NUMERO 273 -PAGINA 1- LA TURCHIA PROSSIMA ALLA GUERRA CIVILE?






















































































































































Nel Medio Oriente che sanguina, alleati e complici diventano spesso nemici o finti amici. E viceversa. Il caso Erdogan è esemplare. Fino a poco più di una stagione fa il presidente turco era il campione dell'Islam sunnita. Era il "sultano" di un progetto neo-ottomano, di netta impronta musulmana, sia in politica estera che in politica interna. Adesso lo vediamo invece membro di un'alleanza russo-iraniana sul piano militare e diplomatico favorevole alla causa sciita. Ossia allo schieramento opposto. La Turchia di Erdogan ha dunque nuovi amici ma anche un più fitto numero di nuovi nemici. Ferita da quattro attentati in meno di un mese, fatica a dare un'identità agli autori di un massacro come quello di Capodanno, nel night club sul Bosforo. Anche una rivendicazione può non essere convincente e lasciare dubbi.
La "vanità" terroristica può spingere ad aggiu-



Il quale era visto come un esempio di Islam moderno. Il mito è svanito. Il cessate il fuoco in Siria è stato promosso nei giorni scorsi dai turchi e dai russi, con alle spalle gli alleati iraniani (la Siria di Bashar el Assad è un'appendice della Russia), senza che venisse coinvolta la coalizione guidata dagli Stati Uniti, alla quale partecipano, almeno formalmente, anche dei Paesi arabi. Tra i quali l'Arabia Saudita e il Qatar. L'iniziativa è stata benedetta giustamente dal Consiglio di Sicurezza e approvata dagli Stati Uniti. Non si intralcia, chiunque lo compia, il tentativo di arrestare un massacro. Ma i risentimenti per il "giro di valzer" turco, con il quale Erdogan ha voltato le spalle agli amici arabi di un tempo, non si sono spenti. L'imminente ingresso alla Casa Bianca di un presidente come Donald Trump, tutt' altro che ostile a Vladimir Putin, ridurrà la perplessità suscitata in molti governi occidentali dall'improvvisa e stretta alleanza con il leader russo di un importante membro della Nato, quale è la Turchia di Erdogan. Al momento prevale comunque la dovuta solidarietà per i morti del night club sul Bosforo.
I nemici mortali di Erdogan sono i curdi e Gülen. Per frenare l'irredentismo dei primi, a suo avviso una seria minaccia all'unità della nazione turca, Erdogan ha aiutato i ribelli sunniti in lotta contro il regime di Damasco. 
Li ha abbandonati quando gli è sembrata più efficace, per contenere i curdi, l'alleanza con la Russia e con l'Iran,le cui forze aeree e di terra schierate con Bashar el Assad







La Turchia è in guerra civile. Nemmeno troppo strisciante. Già da trent'anni, salvo fragili tregue, il Sud-Est anatolico è destabilizzato dalla rivolta curda, guidata dal Pkk. Guerra a bassa intensità che ha provocato oltre quarantamila morti.

Ma negli ultimi tempi il campo dello scontro si è allargato al resto del paese, concentrandosi nelle grandi città, da Istanbul ad Ankara. Ieri è stata la volta di Smirne, capitale informale della “Turchia bianca” o “Euroturchia”, dove la penetrazione islamista è moderata e lo stile di vita molto più occidentale che nell'Anatolia profonda.
L'attacco al tribunale di Smirne è stato provvisoriamente attribuito al Pkk. Non certo un caso a sé, ma l'ultimo episodio di una sequenza di terrore che sta scuotendo la Turchia, danneggiandone profondamente l'economia (a partire dal turismo) e l'immagine globale. Sono passati appena cinque giorni dalla strage del night club “Reina”, a Istanbul, attribuita allo Stato Islamico, a suggellare un 2016 particolarmente sanguinoso — oltre duemila morti — culminato nel fallito golpe del 15 luglio.
Quale che sia la matrice degli attentati in serie, la Turchia è impegnata in una guerra al terrorismo combattuta lungo due direttrici. Sul fronte siro-iracheno, contro i curdi locali, per impedire loro di saldarsi con i curdi anatolici — e di passaggio anche contro gli uomini del






































































































































































Caracciolo paventa la guerra civile in Turchia ma numeri alla mano dei morti degli incarcerati dei fuggiti dal paese ci  dicono che Erdogan il traditore ormai è rimasto solo . Solo con quelli cui paga un salario ma si sa che questo tipo di fedeli sono pronti al tradimento appena vedono concretizzarsi un altro. Erdogan è un pazzo che sta seminando morti in quantità  nel proprio paese ma è a capo di una nazione che è alleata della NATO ed ha uno dei maggiori eserciti del'alleanza. La NATO non può tollerare che un suo paese membro sia conciato in queste condizioni, sostanzialmente privo delle libertà democratiche minime per essere un paese occidentale. Non può nemmeno esserlo come mero agente militare dal momento che ha pienamente accettato –in accpordo con Putin e l'Iran- che la Siria, quand'anche domani  non avesse più Assad come criminale supremo a capo del paese, questa (la Russia) manterrà le basi russe di Tartus e Latachia e l'Iran disporrà di un collegamento diretto via terra verso il Mediterraneo.

