schermata di 1500 pixels 







NUMERO 323




















































La chiesa si schiera contro la sentenza di Trento nei giorni in cui perde la rappresentante laica nella commissione contro gli abusi.
La morte quasi "in streaming" di fabio Antoniani e il diritto/dovere alla riservatezza.
I bambini oggi nascono in tanti modi: importante che vengano amati educati allevati bene. Meglio oggi che quando in Bergamasca negli anni '50 c'erano duemila "cottolengo". Quando Papa Giovanni ne volle uno anche a Bonate Sopra.





















































«Qualunque desiderio, pur legittimo, che ognuno può avere, non deve mai diven tare necessariamente un diritto». Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della
Cei, interviene sulla sentenza della Corte d'Appello di Trento che ha riconosciuto una coppia di uomini come padri di due gemelli nati in Canada con la maturità surrogata.
«Il bene dei bambini, secondo il buon senso universale, richiede il papà e la mamma, quindi una famiglia nella quale il papà e la mamma si integrano con armonia ed efficacia per il bene e per l'amore dei propri bambini», ha detto al Tg1 il presidente dei vescovi.
Anche l 'Osservatore Romano , quotidiano della Santa Sede, titola nell'edizione di oggi: «A Trento una sentenza discutibile». E nell'articolo riporta le parole della storica Lucetta Scaraffia al Corriere : «I figli nascono da un uomo e da una donna. Questi due gemelli della sentenza, invece, adesso risultano figli di due donne, per via della maternità», e i bambini nati in questo modo «pagano un prezzo altissimo: non conosceranno mai la loro madre».
Sulla questione della cosiddetta stepchild adoption , del resto, la posizione della Chiesa è netta. Tra intransigenti e dialoganti cambiano i toni, lo stile, ma non la sostanza. Nella messa del Mercoledì delle Ceneri, parlando in generale, papa Francesco ha detto ieri che «la Quaresima è tempo di dire no» a «quelle spiritualità che riducono la fede a cultura di ghetto ed esclusione». Al Sinodo sulla famiglia si è parlato anche di accoglienza degli omosessuali e dei figli. Ma lo stesso Papa, rivolgendosi alla Rota Romana, avvertiva l'anno scorso che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». In San Pietro, aprendo il convegno ecclesiale della sua diocesi, aveva spiegato che è proprio la «reciprocità e complementarietà nella differenza» tra uomo e donna, padre e madre, a «far crescere» e «maturare» i figli. Più volte il Papa ha parlato delle «colonizzazioni ideologiche» che negano «la prima e più fondamentale differenza, costitutiva dell'essere umano» e così «avvelenano l'anima» e «distruggono una società, un Paese, una famiglia».
Nel pieno del dibattito parlamentare sulla Cirinnà, un cardinale dialogante come Gualtiero Bassetti aveva spiegato al Corriere





Tre temi messi sulla stessa pagina perché mi pare abbiano attinenza. Primo é quella della morte di Fabio Antoniani  (DyFabo) seguita quasi in "streaming" dai media. Secondo l'ordinanza della Corte d'Appello di Trento, che riconosce la validità del certificato di nascita di uno Stato estero ne afferma la doppia paternità, applicando per la prima volta i principi già enunciati dalla Cassazione. E negando l'esclusività del rapporto genetico/biologico per la costituzione dello status giuridico di genitore e figlio. Terzo la (cattiva) abitudine
della pubblicazione delle foto dei figli da parte dei genitori su facebook.



Il problema del «far conoscere» agli altri, cioè agli estranei della propria cerchia famigliare, di quale malattia sia-fosse affetto uno dei suoi componenti viene da lontano, quando una persona «malaticcia» correva il rischio della emarginazione perchè la persona era in primis una fonte di reddito e quindi deboli e malaticci non erano  adatti allo scopo.
Questo costume si è allargato anche sulla morte, prossima o concreta: raccontare di cosa fosse morto un proprio famigliare poteva significare svalutare la famiglia intera. Invece oggi ci sono famiglie che «esibiscono» la malattie dei propri componenti come fossero terzini in una partita di calcio da cui il parente dovrà uscirne ovviamente vittorioso.
Resto convinto come Sergio Noto che il dolore per la malattia e la morte di una persona debba essere qualcosa di strettamente privato e personale.
Da non esibire e non esibibile.
Prima di tutto perché la stessa malattia non è identica per tutti. Secondo perché quando  l'esito è sicuramente la morte, questa persona va accompagnata dagli affetti più intimi e cari. E se deve essere morte, che questa venga il più celermente possibile perché un cancro non uccide solo il malato ma distrugge anche la famiglia. I tempi  lunghi cui siamo costretti molto spesso per morire vanno visti anche dalla parte di chi c'è e resterà.




