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NUMERO 394 |
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Il problema numero uno è il lavoro (e non solo da noi): sono possibili risposte globali ? Il problema numero uno nel nostro paese è quello del lavoro. Un problema sul quale bisogna fare chiarezza statistica prima di tutto. Gli ultimi dati BCE fanno un importante passo in avanti andando oltre il tasso di disoccupazione classico e mettendo assieme ad esso la quota degli inattivi (coloro che non cercano occupazione) scoraggiati e la quota di chi lavora meno ore di quelle che vorrebbe (che cattura tutti coloro che fanno qualche ora di lavoro o sono impegnati in tirocini e quindi non hanno un vero e proprio posto di lavoro). Se consideriamo la somma di questi tre gruppi abbiamo un tasso di insoddisfazione derivante dalla mancanza di un lavoro degno molto più alto in Europa e anche in Italia. Ma il problema non è certo legato ai problemi dell’UE o dell’Eurozona. La questione è mondiale e ha a che fare con la corsa al ribasso nei costi tipica del nostro sistema economico calata nel nuovo (ormai non più tanto nuovo) contesto dell’economia globale. Basta leggere un qualunque manuale di microeconomia per capire che il modello economico vigente ha due obiettivi principali. Il primo è creare la massima ricchezza possibile per gli azionisti, il secondo è aumentare il benessere dei consumatori fornendo la maggiore varietà di beni a prezzi possibilmente sempre più bassi. E’ il lavoro ? E’ un input di produzione come il capitale, una voce di costo, una riga di bilancio. L’obiettivo della dignità del lavoro e del benessere del lavoratore non lo troverete in nessuna riga di nessun capitolo. Un sistema così congegnato, con due ruote perfette (benessere azionista e consumatore) ed una completamente sgonfia (benessere del lavoratore) non può che far deragliare la macchina e produrre infelicità. E’ infatti ben noto nella vastissima mole di studi econometrici sulle determinanti della felicità che il lavoro è parte essenziale della dignità della persona e della sua soddisfazione di vita. |
Ma il problema
più grave del clima è quello sul posto di lavoro e la specie che è più
urgente tutelare e proteggere è quella degli umani quando lavorano. A
quando dunque fondi che misurano l’impronta della dignità del lavoro e
premiano con il loro lavoro le imprese leader in materia ? Per arrivare
a questo risultato è fondamentale costruire un’infrastruttura
informativa che aiuti consumatori e risparmiatori a scegliere, per il
loro stesso interesse, in direzione della dignità del lavoro. Per
questo dalla rete della società civile riunita in Next sta nascendo Eye
On Buy, un Trip Advisor a 3D dove alle stellette sulla qualità del
prodotto si aggiunge l’informazione sulle stellette della dignità del
lavoro e della sostenibilità ambientale. Con i cittadini che
contribuiscono attivamente con le loro valutazioni e segnalazioni
assieme alle imprese alla determinazione dei punteggi. Eye On Buy punta
su semplicità, sburocratizza zione, |
L’Istat ora vuole eliminare le classi sociali Marzio Barbagli, Chiara Saraceno e Antonio Schizzerotto Nel Rapporto annuale 2017 l'Istat sostiene che le classi sociali sono ormai scomparse dalla società italiana e le sostituisce con nove gruppi. Ma la nuova classificazione è un passo indietro perché debole sotto il profilo concettuale e metodologico. Nove gruppi al posto delle classi sociali Nel Rapporto annuale 2017 l'Istat sostiene che le classi sociali sono ormai scomparse dalla società italiana, che è venuto meno il “senso di appartenenza” a esse, e presenta una nuova classificazione a nove gruppi. L'affermazione secondo cui le attuali disparità sociali avrebbero frammentato e travolto le vecchie classi sociali non è nuova. Né è nuova l'affermazione secondo cui le persone non si identificano più |
e
di povertà non come effetti dell'appartenenza a un gruppo sociale,
bensì come elementi costitutivi di quel gruppo. Considera sì la
posizione occupazionale come la prima discriminante, ma in modo
concettualmente troppo confuso per essere utile. Infatti, i primi due
grandi gruppi in cui viene suddivisa la popolazione di famiglie, che
poi vengono successivamente articolati in base a una struttura
analitica “ad albero”, sono da una parte quelle in cui la persona di
riferimento (paradossalmente chiamata “principale percettore di
reddito”, anche quando non ne percepisce affatto) è “inattiva o
disoccupata oppure lavora ma si colloca nella fascia bassa delle
retribuzioni (lavoratore atipico, cioè dipendente con contratto a
termine o collaboratore, operaio o assimilato)”, dall'altra tutte le
altre. Date le premesse, tutti i nove gruppi dell'Istat appaiono scarsamente plausibili sotto il profilo |
Disuguaglianze all'interno dei gruppi Il Rapporto evidenzia poi che gran parte delle diseguaglianze osservate fra gli appartenenti ai nove gruppi è spiegata da disuguaglianze interne ai gruppi invece che tra gruppi. Tuttavia, non prende il dato come prova della debolezza concettuale e metodologica del proprio esercizio, ma lo utilizza come base della propria tesi della frammentazione sociale e della sparizione delle classi. L'analisi dell'Istat avrebbe potuto portare all'identificazione di un insieme discreto di livelli complessivi di benessere (o malessere) socio-economico. A quel punto, però, sarebbe stato necessario stabilire come questi livelli si distribuiscono entro le varie classi sociali o entro le varie categorie occupazionali. Se le classi fossero risultate internamente molto disomogenee,allora Istat avrebbe avuto un buon argomento per affermare |