La Turchia di Erdogan ma anche la Siria Russia e l'Iran non possono ridurre la questione della libertà del popolo curdo a una mera rivendicazione terroristica. Il territorio curdo dispone di due beni fondamentali: l'acqua potabile e il petrolio. Soprattutto i curdi conservano un'idea laica dello stato che non appartiene a nessuno dei quattro stati che si riuniranno a fine gennaio nella capitale del Kazakhstan, Astana.













































































































































































































































































































































































































dicarsi delitti compiuti da altri. La cattura del colpevole vivo potrebbe dare qualche certezza.

Non basta più indicare come colpevoli i curdi del Pkk o i jihadisti dello Stato Islamico o i complici di Fethullah Gülen, l'amico religioso di ieri e oggi il colpevole di tutti guai, compreso il fallito colpo di Stato dello scorso luglio. In un labirinto qual è l'odierno Medio Oriente non è sempre facile capire se l'alleato di oggi lo sarà ancora l'indomani. Nella battaglia di Aleppo il governo di Ankara ha sostenuto a lungo gli avversari di Damasco. All'inizio della guerra civile in Siria ha quasi dichiarato la guerra al regime di Bashar el Assad (appartenente alla comunità alawita, di origine sciita), e ha appoggiato l'opposizione sunnita. Cinque anni dopo, il 19 dicembre scorso, il poliziotto turco che ha assassinato Andrey G.Karlov,  l'ambasciato re russo ad Ankara, pare volesse punire il paese che bombardava i ribelli impegnati nell'assedio di Aleppo. Ma in quella battaglia l'alleata della Russia di Putin, e del regime siriano di Bashar el Assad, era la Turchia di Erdogan, insieme all'Iran degli ayatollah. I proiettili non erano dunque destinati soltanto alla vittima russa. Il ribaltone può essere definito storico, perché la tradizione ottomana, alla quale si richiamava un tempo Erdogan, ha considerato spesso, per secoli, inevitabili avversari sia la Russia sia l'Iran. E ha affidato alla Turchia il compito di difendere l'Islam sunnita. Inoltre la svolta è avvenuta a Aleppo, nella città storicamente più ottomana della Siria.

Erdogan ha sposato a lungo la causa araba. Fino a diventare il punto di riferimento delle "primavere", da quella tunisina a quella egiziana. Poi è stato l'ispiratore dei Fratelli musulmani vincitori delle elezioni a Tunisi e al Cairo. In ossequio al grande amico, prima di essere esautorati, i Fratelli musulmani hanno aggiunto ai nomi dei loro partiti le parole "giustizia" e "sviluppo", quelle dell'Akp turco di Erdogan.










La formale dichiarazione dei ministri degli esteri : “noi tutti concordiamo sul fatto che la sovranità e l'integrità territoriale della Siria debbano essere rispettate.
Siamo anche d'accordo sul fatto che non possa esserci una soluzione militare alla crisi siriana. Crediamo che non ci sia alternativa alla soluzione politica del conflitto» è una bugia servita ai media internazionali.

La Siria non verrà divisa ma diverrà un protettorato del terzetto russo iraniano e turco, magari anche per cacciarvi oltre che i sostanziosi relitti dell'ISIS anche quei curdi che non si sottometteranno. La crisi della zona non è quindi “solo” quella della Siria anche se questa appare maggiormente  nel contesto per le azioni militari internazionali in corso ma è anche quella dei Curdi anzi, soprattutto questa perché –come detto- hanno tre risorse che il trio dei protettori non ammettono:
(1) acqua, energia ed agricoltura (2) laicità e democrazia
(3) una posizione strategica a cavallo dei paesi.
Ecco che l'scalation di attentati inflitti da svariati ma




