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NUMERO 289



































Troppe riforme finite in garage

Fabio Bogo

Con la parziale bocciatura dell'Italicum da parte della Corte Costituzionale l'Italia si ritrova ad avere due Camere, ognuna delle quali vede i suoi componenti eletti con una meccanismo diverso.
Un problema sostanziale.
Ma registra anche l'ennesimo stop a quelle ambiziose riforme programmate dal governo Renzi. E questo invece è un problema di credibilità del Paese.
In verità il processo di demolizione era sottotraccia prima che Renzi anivasse a Palazzo Chigi. Ad aprile 2015 infatti la Consulta si esprime sul blocco delle pensioni che superano tre volte il minimo, decisa dal governo Letta: norma illegittima, buco nei conti pubblici di circa 12 miliardi, evapora un corposo tesoretto.
Ma è solo un assaggio.
A novembre 2016 la Corte demolisce la riforma Madia, che rivoluzionava la pubblica amministrazione. Non si può prevedere solo il parere delle Regioni, motivano i giudici, ci vuole il loro accordo.
Tutto da rifare perciò per dirigenti, partecipate, servizi pubblici e organizzazione del lavoro.
A dicembre in campo invece c'è il Consiglio di Stato, che stronca la riforma delle banche popolari e blocca l'attuazione di alcuni provvedimenti disposti dalla Banca d'Italia.






Mettiamo la recensione di Ainis al libro di Giunta e Rossi in parallelo coll'articolo di Bogo che elenca tutti i provvedimenti del governo Renzi che sono stati fermati o bocciati dal c.d. ordinamento superiore perché ci paiono descrivere un'immagine perfetta del
nostro Paese. Le riforme cassate al governo Renzi si possono condividere o meno (e quindi  anche le bocciature) però si ha l'impressione di un paese dove le parti giochino la medesima partita della conservazione dello stato attuale piuttosto che assumersi l'onere della sfida verso un qualche futuro. Che non sarà aprioristicamente migliore del presente ma che non può essere ogni volta  interdetto.
Il preciso smontaggio da parte delle istituzioni di ogni variazione sul tema riflette e corrobora l'opinione degli italiani che si ritengono tra i più infelici del pianeta, peggio degli iracheni e dei palestinesi. E questo pessimismo si ritrova nel grande numero di imprese che -scrivono Giunta e Rossi-  annaspano, licenziano, s'aggrappano al credito bancario. Per quale ragione? Perché sono troppo piccole. Perché la loro modesta dimensione si traduce in familismo gestionale, bassa produttività, scarsa inno vazione. Perché la fram mentazione delle imprese italiane ne ha ostacolato la rincorsa alle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione. E perché, infine, solo le più forti riescono a superare il gap che deriva all'operare in Italia, anziché in America o in Germania.






L'Italia non è più ottimista perché ha dimenticato quello che è in grado di fare
Michele Ainis

