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NUMERO 350



































Un luogo comune assai diffuso vuole che il centro storico di Bergamo sia un'isola felice: un complesso di pregevoli manufatti di varia antichità, armoniosamente fusi tra loro dal gusto di chi li andava accostando - quando costruiva - alle preesistenze, miracolosamente preservalo dal dilagare della speculazione che altrove, negli ultimi decenni, ha sfigurato o addirittura distrutto le città antiche.
C'è chi avalla questa favola quotidianamente, producendo e diffondendo immagini rassicuranti; io, con questa raccolta di fotografie, mi adopero per dimostrare l'evidenza del contrario.
La Bergamo antica - questo mosaico di pezzi di città ancora pregevoli, costruiti in un ambiente naturale tanto bello da apparire “indescrivibile” a Stendhal - presenta ancora a chi ci arriva da lontano profili suggestivi e a chi ci entra scorci di autentica bellezza; ma basta che l'osservatore si discosti di poche decine di metri dal belvedere al quale viene abitualmente guidato (dove - e dove soltanto - troverà i fotografi “del regime”) e poi si inoltri nei quartieri osservandoli con qualche attenzione, perché avverta che l'ammassarsi dei nuovi insediamenti, sempre più soffocanti, nella pianura va cancellando la vista dal piano della vecchia città costruita sul colle e insieme va rendendo ossessiva la vista della pianura dalla vecchia città; che i borghi storici cascano in gran parte a pezzi per l'incuria e nell'inerzia generali; che quando un'occasione speculativa o un'iniziativa pubblica incoraggia il riscatto di un brandello questo viene quasi sempre rifatto sfigurandolo, trasformandolo in un pezzo di Disneyland (du cote de cher nuos, Grazzano Visconti).
Bergamo è in una zona “di confine”, di quelle che la speculazione e l'incultura hanno compromesso senza peraltro ancora sfigurarle del tutto. Nell'Italia economicamente “avanzata” questa è la migliore condizione riscontrabile; caratterizza anche Bergamo temo, ancora per poco, tanta è l'indifferenza in cui cade il disfarsi degli elementi di continuità con il passato e tanto è l'accanimento con cui questi vengono brutalmente sostituiti da volgarità "moderne”, a cura di operatori in oggettiva connivenza con le autorità preposte alla salvaguardia dei valori ambientali. Del resto, perché mai le cose dovrebbero andare diversamente? Lo speculatore e i suoi tecnici non godono tanto di intelligenza - che tenderebbe a tradursi in cultura - quanto di furberia: questa li avverte che la città



ma invece lo fossilizzi in una forma che esso non ha mai avuto, arbitrariamente ricavata da elementi che ne hanno fatto parte funo dopo l'altro, in epoche diverse, con valenze del tutto diverse.
Un cenno soltanto, per finire, a un'altra manifestazione dell'idiosincrasia per la storia che ha lasciato il suo segno sulla città in questi ultimi anni, compromettendo anche alcuni dei suoi monumenti principali. A questi la raccolta di immagini che segue dedica uno spazio esiguo, per scelta mia: mi preme qui sottolineare quanto sia distruttivo il guasto non tanto degli edifici insigni (che mi sembra cosa ovvia), quanto delle costruzioni, anche modeste, che formano il tessuto connettivo della città. Ma non posso concludere senza accennare all'alterazione che si è fatta della pietra friabile - l'arenaria - con la quale sono stati costruiti, per la maggior parte, gli edifici monumentali di Bergamo.
Poiché l'arenaria si sgretola, si è intervenutiimbibendola di resine che ne stravolgono l'aspetto, lustrandola: sono nati così il romanico glacé e il rinascimento ricoperto di cioccolato (eventuali affioramenti di colore bianco non significano alterazione del prodotto); si è creato un “effetto cartapesta”, da scena d’opera in costume. Tutto questo riguarda Santa Maria Maggiore


Carlo Leidi: "in questa e nelle pagine seguenti offro alcune esemplificazioni di quelli che nell'introduzione ho chiamato "restauro esantematico" e "restauro anatomico”. (Si riferisce alla foto in basso a sinistra) Debbo certamente molte scuse ai loro autori, nel caso che i lettori fossero in grado di identificarli, perchè anche qui ho "pescato nel mazzo”, riproducendo soltanto pochi degli innumerevoli esempi possibili; così ho certamente - sebbene involontariamente - infierito su qualcuno soltanto dei molli responsabili delle alterazioni che caratterizzano ormai gran parte della città, ridotta all'alternativa tra la rovina e la falsificazione".
La foto su Astino (ne esistono diverse quasi identiche) sono immeditamente successive all'ampliamento della strada (infatti i muri sono non coperti di erbe) mentre si vede come la campagna sia stata già del tutto spogliata e sia stata avviata la monocoltura maidicola in tutta la piana. E' ormai un'immagine dell'Astino "moderna".




