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NUMERO 306





























































Un partito che si aggroviglia
di Aldo Cazzullo /Corriere della Sera

Il Pd è una tonnara dove più i tonni si agitano, più si aggrovigliano; e Renzi non è il rais che guida la mattanza, la ruspa che rottama, lo schiacciasassi che asfalta; è solo il tonno più grosso.
Resta il candidato migliore, ma pure lui ha perso il controllo del partito e il polso del Paese; figuratevi gli altri.
Il mondo va a destra e se ne sono accorti persino al Nazareno, per l'occasione traslocato in una dependance chic di via Margutta.
E se lo rinfacciano l'un l'altro, leader e leaderini: occhio che arriva Trump, attenti a Marine Le Pen. Eppure, di fronte al vento con trario e alla sconfitta che si avvicina, le varie anime del partito proprio non riescono a fare fronte comune.
Si odiano troppo, e odiano troppo l'usurpatore di Rignano. A Gentiloni, che assiste silente e attonito al dibattito su quanto debba durare il suo governo, viene riconosciuto un solo merito: non essere Renzi.
I numeri della direzione non devono trarre in inganno; il segretario qui è in netta maggio ranza; ma non lo è nei gruppi parlamentari.
Una parte del Pd l'ha sempre considerato un alieno: qualcuno l'ha combattuto a viso aperto, altri se lo sono fatti piacere, per venire fuori adesso che la sua aura di vincitore si è infranta contro il 60% di No.
Ieri è di fatto passato all'opposizione interna il ministro Orlando, erede designato dal grande elemosiniere del partito Sposetti,



Ci siamo sciroppati tre ore dell’assemblea del PD e ci prudevano parecchio le mani. Abbiamo avuto una gran voglia di menarli. Menarli tutti. Oggi leggendo i due maggiori quotidiani nazionali ci pare di vedere un Corriere abbastanza schierato sulla linea renziana e La Repubblica nettamente schierata verso la scissione.
Un paio di cose pare l’abbiano comprese entrambe maggioranza e minoranza secessionista: che dopo non ci saranno
più. Seconda: il fiorentino li ha scartati tutti. La minoranza immaginava una piega verso la sfiducia al governo e invece lui ha ricordato: non sono parlamentare e questa faccenda tocca a chi siede in Parlamento. Toccati.
Per quel poco che mi fanno vedere i miei occhi miopi il popolo piddino è (1) schierato largamente  con Renzi, (2) vuole le elezioni  nel 2018, (3) è arrabbiato nero con una minoranza che vuole spaccare il partito solo per una questione di mera leadership, (4) alla minoranza attribuiscono un risultato elettorale al di sotto del 7-8%: inutile per il domani ma utile a mandare le destre al governo, (5) non giudicano Speranza e Orlando all’altezza del compito  di segretario o PdC.

La via da percorre a nostro piccolo avviso non è però quella semplificatoria più o meno avanzata da maggioranza o minoranza. C’è bisogno di una conferenza programmatica sui mille temi, ci sono i congressi ai diversi livelli  con una segreteria di garanzia fino alla scelta del nuovo segretario e della linea politica con cui presentarsi alle elezioni dell’anno venturo.
Noi pensiamo che alla prossima direzione nazionale il fiorentino darà le dimissioni da segretario e - c’è da scommetterci- la minoranza non accetterà nemmeno una «segreteria di garanzia». Non darà i suoi uomini.



Le scelte dei partiti
Il retroscena.

Goffredo Demarchis /La Repubblica

Ha gettato la spugna anche Dario Franceschini: «Lavoro per evitare la scissione. Quante chance ho di farcela? Non lo so». Il ministro della Cultura si è preso l'incarico di mediare tra Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani. Non è intervenuto in direzione per mantenere un profilo da casco blu almeno fino all'assemblea nazionale di sabato. Poi, ha votato il documento del segretario e compiuto di fatto la sua scelta. Userà ancora l'arma della paura, valida per i renziani e per i dissidenti. «C'è tempo fino a sabato - dice alla fine della riunione -. Bisogna pensarci bene, lo facciano tutti. Se va via dal Pd un ex segretario è un problema gigante. E in giro per l'Italia quel mondo vale più dei 13 voti che hanno in direzione ».
Ma la stagione dei sospetti e dei veleni sembra veramente volgere al termine. Ognuno per la sua strada, forse smetteranno di litigare. La minoranza del Pd potrebbe disertare il congresso: «Non lo escludo», dice Roberto Speranza che pure si è candidato alla segreteria mesi fa. Addirittura il giorno della scissione potrebbe essere sabato:l'ipotesi è disertare l'assemblea