Sarà anche colpa di Facebook, sarà che viviamo l'epoca della comunicazione totale online, ma resto della convinzione che ci siano dei fatti, dei sentimenti della vita di ognuno di noi (povero o ricco, famoso o sconosciuto) per i quali il loro ambiente naturale – vorrei dire esclusivo – resta la sfera privata.
Che i giornali, i social media, le televisioni, il tutto diventi il luogo del tutto, non mi pare un vantaggio.
Sarà un caso ma le orchidee crescono meglio all'umido e i fichi d'india prosperano sui terreni aridi; così mentre le partite di calcio o gli atti parlamentari è bene che siano sviscerati in pubblico, forse varrebbe la pena considerare che alcune questioni personali e intime andrebbero limitate il più possibile alla sfera dell'individuo, senza eccessivo chiasso. Il confine tra informazione ed esibizionismo non andrebbe mai superato e trasformarci tutti in guardoni forse non è un grande progresso alla convivenza civile.
Chi autorità abbiamo noi per poterci porre di fronte alla morte, dinanzi al dramma di una persona?
Purtroppo nella   vicenda delsuicidio assistito e della morte dolorosa didj Fabo prima di tutto c'è una sgradevole questione di forma, preliminare, non secondaria. Divenuto di dominio pubblico un fatto così tragico e privatissimo come il desiderio di farla finita con la propria vita, automaticamente si è esposto al giudizio (morale e soggettivo, ma soprattutto inappropriato) di tutti gli altri. Su certi fatti ci sarebbe solo da tacere – da pregare chi ci crede – oppure da adoperarsi per cambiare le cose in meglio. In ogni caso il silenzio resterebbe la condizione ideale non dico per comprendere ma almeno per rispettare momenti, come quello della morte,








































































































































































































































































































Oggi la gggente vive troppo e fini sce i suoi anni in gran parte assai male. Mi pare che siamo tenuti in vita più come con sumatori di medi cinali cure esami ricoveri che come perso ne. Non siamo ancora ma turi per accettare la mor te come fenomeno naturale di liberazione. Nascere e morire sono sempre due fatti casuali.



















































































































































































la cui profondità non è stata ancora capita dopo migliaia di anni di riflessioni. Senza renderci conto che il fiume di chiacchiere e la pubblicità a eventi così strettamente personali finisce per legittimare qualsiasi cosa, la polemica, l'insulto, lo scontro, le risse, che non sono un gran bello spettacolo davanti a certe tragedie. In attesa quindi che il silenzio torni ad essere l'ambiente naturale di certi fatti, proviamo a non lasciarci travolgere dal mare del chiacchiericcio e a precisare alcuni punti.
1. Nulla, non certamente lo Stato, non le sensibilità individuali, non i social o i mass media possono comprendere ed esprimere il dolore di una tragedia del genere. La rappresentazione della sofferenza sarà anche esteticamente bella per chi la osservi, sarà didascalica, ma è sempre una raffigurazione pallida, travisata e spesso irritante del dolore di chi lo prova. Il dolore è ineffabile, non si comunica se non a prezzo di travisarlo, il dolore è come Dio, non può essere illustrato, se non per simboli.
2. Pensare che lo Stato possa fungere da soggetto regolatore e si debba intrufolare con codici e giudici anche in questi fatti non credo sia una decisione intelligente, sicuramente non è condivisa da tutti. Il mio dolore è il mio dolore, non l'argomento di discussione di un'intera nazione, guai a chi lo tocca! Lo Stato – senza caricarlo di compiti etici, ma badando bene a non svuotarlo di ogni sua funzione positiva – non si impiccerà di disciplinare queste cose. Certamente se vorrà meglio precisare un quadro legislativo, che oggi è fermo alla fase del «non sento non vedo e non parlo, ma se mi sveglio ti faccio del danno», sarà il benvenuto. È necessario trovare un punto di equilibrio tra il rispetto della volontà individuale e il perseguimento dei valori collettivi. Il desiderio di darsi la morte, in alcuni casi comprensibile, resta in ogni caso una scelta individuale, che non potrà mai essere elevata a principio generale.
Di sicuro non vogliamo ipocrite cliniche svizzere, ignobili strumenti per far soldi da qualsiasi aspirazione umana, non certo esempi di organizzazione civile cui trarre ispirazione. Né servono semplificazioni legislative o altre scorciatoie giuridiche che elevino l'individualismo a norma di comportamento generale.
Servirebbe maggiore attenzione alla sofferenza, maggiore rispetto prima per i vivi e poi per i morti, la rinuncia presuntuosa a innalzare la forza delle leggi a codice di comportamento prevalente rispetto alla coscienza individuale. A ben vedere il principio che ha fatto sì che lo Stato rinunciasse a darsi il diritto di condannare a morte i suoi cittadini, ha conferito anche a ogni individuo il diritto – doloroso e non esemplare – di rinunciare alla propria vita, senza che lo Stato in alcun modo potesse avere voce in capitolo.
Lo Stato si occupi, meglio di come sta facendo negli ultimi tempi, dell'esistenza terrena dei suoi cittadini e lasci ad altri la giurisdizione sulla vita e sulla morte. Se potessimo percepire anche solo un centesimo delle sofferenze e delle tragedie che attraversano il nostro paese e il mondo, probabilmente capiremmo che il tentativo di intervenire parzialmente per attenuare solo quelle che hanno ottenuto visibilità nel palcoscenico della comunicazione, non solo è un comportamento ipocrita, ma è offensivo nei confronti di tutti quanti continuano a soffrire e a patire in silenzio, senza avere né la voglia né la possibilità di diventare star mondiali del dolore.
Riportiamo le tragedie individuali nel silenzio delle sofferenze individuali e lavoriamo perché in generale i principi, le cause (e ce ne sono!) che ancora concorrono a fare di questa Italia un paese in cui molti soffrono, vengano rimossi o perlomeno diminuiti.

