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M5s, il 'penombra' Davide Casaleggio sotto i riflettori della Gruber
di Pierfranco Pellizzetti |
Dopo tanta attesa “il penombra”compare da- -vanti ai riflettori
televisivi del salotto di Lilli Gruber e, franca- mente, l'effetto risulta
molto modesto: un deludente mix di banalità e reticenze. A riprova che
nella società dell'appa- rire, l'assenza deliberata diventa la migliore
tattica per suscitare interesse. |
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Attesa che
però, nel caso dell'uomo misterioso Davide Casaleggio, si rivela un
boomerang; quando costui inizia faticosamente a esporre il proprio
pensiero, tanto a lungo tenuto celato: l'insieme di luoghi comuni,
tipici di una consulenza alla milanese specializzata in
semplificazioni, e giochetti mimetici per non offrire punti di
riferimento.
Del resto, in questo secondo caso, tecnica condivisa da Beppe Grillo,
per cui il Movimento padronale, guidato in base a principi autoritari e
regolato secondo i criteri arbitrari imposti da un ristretto nucleo di
azionisti, si dichiarerebbe privo della cabina di comando; sostituita
da un fantomatico organismo multicellulare evolutosi in intelligenza
collettiva.
Quel brainpower che, messo alla prova nella dimensione elettrificata
della rete, ora escogita l'assemblaggio di balbettii reazionari con
pretesa di fungere da capisaldi in politica estera: un blend
sconfortante di culto dell'Uomo Forte e nostalgie da Guerra Fredda
(sotto forma di putinismo, trumpismo e statalismo retro) che arriva
all'apologia da conferenza di Bandung 1955, promossa dal Maresciallo
Tito, del principio di autodeterminazione dei governi nazionali (e
nell'accantonamento di qualsivoglia istanza cosmopolitica); mentre il
cacicco siriano Assad gasifica i bambini del suo stesso popolo. Un
insigne scemenzaio, da chiacchiera a ruota libera nel retrobottega del
farmacista di paese.
Pendant della genericità con cui Casaleggio jr. affronta il tema
“progresso”, confindustrialmente ridotto a ricerca & sviluppo
aziendale; nella totale ignoranza dell'attuale paradigma
tecno-economico, per cui l'innovazione è un vastissimo progetto
pubblico di interazione guidata tra comunità scientifiche locali e
sistema produttivo d'area. Il cui obiettivo è la specializzazione
competitiva. Non certo la chiacchiera incosciente
sull'automazione/robotizzazione “4.0” che desertifica l'occupazione; ma
che tanto piace ai banditori di luoghi comuni. Quelli che sproloquiano
di redditi da cittadinanza, che non riusciranno mai a imporsi se
perdurerà la sterilizzazione del lavoro come soggetto politico. E se
l'intervistatrice gli chiede delucidazioni, il giovanotto risponde che
bisognerebbe rivolgersi a qualche esperto: bel colpo!
Appunto, un quadro sconfortante. Ma che risultava vieppiù tale
percependo nell'aria la crescente cortigianeria di presunti esponenti
dell'intellighenzia nazionale: baroni universitari e giornalisti da
talk show destrorso, bulimici del palcoscenico assicurato dall'imbarco
sul carro di un possibile vincitore. I Gianluigi Nuzzi e i Domenico De
Masi visti all'opera ieri sera nel salotto de la Sette, perfetti cloni
degli Alessandro Baricco o dei Massimo Recalcati proni al bacio della
pantofola nelle Leopolde renziane. Se questi ultimi si prosternavano
nell'accreditamento da grande leader del ragazzotto di Rignano, il
Nuzzi non si tira indietro nel certificare il rango di filosofo del
perito industriale Gianroberto Casaleggio; di cui ancora si ricorda la
pittoresca performance sul potere di rete nel meeting di Cernobbio
2013, oltre il revival alla Asimov con il video-profezia “Gaia, the
future of politics”.
