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NUMERO 332






























































Cari lettori,
Da giorni sono inondato di messaggi contro le palme di piazza Duomo, quasi tutti negativi. È passata in secondo piano quella che a me pare la vera questione: lo sbarco di Starbucks, che delle palme è sponsor.
In linea di massima sono favorevole alle nuove iniziative, a maggior ragione se creano posti di lavoro. Ma l’apertura in Italia di Starbucks come italiano la considero un’umiliazione. Perché Starbucks è il più clamoroso esempio al mondo di Italian Sounding: di prodotti che suonano italiani, ma non lo sono.
In tutto il pianeta, a cominciare dalla casa madre americana, il menu è scritto in italiano, dall’espresso al cappuccino. Ma non è caffè italiano, non è lavoro italiano. Sui pacchi in vendita c’è scritto «Caffè Verona», e in piccolo si precisa: «Made in Seattle». I veri produttori italiani, da Illy a Lavazza, hanno tentato di rispondere aprendo le loro catene; hanno ottenuto qualche successo, ma non hanno le dimensioni per competere.
Frank Lesì ha ragione: deciderà il mercato; che non si ferma certo con il proibizionismo. È vero, i fast food in Italia esistono ma non hanno messo fuori mercato i locali tradizionali; a Roma ad esempio il vero fast food è la pizza al taglio. Sono convinto che, pur essendo il popolo più esterofilo, gli italiani continueranno a preferire il tradizionale espresso in tazzina rispetto a quello nei bicchierini di plastica. Starbucks rappresenta una filosofia, oltre che una sorta di ufficio per chi un ufficio proprio non ce l’ha; forse anche i nostri bar diventeranno più ospitali. Sono però curioso di vedere quanti dei 350 posti di lavoro annunciati a Milano andranno a giovani italiani, e quanti a giovani immigrati.



Da Salvini mi divide tutto, tranne «la personale cortesia» direbbe qualcuno (le assicuro che Salvini, quando smette la maschera che indossa per an­dare in tv, è una persona corte­se). Ma chi è il vero salviniano? Chi chiede un'immigrazione governata, con ingressi regola­mentati in base alle esigenze del mercato del lavoro, con di­ritti e doveri per i nuovi italia­ni, compresi i ricongiungi­menti familiari e la cittadinan­za legata al compimento della scuola dell'obbligo, senza at­tendere la maggiore età? o le anime belle rimaste ferme alla concezione irenica dell'immi­grazione, ignare che quello che per i privilegiati è un affare per i poveri può diventare un problema?



Da uno scambio di lettere tra Aldo Cazzullo del Corriere della Sera  e i suoi lettori in merito alle palme che lo sponsor ha piantato in Piazza Duomo a Milano é uscita una discussione molto ampia che coinvolge il tema dell'immigrazione,cui ha risposto anche Emma Bonino (prima del suo intervento al Lingotto 17).
Da qui parte una nostra riflessione come  negli anni della lira, gran parte del "sistema Paese" rispondesse con la svalutazione monetaria alla concorrenza straniera. Invece dall'introduzione dell'euro, non essendo possibile una forte svalutazione per lunghi periodi, una parte consistente del "sistema Paese" ha adottato la riduzione del costo del lavoro come  unico mezzo per battere la concorrenza. Tra questi anche  il jobs act e i vouchers.





Francesco Daveri su LaVoce info. scrive che « nei 23 casi di svalutazione dal 2000 in poi l’inflazione ha ridotto entro due anni i guadagni di competitività indotti dal deprezzamento della valuta. La relazione tra svalutazione e inflazione non è fissa, ma dipende dalla capacità di un paese di tenere l’inflazione sotto controllo». Tenete però presente la data: successiva all’introduzione dell’euro.
Invece finché ci fu la moneta nazionale  -la lira- la svalutazione della stessa era -anzi: fu- lo strumento principale per la competitività dell’Italia rispetto alle ale nazioni più sviluppate.