Sergio Noto









































































































































































































che le unioni civili andavano «riconosciute in quanto tali, omosessuali compresi», ma senza equiparazioni col matrimonio e figli, «per le adozioni ci vogliono un uomo e una donna».
Lo stesso cardinale Bagnasco aveva detto l'anno scorso che «i figli non sono mai un diritto, poiché non sono cose da produrre» e «i bambini hanno diritto di crescere con un papà e una mamma» perché «la famiglia è un fatto antropologico, non ideologico». In ogni caso, il ministro della Famiglia Enrico Costa ha detto ieri che il tema non è in discussione: «Va di moda evocare inesistenti vuoti normativi ma le leggi ci sono. Quella del Parlamento su alcuni temi eticamente sensibili non è inerzia, ma una presa di posizione ben chiara. Il legislatore può cambiare le proprie scelte, e se non ritiene di farlo si può non essere d'accordo, ma bisogna rispettarne l'orientamento».

Gian Guido Vecchi




























Però il primo è festeggiato men tre il secondo è temuto salvo poi al funerale scop piano fragorosi battimani.




































































































































L'ordinanza trentina cambia -speriamo!- la prospettiva cristiana radicata nella nostra società. Non conta come vieni al mondo e da chi sei concepito, conta come sarai allevato cresciuto amato educato. Che questo lo possano fare “al meglio” solo un maschio e una femmina regolarmente sposati (in chiesa..) è tutto da dimostrare. Da sempre i bambini vengono al mondo -in piccolo ma
significativo numero- anche seguendo percorsi e relazioni del tutto differenti dai canoni proposti o imposti dalla chiesa che queste cose le sa benissimo. Le conosce e spesso le assorbe senza troppo clamore.
Quando ero giovanetto alle superiori c'erano una mezza dozzina di “cottolenghi” nella bergamasca e quei bambini-mostri –circa 2000 ancora ai tempi della elezione di Papa Giovanni che volle un “cottolengo” anche a Bonate- non erano nati sotto le verze o fiondati dalle cicogne ma da normali relazioni maschio-femmina. Chissà quanto normali di fisico e di testa quel maschio e quella femmina (quasi sempre violentata).

Nella nostra famiglia, dove c'erano già tre bambini di 13,11, 4 anni un bel giorno del 1958 arrivarono due cuginetti del tutto sconosciuti, di un paio d'anni meno grandi. Il loro padre era minatore saltato in aria per una mina scoppiata anzitempo. La loro famiglia era formata da cinque figli e genitori. Alla morte del padre -allora non c'era la pensione-  il prevosto, il sindaco e il maresciallo dei carabinieri «decisero» di affidare i due fratelli più piccoli al parente più prossimo che avesse figli di età identica, in cambio di un piccolo contributo mensile finché avessero raggiunto i 14 anni. la madre vedova venne assunta come bidella e accudire i due figli di  maggiore età. L'arrivo dei due bimbi non sollevò in noi particolari interrogativi mentre portammo per parecchio tempo  il «muso» quando se ne andarono per il proprio destino. Tutti sapevano che la soluzione adottata nell'affido era decisamente il-legale ma per tutti (gli adulti) era fondamentale che quei bimbi avessero una nuova famiglia in cui crescere meglio che da orfani.



Facebook è una vetrina per troppi dove esibirsi. Dove esibire i propri figli. Un album fotografico che diventa un book come quello dei fighetti e fighette che voglio fare cinema. Sono del parere che una legge DOVREBBE proibire ai genitori di pubblicare in rete le foto dei propri figli finché siano minorenni. Il motivo è semplice: l'immagine di una persona gli appartiene in maniera esclusiva e può quindi disporne lui solo.
L'immagine è come il nome proprio: qualcosa che porti per tutta la vita e siccome non li hai scelti liberamente DEVONO essere rispettati da tutti. Siccome la legge da questo diritto –di rendersi pubblici- alla maggiore età, questo deve valere anche per i genitori.
Non fosse altro che oggi, quello che  metti in rete, ci resterà  per l'eternità e potrebbe accadere che i figli  giunti alla maggiore età non gradiscano i genitori.
E viceversa.