Ci proverà ancora a giugno ». Non ha più la forza politica di imporre la sua linea sempre e comunque.
Ma a questo serve il congresso: una rilegittimazione personale per correre alle urne, dicono gli esponenti della sinistra.
Messa così, è la descrizione di un avventurista senza scrupoli.
Una visione di parte, naturalmente. È anche un modo per crearsi un motivo valido per la scissione. Certo, in qualche modo i piani di Renzi sono stati stoppati in questi mesi. Dai nuovi equilibri nel Pd e da una forza che non è la stessa di prima. Ma nel Pd i numeri dicono ancora Renzi.
E il congresso come lo ha immaginato il segretario non lascia molti margini. «Bersani e Speranza - racconta Davide Zoggia - volevano votare Sì al referendum. Hanno cambiato idea quando Renzi non ha fatto concessioni sulla legge elettorale e quando hanno visto che il popolo che rappresentano era su un'altra linea ».
Faranno così anche stavolta: prima sentiranno i territori, cercheranno di capire quanto sia sentito e partecipato il vento della scissione. «Siamo in mare aperto - spiega Miguel Gotor -.
Ma è più vicino l'approdo di un addio». I territori significa il peso dei governatori, ad esempio. Come Michele Emiliano.































































































































































































































































































































































































































































































































che non soltanto si è detto contrario alle elezioni anticipate, ma ha messo in dubbio lo schema stesso delle primarie per incoronare il segretario e il candidato premier; che in effetti è legato al maggioritario, mentre Orlando ha reso esplicito che si va verso il proporzionale. L'assetto dove nessuno vince o perde davvero, la palude a cui Renzi si proclama inadatto.


Il fatto è che a questa gente importa zero della destra che bussa rumorosamente alle porte in tutte le nazioni. A loro interessa mettere le mani su quello zero virgola di crescita per premiare le proprie categorie di riferimento. E’ sempre stato così nel centrosinistra: appena il paese comincia a respirare, ecco che si ribalta l’assetto di governo e del partito.































































n questo momento le primarie le vincerebbe ancora lui. Lo sanno anche gli sfidanti già in campo o in panchina, che ieri sono intervenuti con voce ansimante, in un clima quasi da psicodramma (ma anche Renzi, che il riposo forzato ha reso più pingue, nel finale ha alzato la voce).
Ma il partito è irrimediabilmente divi so. D'Alema è rimasto zitto, anche se Renzi l'ha provocato in tutti i modi: accusandolo di aver cercato assessori per la Raggi, evocando la privatiz zazione di Telecom e l'acquisizione della Banca 121 del suo amico salentino De Bustis da parte del Mon te dei Paschi.
Ma Speranza ha riconosciuto che «la scissione c'è già stata; ora si tratta di ricomporla».
Il referendum è stato la svolta.
Un pezzo del sistema si é alleato con gli anti sistema pur di far fuori Renzi;





















































































































































disertare l'assemblea nazionale in assenza di garanzie su tempi congressuali più lunghi. Non ci sono più le condizioni per stare nel «partito dell'avventura», aggiunge Speranza. «Siamo a un millimetro dal baratro», insiste.
Massimo D'Alema, seduto accanto ad alcuni parlamentari della sinistra pd, scuote la testa: «Sono allucinato, non ha rinunciato all'idea di sfiduciare il governo», commenta.
Cosa può cambiare da qui a sabato? All'apparenza nulla.
Non è bastato lo strappo di Andrea Orlando. Bersani ha chiesto chiara mente al microfono un'assunzione di responsabilità più larga. Chiamando a raccolta il partito, i suoi numeri: vale a dire Franceschini, gli ex popolari, i ministri.
Del resto, lo schema di Renzi è chiaro agli occhi degli avversari interni: congresso lampo ed elezioni da celebrare al più presto.
A giugno, se la finestra è ancora aperta.
A settembre, se dovesse fallire giugno. «Temo il doppio blitz», dice ancora Speranza. In privato, gli esponenti bersaniani raccontano che il segretario ci prova dal giorno della sconfitta al referendum, cioè dal 4 dicembre. Con tutti i relativi passaggi istituzionali, ovvero ingaggiando anche un duello con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
«Ha provato ad andare al voto il 29 gennaio. Dopo la sentenza della Corte, ha fatto un tentativo per le elezioni a fine aprile.