Prosegue Daveri :»chi vede nell’euro una camicia di forza che impedisce alle economie più deboli dell’eurozona di competere sui mercati internazionali crede che una svalutazione del cambio (diciamo, di una neo-lira) si










































































































































































































































































tradurrebbe in un limitato aumento dei prezzi del paese, in tal modo generando il guadagno di competitività che invece, all’interno dell’attuale unione monetaria, potrebbe arrivare solo da una-






















































































































LA LETTERA DI EMMA BONINO  EMMA BONINO
Caro Cazzullo, ho letto con attenzione la sua risposta al signor Riccardo Alemanni di qualche giorno fa. Da tutti i dati resi pubblici in questi ultimi mesi da serissimi centri di ricerca, risulta che esistono due mercati del lavoro sostanzialmente distinti e che solo pochi italiani sono disponibili a svolgere lavori manuali e faticosi: se non ci fossero gli immigrati questi posti non sarebbero coperti e a risentirne pesantemente sarebbero l'economia italiana e le nostre famiglie. Per quanto riguarda la necessità di «un'immigrazione governata, con ingressi regolamentati in base alle esigenze del mercato del lavoro»







 – prolungata e socialmente costosa – deflazione di prezzi e salari interni. Ma c’è anche chi (lo hanno fatto ad esempio Baglioni, Lippi e Schivardi su questo sito)  argomenta che la maggiore competitività e crescita del Pil derivanti dalla svalutazione successiva ad un ipotetico euro-exit sarebbero temporanee e che quindi in definitiva il gioco (prezzi più alti per sempre, in cambio di un beneficio temporaneo di più rapida crescita) non vale la candela. Un esame attento dei dati aiuta a chiarire le ragioni della controversia. La recente esperienza dei paesi G20 e l’esperienza storica degli anni Trenta e dell’Italia suggeriscono che la relazione tra svalutazione e inflazione non è fissa ma dipende dalle istituzioni anti-inflazione di cui il paese che svaluta riesce a dotarsi».

L’abolizione dell’art.18, alcune parti del jobs act e i vouchers sono sostanzialmente il ricorso  a svalutare (ridurre) un componente fondamentale del costo dei prodotti e servizi così che si restituisce competitività al «sistema paese» nel lungo periodo senza per questo creare inflazione. Quindi senza la necessità di misure per contenerla.





























































































































































































































































































































































































LA LETTERA DI UN LETTORE AD ALDO CAZZULLO
Caro Aldo, le scrivo, per la prima volta, per esprimere un'opinione contraria alla sua. La scivolata «salviniana» della conclusione del suo intervento critico verso Starbucks, dove si chiede quanti dei 350 posti di lavoro annunciati andranno a giovani italiani e quanti a giovani immigrati, non è da lei.
Riccardo Alemanni

LA RISPOSTA DI CAZZULLO
Caro Riccardo,
A me pare che molti non abbiano compre­so un punto fondamentale: il prezzo del­l'immigrazione Io stanno pa­gando le classi popolari. A Bre­ra, ai Parioli, alla Crocetta, il problema dell'immigrazione è se la filippina o l'ecuadoriana  è ammalata e non può venire a fare le pulizie.
A Quarto Oggiaro, a Tor Bella Monaca, alle Vallette il proble­ma dell'immigrazione è la casa popolare, il posto all'asilo ni­do, il letto in ospedale, la coda al pronto soccorso, e ormai an­che il lavoro. Perché è evidente che l'arrivo incontrollato di centinaia di migliaia di giovani disposti a lavorare molto per poco salario e magari in nero (certo non nel caso di Star­bucks) rappresenta un caso di dumping sociale. Fa la fortuna di imprenditori senza scrupoli, ma manda fuori mercato inte­re categorie di lavoratori italia­ni: ieri le badanti o le colf; oggi molti lavoratori manuali; do­mani gli altri.
Il mantra che ci viene ripetu­to è: l'immigrazione è una ri­sorsa. E non c'è dubbio che molti immigrati siano ottimi operai, contribuenti fedeli, e anche imprenditori coraggio­si. Ma nessun Paese al mondo può reggere un flusso intenso come quello che riceve oggi l'Italia, senza che si producano
reazioni di intolleranza e razzi­smo. Che vanno condannate: sempre e comunque. Nulla le può giustificare. Eppure biso­gna cercare di capire. Questo lo scrivo da sempre, non da ora.



non si può non sottolineare come oggi non vi sia uno straccio di normativa che consenta l'ingresso legale dei lavoratori stranieri. Nonostante ciò, il mercato italiano si è adeguato autonomamente al ciclo recessivo, con una flessione severa degli ingressi degli immigrati (da 515 mila del 2007 a 250 mila del 2015). Altra questione è il flusso delle persone che richiedono asilo, il cui arrivo non possiamo regolamentare perché in fuga dalle guerre e in parte dai mercanti della morte: potremmo almeno, in attesa di impossibili e irrealizzabili espulsioni o, peggio, dei respingimenti in mare che propone Salvini, integrarli in maniera diffusa sul territorio, coinvolgendole comunità e le realtà sul territorio, coinvolgendole comunità e le realtà produttive, e integrarli attraverso la formazione e il lavoro, come suggerisce una proposta di legge promossa da organizzazioni del sociale, da tanti sindaci italiani e da radicali italiani.
Emma Bonino

