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NUMERO 300







































































Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi.
Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.

Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.

Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia.
Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.

A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.

Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.

Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.

Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.

Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno.
Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie.

Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri.

Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.

Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.

Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento.

P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.
Ho resistito finché ho potuto.

Michele







Il furto della felicità

Michele si è tolto la vita, a trent'anni. E prima di farlo ha scritto una lunga lettera. La trovate sui giornali, su internet.
Parla di furto della felicità, della nostra generazione, dei no che uccidono, di sistema, di sogni, di libertà di scelta. È una lettera lunga e piena di amore e rassegnazione, di rabbia e serenità. Di vita, a dire il vero. E a tutti i moralizzatori col culo degli altri di internet chiedo di indossare un po' di silenzio, che di certo il dolore dei cari ed il suo gesto non meritano inutili accuse gratuite.
Perché quello che ci chiede è di guardare fuori da questa storia, di guardarci attorno e dentro. Di mettere in fila i trabocchetti di un sistema che ci obbliga a trovarci con le competenze e senza futuro, con il talento e senza le possibilità, con le idee e senza interlocutori. Costretti a vivere per sopravvivere in una rincorsa verso la mediocrità imposta che ci rende poveri, incerti e senza più tempo.





Michele, i suoi genitori, il modello unico
Oggi vorre  parlarvi di Michele, anzi dei
dei genitori di Michele.
Michele, forse l’avete sentito o letto da qualche parte, era un ragazzo di 30 anni che prima di suicidarsi ha scritto una lettera su diverse cose, tra cui il suo infinito precariato, la sua stanchezza di perdente della società, la sua lotta quotidiana per sopravvivere.

Ma più che di Michele - appunto - vorrei parlare dei suoi genitori.

Che con un atto di coraggio, di imprudenza, forse di sfida, di impudicizia hanno deciso di rendere nota la lettera del figlio, inviandola al Messaggero Veneto, e chiedendo di pubblicarla in quanto denuncia.

La morte di un figlio, che è la peggiore delle disgrazie possibili per un essere umano, a volte fa scattare una molla nei genitori, fa scattare nei loro cuori la voglia di combattere contro le cause di quella morte.

È piuttosto frequente, lo avrete notato: papà e mamme a cui muore un figlio per un incidente stradale diventano attivisti per la sicurezza stradale, quelli a cui muore un figlio per via delle droghe diventano attivisti nella lotta agli stupefacenti e così via.

Ecco, anche i genitori di Michele - chiunque essi siano, comunque si chiamino - nel pubblicare la lettera denuncia del figlio hanno deciso di farsi attivisti contro le cause della sua morte.

Quindi contro il precariato, certo, dato che il ragazzo prima di uccidersi dice di non poterne più di inutili colloqui, di rifuti, di pacche sulle spalle e via.
Ma c’è di più. c’è altro. Michele nella sua lettera racconta infatti, più ampiamente, la sua vita di sconfitto.
Sconfitto nei riconoscimenti, nella socialità, nei punti di riferimento.
Michele è stato ucciso da qualcosa di ancora più grande del precariato, che è il vincismo.
Cioè quell’ideologia secondo la quale se non sei un vincente, sei uno sfigato.
Se non sei un vincente, devi soffrire. Se non sei un vincente, non meriti di essere accolto dalla società. È l’estensione del dominio e della lotta, come ha scritto Houellebecq in uno dei suoi libri più belli.


























































































































































































































































































































































































































































































































































































































































E chiunque pensi di esserne chiamato fuori perché ha indovinato una start up o riempie i palasport con le canzoni, beh... è stronzo due volte. Perché sta implicitamente accettando le regole di un mondo in cui la maggior parte dei giovani non è legittimata ad inseguire i propri sogni, o anche solo a non vivere in perenne incertezza, pensando che il riscatto personale basti a dare un senso a questa vita, o anche solo a mettersi al sicuro.
Ma non fatevi fottere. Se ne esce solo insieme, o si annega assieme. Perché un mondo in cui milioni di ragazzi sono costretti all'incertezza costante e alla negazione dei propri sogni non possiamo accettarlo. Certi diritti o sono di tutti o non li merita nessuno. E pure la favola della meritocrazia male si addice ad un paese governato da figli di, raccomandati, collusi, faccendieri, inetti e ladri di stipendi. Non è questa la classe dirigente che può parlarci di quanto basti il merito. È piuttosto quella che ha riempito i luoghi di potere di corrotti e mafiosi, e che ha condannato una generazione intera alla flessibilità e infelicità eterna. Una generazione a cui sembra mancare ormai la forza non dico per immaginare un mondo diverso, ma anche solo per incazzarsi. Che non è tutto, ma almeno non è niente.
Le canzoni sono cose minuscole difronte a storie del genere, ma hanno senso di esistere solo quando dicono quello che c'è scritto in quella lettera, ma non abbastanza forte da funzionare da antidoto per quel gesto. Non esiste una sola maniera di vivere, un solo mondo possibile, una sola strada. Siamo liberi di essere diversi da come ci vogliono. E si è liberi davvero solo quando si è insieme.
Il resto è rabbia, frustrazione, una lunga serie di poteva essere amico mio e di nomi di riforme spesso di centro sinistra senza più né sinistra, nè centro, nè rispetto per il futuro di questo paese.
Fanculo.
Per lui e per noi. Non lasciamolo solo, non lasciamoci soli.

https://www.facebook.com/statosociale/







È il darwinismo sociale e universale, invasivo e totalizzante. È il mantra della competizione, è la pessima storiella del leone e della gazzella che devono correre uno più in fretta dell’altro per farcela.

A un certo punto qualcuno si rompe le balle di correre. A un certo punto qualcuno si ferma, e che sia quel che sia. Tenetevelo voi questo modello di pianeta in cui se non corri e non arrivi primo non hai diritto nemmeno a una briciola di felicità. Tenetevelo voi, ha scritto Michele, «io non c’entro nulla con tutto questo», testuale, e poi: «Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico (...) Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico modello possibile, il modello unico non funziona».

E ancora: «Siete voi che fate i conti con me, non io con voi».
Ha ragione, Michele, siamo noi che dobbiamo fare i conti con lui. O meglio siamo noi - noi che per ora siamo rimasti qui, nella vita - a decidere se il modello vincista da cui lui è scappato è davvero l’unico possibile, se scapparne è l’unica chance, o se è possibile provare a cam biarlo, almeno un po’.
I suoi genitori, rendendo nota la lettera e chieden done la pubblicazione, si sono fatti attivisti di una possibilità di cambiamento, di cambiamento del model lo vincista, del modello in cui a ogni cosa è esteso il dominio ed è estesa la lotta.

Alessandro Giglioli