"califfo" Baghdadi. E sul fronte domestico, infiammato dalle rappresaglie jihadiste e curde che hanno colpito a Istanbul e a Smirne, con l'opinione pubblica scossa perché colpita nel suo stile di vita.
Quel che è peggio, lo Stato turco sembra vacillare sotto tanta pressione. Alle porte dell'Unione Europea c'è un colosso di 75 milioni di anime — con in pancia oltre tre milioni di rifugiati siriani, iracheni e afghani — che sta sbandando. La sua sorte ci coinvolgerà direttamente.
Al vertice, un leader solitario e solipsista, Recep Tayyip Erdogan, sostenuto dalla maggioranza dei turchi, sta per varare una riforma costituzionale di taglio ultrapresidenziale. In primavera, Erdogan vorrebbe vedere consacrato per referendum il suo rango di presidente-sultano. Nel corso di quest'anno gli elettori saranno forse chiamati a un secondo plebiscito, stavolta per opporre un “no” forte e definitivo all'ingresso nell'Unione Europea: «Questo popolo decide da solo, e da solo taglierà il suo cordone ombelicale» — parola di presidente. Sarebbe sbagliato concentrarsi solo sulla figura dell'ondivago leader che domina la scena politica da un quindicennio. In gioco è il futuro di un paese chiave che rischia di essere risucchiato nella mischia geopolitica mediorientale e di perdere contatto con l'Occidente, pur restando membro della Nato. Nei palazzi di Ankara si discetta anzi del ruolo della Cia nella strategia di destabilizzazione del paese, di cui gli attacchi di Istanbul e Smirne sarebbero tappe molto provvisorie. E si rimarca lo scarso sostegno Usa alle campagne militari turche in Siria e in Iraq, punendo la Turchia per il recente avvicinamento alla Russia. In questo clima giunge la velata minaccia del governo turco di chiudere la base Nato di Incirlik, che ospita 90 testate atomiche americane. Anche se fosse pura retorica, un sintomo della crisi nei rapporti fra Ankara e Washington alla vigilia dell'insediamento di Donald Trump.
Il primo nemico di Erdogan, secondo questa lettura, resta il «terrorista» Fethullah Gülen, l'imam che dal suo eremo in Pennsylvania protetto dall'intelligence americana ispirerebbe la strategia della tensione, dopo aver malamente progettato il golpe del 15 luglio. Risultato: per liquidare l'organizzazione di Gülen, Erdogan ha fatto il vuoto nello Stato profondo — esercito, polizia, magistratura, intelligence — a caccia dei suoi complici presunti o effettivi. Le Forze armate, orgoglio della Turchia, seconde solo a quelle americane in ambito atlantico, sono indebolite nei mezzi, nella guida e nel morale proprio mentre si chiede loro uno sforzo speciale per combattere le molteplici minacce alla sicurezza nazionale.
La cura si sta rivelando peggio della malattia. Per sradicare i gulenisti il presidente ha infragilito lo Stato che dichiara di voler proteggere dai terroristi. Questo capitolo decisivo per il futuro della Turchia è solo alle prime righe.

Lucio Caracciolo
La Repubblica











































































































































































































































































































































































































































erano impegnate contro i ribelli non jihadisti, con un'intensità maggiore a quella riservata ai terroristi di Nusra e dello Stato Islamico. Non pochi musulmani sunniti turchi sono stati feriti dal fatto che si sia preferito lasciare Aleppo, storica città ottomana, nelle mani di truppe sciite e russe. L'assassino dell'ambasciatore russo è un caso estremo, ma rivelatore.

Quello che riguarda Gülen è un altro capitolo che mette Erdogan in contrasto con una parte della società musulmana che è la base del suo partito. Del suo elettorato. Il predicatore e teologo Gülen, da Filadelfia dove vive, gestiva una fitta rete di interessi, dalle associazioni religiose alle scuole, dai giornali alle banche, dai grandi magazzini agli alberghi, non solo in Turchia. Erdogan l'ha accusato di avere organizzato il fallito colpo di Stato di luglio e ne ha chiesto l'estradizione, finora invano. Ma ha soprattutto promosso una vasta confisca dei suoi beni e un'altrettanta vasta epurazione (con arresti di militari, funzionari, magistrati, e intellettuali) nell'esercito, in particolare nell'aviazione, e nell'apparato statale, dall'insegnamento alla giustizia. Tra gli accusati di essere complici o simpatizzanti di Gülen vi sono molti religiosi, fedeli dello stesso Islam di cui Erdogan è ancora l'espressione. Ma forse in misura minore e con qualche incontrollabile contestazione.

Bernardo Valli
La Repubblica

































scarsamente identificati alla Turchia non conduce che alla soluzione finale: l'eliminazione fisica di Erdogan e il conseguente collasso dell'area sud della NATO.
Peraltro nella NATO l'eliminazione fisica di Erdogan, con tutta la debita ipocrisia dell'Occidente, ormai appare come l'unica soluzione a  gran parte dei problemi della zona. Siria compresa.

Il troppo lento “spegnimento” della presidenza Obama –cominciata coi primi comitati elettorali oltre due anni or sono- coniugata col pessimo risultato  della Clinton unitamente alla crisi politica in cui versa l'Unione Europea hanno dato fiato sia all'ISIS che a tutti quei movimenti interni alla Siria -Staffan de Mistura  dice che siano  98- che fanno la guerra in Siria e nei dintorni. La debolezza politica e militare dell'Occidente è stato alla base del caos che regna nella regione il cui prossimo “sviluppo negativo” sarà appunto l'eliminazione (fisica) di Erdogan.

Poi tutto questo  dovrà coniugarsi con la presidenza Trump di cui non si riesce a leggere nessun aspetto positivo.
Ci attende un brutto 2017 in tema Medio Oriente.























LE FOTOGRAFIE:
In alto:Siriani e turchi in preghiera fuori da una moschea nel distretto di Konak, Izmir
In basso: Yalcin, un lavoratore tessile afro-turco che vive a Basmane, Smirne
(foto di Giacomo Sini).