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nelle
classi. Ma proprio nelle due negazioni sta la prima contraddizione del
Rapporto: si dichiara la scomparsa delle classi sociali, ma si afferma,
per altro senza alcuna evidenza empirica, che i nove raggruppamenti
identificati dall'Istat su base statistica sarebbero “strutturali” e
fornirebbero “forme di appartenenza e identificazione”, ovvero
avrebbero la caratteristica tradizionalmente associata alle classi. La debolezza concettuale |
empirico
e poco comprensibili sotto quello sostanziale, essendo aggregati
eterogenei di soggetti in posizioni sociali e in condizioni di vita
assai difformi tra loro. Cosa sono le “famiglie tradizionali della provincia”? Forse le famiglie tradizionali non esistono anche in contesti metropolitani? Come fanno i “giovani blu collar” ad avere un'età media di ben 45 anni? E cosa hanno in comune “le anziane sole e i giovani disoccupati” che |
che
sono scomparse e non costituiscono più la base della stratificazione
sociale. Ma così come stanno le cose, l'Istat finisce solo per
contraddirsi una seconda volta. Negli ultimi venti anni, gli istituti di ricerca privati hanno inondato i giornali di nuove, curiose tipologie sulla società italiana, durate lo spazio di un mattino. Ci auguriamo che l'Istat, un istituto pubblico con una lunga storia di serietà e di rigore, non voglia seguire la stessa strada. Nella comunità scientifica europea, per analizzare la stratificazione sociale e i suoi effetti, viene da tempo usato lo schema proposto dal sociologo inglese John Goldthorpe, assai simile agli schemi che l'Istat ha seguito in passato. Non sappiamo se ora l'Istituto intenda sostituirlo con il nuovo schema a nove gruppi che ci ha presentato. Se lo facesse sarebbe un passo indietro, che renderebbe impossibile rigorose analisi comparate. |
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dell'esercizio
diventa metodologica con l'inversione del rapporto tra causa ed
effetto. Laddove le classi sono state sempre intese come fattori
generativi di disuguaglianza – e non come il suo risultato -, l'Istat
procede in direzione contraria. Guarda alle diseguaglianze di reddito,
di istruzione, di esposizione airischi di disoccupazione |
quasi
sempre vivono con i loro genitori? Difficile capirlo. Appare invece
chiaro che con questa classificazione non sarebbe più possibile
studiare la mobilità sociale. L'Istat ci ha presentato in passato
ottimi dati sulle probabilità che ha il figlio di un operaio di entrare
nella borghesia. Ora non potrà certo chiedersi se chi viene dal gruppo
“anziane sole e giovani disoccupati” può passare alle “famiglie tradizionali di provincia” e da qui ai “giovani blu collar”. |
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Come
correggere la rotta tenendo conto che la buona volontà di un solo paese
potrebbe paradossalmente produrre delocalizzazione con le imprese che
fuggono verso paesi dove i costi del lavoro sono minori e un sindacato
globale che protegga allo stesso modo gli interessi dei lavoratori di
tutti i paesi è al di là da venire ? Stiamo provando in questi mesi a costruire due risposte. La prima viene dalla consapevolezza che il potere forte del mercato siamo noi. Ovvero il potere nell’economia di mercato è nelle mani dei consumatori e dei risparmiatori. Che purtroppo sono poco consapevoli, frammentati e utilizzano al momento il loro voto col portafoglio molto al di sotto del potenziale. Un luogo dove il voto col portafoglio può aggregarsi e pesare di più è sicuramente quello della finanza. Nel settore ambientale sempre più fondi d’investimento “decarbonizzano” e votano per un ambiente più pulito. Quest’azione, combinata con quella istituzionale ha ormai invertito la rotta. Trump o non Trump i mercati hanno votato per il futuro perchè Tesla (l’impresa automobilistica che fa solo motori elettrici) vale più della Ford. |
per
evitare che la responsabilità sociale ed ambientale si traduca in
elevati costi fissi diventando un lusso abbordabile solo dalle grandi
imprese. Il centro di Eye On Buy non sarà il cittadino o l’impresa ma
la relazione tra i due perché solo mettendo al centro la relazione sarà
possibile trasformare l’energia delle differenze di opinioni da
conflitto in vero progresso. Come anche nel settore ambientale
l’inversione di rotta può arrivare da una combinazione di azione dal
basso e iniziative di policy. Queste ultime, per evitare il rischio di
corsa al ribasso e delocalizzazione, devono necessariamente agire dal
lato della domanda e non dell’offerta. La rimodulazione dell’IVA con
una social consumption tax che premi le filiere con migliore qualità
del lavoro sarebbe a questo punto decisiva una volta costruita
l’infrastruttura informativa per misurare la qualità del lavoro stessa. Leonardo Becchetti |
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