LA RISPOSTA DI CAZZULLO
Cara Bonino, la ringrazio per le sue interessanti osservazio­ni. Mi limito a qualche breve nota. Credo che il mercato del lavoro sia uno solo; e l'arrivo in­controllato di immigrati dispo­sti a lavorare molto in cambio di poco modifica oggettiva­mente le condizioni e i rapporti di forca, certo non in modo fa­vorevole ai lavoratori. Non tutti i richiedenti asilo fuggono dal­le guerre; e i mercanti di morte prosperano proprio grazie a un traffico di esseri umani che se­condo me andrebbe fermato, ovviamente senza interrompe­re soccorsi che rappresentano un dovere giuridico e morale.








Cliccando sull'immagine di Emma Bonino (aprendo un'altra  pagina) si può ascoltare il suo intervento al Lingotto 17.



Ovviamente la reazione del sistema produttivo a queste misure sul costo del lavoro non sono uniche e identiche ma dipendono da fattori del tutto diversi -come peso- da impresa a impresa.
Ovviamente ci sono imprese che riescono a massimizzare il risultato della combinazione dei fattori mentre altre approfittano della semplice possibilità di licenziare più facilmente in maniera meno costosa oppure di fare ricorso alla prestazione insita nei vouchers. Anche qui ci sono imprese che onestamente adottano un voucher ogni ora lavorata come ci sono imprese per le quali un voucher copre formalmente un’ora a fronte di più ore lavorate  oppure una sostanziosa parte in nero.
Ridurre quindi la paga oraria del lavoratore implica una minore richiesta di beni e quindi contribuisce a rallentare anche l’inflazione e se un paese sta all’interno di una moneta unica, questo fenomeno tende ad applicarsi ed equilibrarsi in tutti gli stati aderenti.
L’afflusso di una popolazione straniera bisognosa di sostentamento e costretta alla clandestinità favorisce la somministrazione di pochi vouchers per molte ore e con una parte in nero. L’affermazione della Bonino :»da tutti i dati resi pubblici in questi ultimi mesi da serissimi centri di ricerca, risulta che esistono due mercati del lavoro sostanzialmente distinti e che solo pochi italiani sono disponibili a svolgere lavori manuali e faticosi: se non ci fossero gli immigrati questi posti non sarebbero coperti e a risentirne pesantemente sarebbero l'economia italiana e le nostre famiglie» può essere presa per veritiera ma non tiene conto del fatto che è stata una precisa scelta delle imprese di ridurre il costo-ora a livelli infimi ragione per cui un certo tipo di lavoro è risultato accettabile solo dai disperati.
Non basta studiare il mercato del lavoro a fatti compiuti ma soprattutto comprendere come  quelle situazioni si costruiscono e alla fine maturano quelle condizioni per cui gli italiani non vogliono raccogliere 10 quintali pomodori pro die per dodici ore e trenta euro al giorno.  Di cui 10 pagati con un vouchers e il resto nebbia.
Si può quindi asserire brutalmente che i vouchers sono la risposta del sistema paese  in sostituzione della svalutazione della moneta a fini di competitività internazionale all’interno della moneta unica Ue.
L’impiego in questo modo fuorilegge dei vouchers e del jobs act si intreccia con le molte ragioni per cui da noi immigrano persone per i motivi più diversi. Dal giusto desiderio di una vita economicamente migliore alla fuga dalla guerra. Dalla necessità di cure mediche o di farsi una cultura alla fuga dalla morte per motivi razziali o di genere.
Mettersi stilare una graduatoria per cui chi fugge dalla guerra merita maggiore accoglienza di chi fugge per motivi economici mi pare una palese ingiustizia. Anche perché quasi sempre i due motivi sono intrecciati.
Adesso siamo di fronte al referendum per l’abolizione del tutto dei vouchers. A fronte di 134 milioni di vouchers venduti nel 2016 ci si pone da un lato con una fortissima perplessità e dall’altro con la certezza che il sistema paese non ha la volontà e nemmeno la capacità di usarli in maniera corretta. Quindi bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca. 134 milioni di voucher possono essere 134 milioni di ore lavorate, ma anche il doppio, il quadruplo, l’ottuplo : che non si riuscirà mai a quantificare davvero e quindi non si può prevedere se quell’1% di crescita guadagnato dall’Italia tornerà sotto zero e di quanti decimali o meno.