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Troppe riforme finite in garage
Fabio Bogo
Con la parziale bocciatura dell'Italicum da parte della Corte
Costituzionale l'Italia si ritrova ad avere due Camere, ognuna delle
quali vede i suoi componenti eletti con una meccanismo diverso.
Un problema sostanziale.
Ma registra anche l'ennesimo stop a quelle ambiziose riforme
programmate dal governo Renzi. E questo invece è un problema di
credibilità del Paese.
In verità il processo di demolizione era sottotraccia prima che Renzi
anivasse a Palazzo Chigi. Ad aprile 2015 infatti la Consulta si esprime
sul blocco delle pensioni che superano tre volte il minimo, decisa dal
governo Letta: norma illegittima, buco nei conti pubblici di circa 12
miliardi, evapora un corposo tesoretto.
Ma è solo un assaggio.
A novembre 2016 la Corte demolisce la riforma Madia, che rivoluzionava
la pubblica amministrazione. Non si può prevedere solo il parere delle
Regioni, motivano i giudici, ci vuole il loro accordo.
Tutto da rifare perciò per dirigenti, partecipate, servizi pubblici e organizzazione del lavoro.
A dicembre in campo invece c'è il Consiglio di Stato, che stronca la
riforma delle banche popolari e blocca l'attuazione di alcuni
provvedimenti disposti dalla Banca d'Italia.
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Mettiamo
la recensione di Ainis al libro di Giunta e Rossi in parallelo
coll'articolo di Bogo che elenca tutti i provvedimenti del governo
Renzi che sono stati fermati o bocciati dal c.d. ordinamento superiore
perché ci paiono descrivere un'immagine perfetta del
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nostro
Paese. Le riforme cassate al governo Renzi si possono condividere o
meno (e quindi anche le bocciature) però si ha l'impressione di
un paese dove le parti giochino la medesima partita della conservazione
dello stato attuale piuttosto che assumersi l'onere della sfida verso
un qualche futuro. Che non sarà aprioristicamente migliore del presente
ma che non può essere ogni volta interdetto.
Il preciso smontaggio da parte delle istituzioni di ogni variazione sul
tema riflette e corrobora l'opinione degli italiani che si ritengono
tra i più infelici del pianeta, peggio degli iracheni e dei
palestinesi. E questo pessimismo si ritrova nel grande numero di
imprese che -scrivono Giunta e Rossi- annaspano,
licenziano, s'aggrappano al credito bancario. Per quale ragione? Perché
sono troppo piccole. Perché la loro modesta dimensione si traduce in
familismo gestionale, bassa produttività, scarsa inno vazione. Perché
la fram mentazione delle imprese italiane ne ha ostacolato la rincorsa
alle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione. E
perché, infine, solo le più forti riescono a superare il gap che deriva
all'operare in Italia, anziché in America o in Germania.
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L'Italia non è più ottimista perché ha dimenticato quello che è in grado di fare
Michele Ainis
Anna Giunta e Salvatore Rossi sulle cause del nostro declino dalle imprese troppo piccole a un “diritto diventato torto” |
Ci sono libri che fanno bene allo spirito, all'umore. Specie quando in
un popolo si propaga l'umor nero, un pessimismo duro e spesso come
piombo. È il caso dell'Italia, da una decina d'anni a questa parte. Già
nel 2007 il 47 per cento degli italiani si dichiarava insoddisfatto
della propria esistenza individuale (Pew Global Attitudes Project); una
percentuale di gran lunga superiore a quella degli inglesi (34), degli
spagnoli (30), dei francesi (40).
L'anno dopo un'altra
rilevazione (Gallup) attestò che i nostri giovani sono i più pessimisti
d'Europa. Pensano che le diseguaglianze cresceranno ulteriormente (83
per cento). Che i migliori resteranno indietro (84). Che la loro
condizione finirà per peggiorare (67).
