mobiliti le risorse economiche, culturali e politiche necessarie. Perché qui si gioca il futuro della nostra comunità. Se falliremo, non avremo prove d'appello. 01 giugno2016 |
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