Conobbi Carlo Leidi  nel 1965, diciotto anni io e il doppio lui. Neodiplomato io e lui già notaio (e fotografo) affermato. Lo conobbi  nel laboratorio di Gianni Limonta in via Statuto a Bergamo, entrambi acquirenti della pellicola ILFORD 400 ASA. Limonta mi presentò a Leidi affermando che sviluppavo e stampavo le mie foto.





















































































Buone e benfatte, aggiunse.
Di Carlo Leidi fotografo invidiavo il corredo fotografico: aveva già sdoganato il formato 24x36mm, le reflex giapponesi ed era fissato sul bianconero ripreso con una pellicola ILFORD da 400 ASA. Leidi fotografava con pellicole sviluppate tirando gli ASA  a 800, 1220 e 1600- in modo che sgranassero oltre il sensato e con un forte contrasto, stampando poi su carte morbide. Insensato a mio avviso.
Da Carlo Leidi mi dividevano ben diciassette anni, per cui lui era già «uno grande», «uno abbastanza vecchio» mentre noi eravamo ancora ragazzi.
Ragazzi e sessantottini.
Leidi era (anche) ricco e poteva permettersi di viaggiare oltre che di aiutare IL MANIFESTO di cui era stato co-fondatore.

















































































































































































































































































































































































































































































































































































Noi eravamo poveri e al massimo i nostri viaggi (estivi) puntavano alle Alpi.
Del resto noi si veniva da li.
La mia prima macchina fotografica «seria» fu una Yashica MAT 124G che scattava negativi 60x60mm. La dimensione del negativo era una scelta ideologica controcorrente del momento. Dopo due anni stufo di portarmi appresso questa affettatrice andai deciso verso una leggerissima Olympus OM1 con una dotazione di ottiche oltre il normale 50mm: un 21 mm, un 135 mm e un 500mm a specchio si sottomarca.
Non solo.
Mentre Carlo Leidi si serviva del laboratorio di Gianni Limonta per lo sviluppo e stampa, io appartenevo ai quei sessantottini che sviluppavano da soli la pellicola e stampavano da soli le proprie foto. Non c’era manifestazione di piazza dove non fossimo presenti a documentare.
Carlo fondava il Manifesto, noi c'eravamo politicamente vicini, ma «eravamo più libertari» -perlomeno ci credevamo tali…- «anche» sviluppando e stampando da soli le nostre foto.
Carlo Leidi fotografo già allora era circondato da una solida «aura artistica” che noi regolarmente snobbavamo. Al massimo facevamo qualche pensiero alla Castellina.
Quando lo conobbi presso lo studio di Gianni Limonta non esitai a dirgli che le sue immagini «mi dicevano poco». Tecnicamente benfatte ma prive di una storia. Alla fine la “storia” è tutto il suo catalogo con qualche “capitolo” un po’ più particolare: la storia di Bergamo nel suo morire.
Il fatto è che noi eravamo la generazione del '68 e Carlo apparteneva- usciva ancora al realismo degli anni '50. Le sue immagini stupivano per la novità in una popolazione che allora viaggiava pochissimo mentre per noi la macchina fotografica era una penna. Stava nel nostro zaino.  Un libretto di appunti. Una olivetti lettera  ventidue in bianco e nero.















































































































































































è una scuola, che il vero e il bello sono contagiosi, per cui - non volendo lasciare spazio ai nemici del profitto - bisogna ignorare l'uno e l'altro; e poiché si danno cose vere brutte ma non si danno cose belle non vere, bisogna procurare che venga ignorato il gusto della storia il quale - quando osservi una città - si traduce nel bisogno della sua autenticità.
Certo, l'antico “tira”, vedi i bronzi di Riace; e allora, per non rinunciare a quanto l'antico può rendere in moneta, ecco “Bergamoland” la “Grazzano Colleoni”: i quartieri vecchi crollano e vengono abbandonati e poi rifatti malamente, singolo pezzo per singolo pezzo, per essere venduti a clienti dotati del gusto corrente, attratti dal piacere di un seminuovo che sembri antico e che li gratifichi senza impegnarli, così come non impegna i loro professionisti di fiducia che sono troppo spesso della stessa pasta, tanto da produrre per il proprio uso opere della stessa qualità.
Debbo certamente scusarmi con gli autori - e anche con i committenti - degli interventi pregevoli, rarissimi e perciò particolarmente apprezzabili; qui - nell'intento di suonare un allarme che ritengo drammaticamente urgente - non trovo spazio altro che per denunciare, per di più attraverso pochi esempi e così perdonando troppo a troppi, le operazioni che costituiscono la regola, il restauro “esantematico" e il restauro "anatomico” e le infinite contaminazioni dei due generi; dove lo spuntare, qua e là, da un intonaco (per lo più di palmare “modernità”) di vecchie pietre o di vecchi archi e stipiti e spalle di finestre e di porte vorrebbe nobilitare il fabbricato testimoniando della sua antichità e riesce soltanto a togliergli ogni qualità, facendone un oggetto posticcio, senza datazione e perciò senza identità. Per quanto si discetti della difficoltà di individuare il criterio ottimale per il restauro di un edifìcio che - come quasi tutti quelli che caratterizzano la città, determinandone il “sapore” - ha una storia complessa, tradotta in trasformazioni molteplici, nessuno riuscirà a convincermi che può risultare accettabile un restauro "astorico" che non riconduca l'edificio a un momento attendibile di unità, composita perché risultante dalla somma di successive sovrapposizioni,