Il futuro non è più quello d'una volta, diceva Valéry. Oggi lo dice,
pressoché all'unisono, il popolo italiano. Nel 2015 l'indagine annuale
del Worldwide Indipendent Network of Market Research sulla felicità nel
mondo ci ha sbattuto all'ultimo posto: siamo i più infelici del
pianeta, più degli iracheni o dei palestinesi che vivono nei Territori
occupati. Nel 2016 un'altra ricerca (Fondazione Di Vittorio) ci ha
informato che in Italia gli ottimisti sono appena uno su quattro.
Mentre un paio di mesi fa un'ultima rilevazione (Swg e Skuola. net) ha
confermato i foschi presagi dei giovani italiani: restano i più
pessimisti d'Europa, come nel 2008.
Molte ragioni alimentano questo sentimento di disfatta collettiva. Però
altre ragioni lo smentiscono, disegnano un paesaggio in chiaroscuro,
anziché nero come pece. Il guaio è che nel dibattito pubblico – nei
libri, negli editoriali, nei convegni – hanno voce soltanto i
pessimisti, i professori del declino. Nel 2005 lo diceva già Luigi
Spaventa: loro sono i titolari dell'unica industria nazionale in
crescita. E invece no, l'Italia non è affatto la Grecia. Abbiamo un
patrimonio di risorse, una creatività che non ha pari al mondo, siamo
ricchi di competenze e di esperienze, sappiamo produrre, distribuire,
vendere. Ce lo ricorda un libro dal titolo eloquente: Che cosa sa fare
l'Italia (Laterza). L'hanno scritto due economisti: Anna Giunta,
presidente della Società italiana di economia e politica industriale e
Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d'Italia.
Una lettura rincuorante, perché mette l'accento sui nostri (non pochi)
talenti. Senza negare, com'è ovvio, gli effetti di questa lunga
recessione sull'economia italiana: un milione di posti di lavoro persi,
aumento del debito pubblico dal 100 al 130 per cento del Pil,
diminuzione di quasi un decimo della produzione complessiva. Ciò
nonostante, siamo ancora capaci di stare all'avanguardia; ma la
competitività italiana all'estero si regge su una pattuglia di imprese
manifatturiere, un quinto del totale. Le altre annaspano, licenziano,
s'aggrappano al credito bancario. Per quale ragione? Perché sono troppo
piccole, rispondono Giunta e Rossi. Perché la loro modesta dimensione
si traduce in familis mo gestionale, bassa produttività, scarsa
innovazione. Perché la frammentazione delle imprese italiane ne ha
ostacolato la rincorsa alle nuove tecnologie dell'informazione e della
comunicazione. E perché, infine, solo le più forti riescono a superare
il gap che deriva all'operare in Italia, anziché in America o in
Germania. In breve, «le imprese vincenti sono diventate tali nonostante
il Paese, le perdenti a causa di esso». E la causa più nefasta –
concludono i due autori – risiede nei labirinti burocratici,
nell'ipertrofia fiscale, nell'oscurità legislativa. Dipende insomma da
un ordinamento giuridico che ha trasformato il diritto italiano in un
torto agli italiani.
Sarà per questo che nel nostro Paese non è nata nessuna Microsoft,
nessuna Google, nessuna Ikea. C'erano molte grandi imprese, fino a
tutti gli anni Sessanta; in seguito hanno chiuso o si sono
rimpicciolite. Nel frattempo l'immagine internazionale dell'Italia
rimane seducente, ma anche un po' fané, un po' flaccida, appassita.
Mentre qualsiasi prodotto tedesco – che sia una lavatrice o un'auto
mobile – restituisce un'impressione di solidi tà, il nostro genio
artistico viene ormai ap prezzato soltanto nei settori del cibo e della
moda. Ed è un peccato, anzi un delitto, perché le eccellenze italiane
sono ben più numerose. Ma per invertire il declino serve l'aiuto del
legislatore: con una legge in meno, non con una legge in più.
IL LIBRO
Che cosa sa fare l'Italia La nostra economia dopo la grande crisi di Anna Giunta e Salvatore Rossi ( Laterza pagg. 230, euro 20)
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