Il tutto a conferma che, in questa epoca di politica star-system e di
organizzazioni aziendali alla testa di movimenti politici, la figura
dell'intellettuale è andata estinta, sostituita da comunicatori e
trombettieri.
Non aveva torto la Gruber quando ieri sera, in un soprassalto di
pudore, ha esclamato: “Stiamo facendo uno spottone ai Cinquestelle”.
Proprio così, cara signora. Il segnale che il generone mediatico sta
riposizionandosi, in previsione di ciò che può accadere nel fatidico
2018. O forse anche prima.
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Alle primarie 2017 del PD hanno votato in 266.726: il 59% degli iscritti.
Nel congresso del 2013 i votanti furono 30 mila in più, ma il 4% in meno
Nel 2013 Renzi ebbe il 45,3% (pari a 122.892 voti). Mi pare quindi che
dare del cretino agli elettori del PD per non avere cambiato idea sia
la solita offesa gratuita che Travaglio distribuisce giornalmente in
dose massicce. Travaglio dovrebbe domandarsi se a fronte delle mille copie del suo
giornale vendute mediamente ogni giorno, quei 266 mila elettori PD siano davvero dei
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L'hanno rimasto solo
di Marco Travaglio |
Prima o poi doveva arrivare ed è arrivato: il momento di diventare
renziani. È stato precisamente due giorni fa, quando anche Monica
Cirinnà, folgorata sulla via di Orlando, ha scoperto all'improvviso che
Renzi “è stato un pessimo segretario, da lasciare alle spalle” visto
che ha rovinato il Pd (“un partito immobile e isolato”). E dire che il
4 dicembre scorso, appena cinque mesi fa, twittava giuliva: “Grazie
@matteorenzi, senza il tuo coraggio non avremmo governato x 1000 giorni
approvando leggi innovative come #unionicivili”.
Ora, Renzi ha tanti difetti, ma non il mimetismo: almeno da quando è
segretario è sempre lo stesso. Cosa può essere cambiato dal 4 dicembre?
Una sola cosa: il 5 dicembre ha perso il referendum e il governo. Per
la verità il referendum l'ha perso tutto il Pd, a parte i pochi che
votarono No e ora sono andati in Mdp. Ma gli altri preferiscono
sorvolare. Anzi trasvolare verso altri lidi. Scelta legittima: solo i
cretini non cambiano idea. Ma può capitare che cambino idea anche i
cretini, e per sposarne una altrettanto cretina: accade quando si
dimenticano di chiedere scusa per aver sbagliato l'idea precedente e
passano direttamente alla successiva con la stessa disinvolta sicumera.
Se poi la nuova idea è più conveniente della vecchia, il sospetto è che
siano pure opportunisti e voltagabbana. Mai visto uno che traslochi dal
carro del vincitore a quello del perdente: si attende il referto del
medico legale, poi si finge di non aver mai visto né votato né leccato
il caro estinto.
Tutti fascisti, tutti antifascisti; tutti democristiani, tutti
antidemocristiani; tutti craxiani, tutti anticraxiani; tutti
dipietristi, tutti antidipietristi; tutti berlusconiani, tutti
antiberlusconiani; tutti montiani, tutti antimontiani; tutti renziani,
tutti antirenziani.
Negli anni 70, quando nell'intellighenzia andava di moda la sinistra,
per chi non s'intruppava era difficile lavorare: Montanelli, il più
grande giornalista di tutti i tempi, fu sbattuto fuori dal Corriere e
dovette, a 68 anni, farsi un Giornale tutto suo. Subito messo all'indice, ghettizzato, snobbato, tacciato di essere fascista.
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che nel Bersani D’Alema Orlando od
Emiliano possono cambiare e quindi i conti debbono farsi con un Alfano
e Verdini.