D'Alema lo considera già dentro una nuova forza. Ci scherza sopra. «Non è vero che la nuova lista di sinistra sarà piena di ex comunisti. Innanzitutto io sono socialista. Eppoi ci saranno anche i fascisti, diciamo».
I fascisti? «Beh, Emiliano...», ha sor riso l'ex premier lasciando di stucco gli interlocutori.
Non c'è molto da ridere. Speranza ha il morale sotto i tacchi: «Sono preoccupato». Nico Stumpo dice: «Facciamo un nuovo partito. Se pensano che ci svendiamo per due capilista, sbagliano». La legge elet torale rende ancora più grande la tentazione: basta il 3 per cento per entrare alla Camera. Ma anche i potenziali scissionisti hanno paura del passo. E preferirebbero lottare nel congresso.
Al momento della formazione del governo Gentiloni, Bersani offrì a Orlando le chiavi della leadership: «Non entrare in un Renzi bis senza Renzi. Lascia il ministero della Giustizia. Avrai più margini di manovra politica e ti libererai del marchio renziano ».
Il Guardasigilli rispose picche. Anche adesso che ha rotto con Renzi, i bersaniani non sanno che andrà fino in fondo.
Per questo la scissione resta lo sbocco più probabile.

Goffredo Demarchis /La Repubblica




















































ma dopo di lui non torna D'Alema e non arriva Speranza, arrivano appunto la destra tradizio nale e quella populista.
E il Pd visto ieri non ha la compattezza per affrontarle, forse neanche per dividerle.
Davvero a Berlusconi conviene cercare un accordo dopo il voto con un partito così instabile, anziché ricostruire l'alleanza tradizio nale con la Lega?
Certo, il vento contrario tira in tutta Europa. In Francia il candidato della Gauche è quarto nei sondaggi, dopo che si sono bruciate le candidature del presidente e del primo ministro. In Spagna i socialisti appoggiano di fatto i postfranchisti, eredi di coloro che due generazioni fa li mandavano in galera o alla garrota. In Inghilterra i laburisti si sono arroccati a sinistra condannandosi all'irrile vanza. In Germania l'Spd ha avuto una fiammata nei sondaggi, ma tutti pensano che le elezioni le vincerà la Merkel. In Olanda è favorito il leader xenofobo che vuole la fine dell'Europa. In America i democratici hanno subito una sconfitta storica, con Obama che si gode le vacanze e Hillary che si cura le ferite. In Italia tutto il potere va (provvisoriamente) a Orfini.

Aldo Cazzullo / Corriere della Sera

Più che correnti nel partito ci sono simpatie verso vecchi dirigenti

Indubbiamente nel PD c’è un elettorato e un popolo affezionato a qualche leader particolare, ma la maggioranza di questi leader non hanno il coraggio di «parlare chiaro». Nemmeno il fiorentino da qualche tempo in qua: segno che Roma inquina la buona volontà.

L’Italia ha bisogno di poche durissime scelte: (a) ridurre l’evasione fiscale alla media europea in 3-5 anni (b) un politica economica industriale che privilegi le produzioni ad alto contenuto accompagnata da una forte finanziamento alla scuola (c) una forte concentrazione dei soggetti pubblici che fanno spesa (d) abolizione del Senato e legge elettorale maggioritaria a turno unico (e)un reddito minimo per pensionati e disoccupati con una politica attiva di  professionalizzazione e inserimento (f) finanziare la spesa del punto (b) col risparmio privato togliendo la tassazione per gli impieghi nelle imprese private (g) una efficace politica di difesa dei consumatori dagli oneri inflitti dai privilegi delle categorie protette e senza concorrenza.