e il Palazzo della Ragione, monumenti senza i quali Bergamo non sarebbe Bergamo.
Vuol dire, questo, che l'antico è sentito come estraneo tanto da fare accettare, senza alcuno sforzo, che esso appaia come una finzione?
0 piuttosto la distanza dalla realtà della pur evidente finzione non è neppure avvertita, tanto la storia antica appare come una favola di scontata inattendibilità? Lascio ad eventuali ermeneuti volonterosi la risposta, per concludere con un paradosso. Tra le realtà con le quali la vita ci costringe a misurarci c’é
 - e ha un'importanza enorme - la morte: la morte nostra, quella dei nostri cari, dei vicini, delle persone che amiamo: se - pur con dolore intenso c fatica - faccettiamo, perché non accetteremmo quella, meno traumatica, delle cose anche pregevoli che ci circondano? Ammettiamo che non esistano mezzi tecnici adeguati a conservare un monumento se non trasformandolo nella propria immagine cartapestificata. che l'alternativa alla sua falsificazione sia - inesorabilmente - quella di lasciarlo perire.
Dovremmo allora scegliere tra la logica americana del "caro estinto (la vecchia zia morta, imbalsamata imbellettata e vestita della festa, ricollocata in salotto sulla sua poltrona di sempre con qualche







































































































































































































































































































































































































































































artificio invisibile per tenerla su.
Dovremmo allora scegliere tra la logica americana del "caro estinto (la vecchia zia morta, imbalsamata imbellettata e vestita della festa, ricollocata in salotto sulla sua poltrona di sempre con qualche artificio invisibile per tenerla su. consentito ma non consigliato chiederle - entrando in visita - "come sta?" e l'accorata o straziante ma civile accettazione della realtà della morte. Ma in materia di antichità intesa come richiamo commerciale, la morte - indubbiamente - non rende: e allora la si esorcizza, imbalsamando e imbellettando la zia.
Alla luce di questa filosofia tutto torna, si capisce perché i vecchi
quartieri si sfaldano, perché e come le ristrutturazioni li sfigurano e, insieme ai monumenti falsificati, vengono a fingere di garantire in eterno nobile vita a una città che invece - ridotta a caricatura - muore senza dignità.
Ho parlato di paradosso. Ma è davvero un paradosso?

Carlo Leidi

Bergamo, marzo 1985






Noi abbiamo portato la Olympus Om1 nella settima ripetizione della Bonatti-Vaucher alla Wymper delle Grand Jorasses il 6-7 settembre 1968 (la prima era dell'agosto 1964) quando Carlo Leidi era in Cecoslovacchia per la primavera (!) di Praga.
Abbiamo rischiato di più noi.
Se Carlo Leidi fosse  nato in alta valle nessuno l'avrebbe preso in considerazione. Non fosse stato democristiano comunista eretico del PCI pure. Rispetto ad un altro fotografo bergamasco quasi contemporaneo come Pepi Merisio oppure un regista Ermanno Olmi, Leidi balbettava.
Rivedendo le sue foto adesso viene il magone per la povertà, la semplicità, la banalità del linguaggio. Oltre la novità di certi reportage –novità allora per noi stanziali senza soldi e senza viaggi- non ci troviamo granche oltre una discreta tecnica che moltissimi di noi più giovani abbiamo ben presto appreso meglio di lui ed anche del suo sviluppatore e stampatore.
La lezione che Carlo Leidi mi ha insegnato è stata che non basta essere influenti e non basta la buona tecnica. Occorre conoscere il prima il durante e il dopo quello che stai fotografando: da li costruisci una storia. Non una collezione di cartoline bianco nero. Utili adesso a capire perché Bergamo é così brutta.