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Poi,
con comodo, quando il comunismo finì sotto il muro di Berlino, fu tutto
un fiorire di anticomunisti fuori tempo massimo che intrepidamente ne
combattevano il cadavere. “Che strano – scherzava il vecchio Indro –
quando cercavo anticomunisti per il Giornale era un fuggifuggi. Ora che
il comunismo non c'è più, tutti contro. A me i nemici piace combatterli
da vivi. Da morti, mi vien voglia di abbracciarli”. La stessa che viene
a noi ora che “Renzi chi?” è rimasto solo e si accinge a vincere le
primarie di un partito che, nei sondaggi, è terzo su tre.
Iniziò il 6 dicembre Dario Franceschini, la cui fedeltà è sempre al di
sotto di ogni sospetto: “Non consentiremo a Matteo di portarci a
sbattere contro il muro”. Napolitano, che ha seppellito ben altri
cadaveri, lo liquidò sprezzante: “L'idea di Renzi di votare subito è
tecnicamente incomprensibile”. A Vincenzo De Luca, Matteo parve tutt'a
un botto “strafottente” e autore di “riforme demenziali”. Ed ecco
Andrea Orlando: mai un gemito, un vagito, un pigolio contro Renzi per
tre anni, poi il ruggito del coniglio: “Troppi errori, voglio
ricostruire il Pd” (e chissà dov'era mentre si facevano gli errori e si
polverizzava il Pd col suo voto).
Sergio Staino, incautamente promosso da Renzi a direttore dellUnità,
gli dà del “cafone”. Nel fuggifuggi generale non tutti notano il
consigliere economico Filippo Taddei che lascia il Nazareno in macerie
per i “troppi errori: non c'è stato il cambiamento radicale promesso”,
anzi “è passata l'idea di un Pd più empatico con i forti che con i
deboli” (l'avesse detto quando l'amico era lingua in bocca con
Marchionne, Boccia, Briatore & C. sarebbe stato meglio).
Repubblica, turborenziana fino al 4 dicembre pomeriggio, inverte la
rotta con agile piroetta in serata con Ezio Mauro (Renzi è un
“populista”), Stefano Folli (“Matteo esca dalla nebbia” di un “sistema
di potere famelico, spregiudicato e del tutto privo di etica pubblica”)
e Francesco Merlo (“bullo bellimbusto”, “pacchiano”, “potente spavaldo
gonfio di boria”, “scarafaggio”). Galli della Loggia, sul Corriere, ora
che ha perso lo trova “insopportabilmente antipatico”.
I prodian-renziani passano armi e bagagli con Orlando. E Sala, il
candidato sindaco più a destra di Milano travestito da Renzi e Pisapia
nell'alfiere della sinistra? Disperso. Dice: “Alle primarie non mi
schiero”. Ah però. Poi firma su Repubblica un appello che sa tanto di
fuga con un altro renziano intiepidito, Chiamparino: “Caro Matteo,
cambia mare se vuoi restare capitano” (qualunque cosa voglia dire).
Restava giusto il Foglio, con Stanlio e Ollio al secolo Cerasa e
Ferrara a contendersi le grazie di Matteo. Ma stanno cedendo anche
loro. Cerasa scopre che Renzi “rincorre grillini e salviniani sul
ridicolo terreno dell'antieuropeismo”, dunque non deve più governare,
perché ora si porta molto Gentiloni: il prossimo governo “in nome della
mediazione che rottama la rottamazione non potrà che essere affidato a
leader affidabili ma con poco consenso”, mentre il prossimo leader Pd
dovrà “fare ciò che non ha avuto la forza di fare fino in fondo negli
ultimi 4 anni: il segretario di un partito destinato a condizionare il
governo più con le idee che col carisma”. Ferrara resiste un po' alla
tentazione di buttarsi sul nuovo premier come su tutti gli altri, da
Craxi ad Andreotti, da B. a D'Alema, da Amato a B., da B. a Monti, da
Letta a Renzi: “Elezioni subito, non si sospende la democrazia”. Poi
inizia a tentennare e ora si capisce benissimo che ama Gentiloni.
Perciò, finalmente soli, siamo tentati di passare con Renzi. È vero che
gli sono rimasti Scalfarie mezzo Ferrara. Ma queste, com'è noto, sono
due aggravanti.
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