Anna Giunta e Salvatore Rossi sulle cause del nostro declino dalle imprese troppo piccole a un “diritto diventato torto”
Ci sono libri che fanno bene allo spirito, all'umore. Specie quando in un popolo si propaga l'umor nero, un pessimismo duro e spesso come piombo. È il caso dell'Italia, da una decina d'anni a questa parte. Già nel 2007 il 47 per cento degli italiani si dichiarava insoddisfatto della propria esistenza individuale (Pew Global Attitudes Project); una percentuale di gran lunga superiore a quella degli inglesi (34), degli spagnoli (30), dei francesi (40).
L'anno dopo un'altra rilevazione (Gallup) attestò che i nostri giovani sono i più pessimisti d'Europa. Pensano che le diseguaglianze cresceranno ulteriormente (83 per cento). Che i migliori resteranno indietro (84). Che la loro condizione finirà per peggiorare (67).
Il futuro non è più quello d'una volta, diceva Valéry. Oggi lo dice, pressoché all'unisono, il popolo italiano. Nel 2015 l'indagine annuale del Worldwide Indipendent Network of Market Research sulla felicità nel mondo ci ha sbattuto all'ultimo posto: siamo i più infelici del pianeta, più degli iracheni o dei palestinesi che vivono nei Territori occupati. Nel 2016 un'altra ricerca (Fondazione Di Vittorio) ci ha informato che in Italia gli ottimisti sono appena uno su quattro. Mentre un paio di mesi fa un'ultima rilevazione (Swg e Skuola. net) ha confermato i foschi presagi dei giovani italiani: restano i più pessimisti d'Europa, come nel 2008.
Molte ragioni alimentano questo sentimento di disfatta collettiva. Però altre ragioni lo smentiscono, disegnano un paesaggio in chiaroscuro, anziché nero come pece. Il guaio è che nel dibattito pubblico – nei libri, negli editoriali, nei convegni – hanno voce soltanto i pessimisti, i professori del declino. Nel 2005 lo diceva già Luigi Spaventa: loro sono i titolari dell'unica industria nazionale in crescita. E invece no, l'Italia non è affatto la Grecia. Abbiamo un patrimonio di risorse, una creatività che non ha pari al mondo, siamo ricchi di competenze e di esperienze, sappiamo produrre, distribuire, vendere. Ce lo ricorda un libro dal titolo eloquente: Che cosa sa fare l'Italia (Laterza). L'hanno scritto due economisti: Anna Giunta, presidente della Società italiana di economia e politica industriale e Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d'Italia.
Una lettura rincuorante, perché mette l'accento sui nostri (non pochi) talenti. Senza negare, com'è ovvio, gli effetti di questa lunga recessione sull'economia italiana: un milione di posti di lavoro persi, aumento del debito pubblico dal 100 al 130 per cento del Pil, diminuzione di quasi un decimo della produzione complessiva. Ciò nonostante, siamo ancora capaci di stare all'avanguardia; ma la competitività italiana all'estero si regge su una pattuglia di imprese manifatturiere, un quinto del totale. Le altre annaspano, licenziano, s'aggrappano al credito bancario. Per quale ragione? Perché sono troppo piccole, rispondono Giunta e Rossi. Perché la loro modesta dimensione si traduce in familis mo gestionale, bassa produttività, scarsa innovazione. Perché la frammentazione delle imprese italiane ne ha ostacolato la rincorsa alle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione. E perché, infine, solo le più forti riescono a superare il gap che deriva all'operare in Italia, anziché in America o in Germania. In breve, «le imprese vincenti sono diventate tali nonostante il Paese, le perdenti a causa di esso». E la causa più nefasta – concludono i due autori – risiede nei labirinti burocratici, nell'ipertrofia fiscale, nell'oscurità legislativa. Dipende insomma da un ordinamento giuridico che ha trasformato il diritto italiano in un torto agli italiani.
Sarà per questo che nel nostro Paese non è nata nessuna Microsoft, nessuna Google, nessuna Ikea. C'erano molte grandi imprese, fino a tutti gli anni Sessanta; in seguito hanno chiuso o si sono rimpicciolite. Nel frattempo l'immagine internazionale dell'Italia rimane seducente, ma anche un po' fané, un po' flaccida, appassita. Mentre qualsiasi prodotto tedesco – che sia una lavatrice o un'auto mobile – restituisce un'impressione di solidi tà, il nostro genio artistico viene ormai ap prezzato soltanto nei settori del cibo e della moda. Ed è un peccato, anzi un delitto, perché le eccellenze italiane sono ben più numerose. Ma per invertire il declino serve l'aiuto del legislatore: con una legge in meno, non con una legge in più.

IL LIBRO
Che cosa sa fare l'Italia La nostra economia dopo la grande crisi di Anna Giunta e Salvatore Rossi ( Laterza pagg. 230, euro 20)




































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































Il ricorso di soci e associazioni passerà al vaglio della Consulta, nel frattempo si fermano le operazioni in corso.
Sempre a dicembre la maggiore doccia fredda: il referendum boccia la riforma della carta costituzionale. Rinascono dalle preventivate ceneri Senato, Province e Cnel.
A gennaio invece si apre la crepa sulla riforma del diritto del lavoro: la Cgil ottiene sempre dalla Corte il via libera a due referendum, quelli su voucher e responsabilità delle imprese.
In ultimo arriva appunto lo stop all'Italicum mentre si scopre che 14 miliardi di euro potenzialmente incas satali dallo Stato per reati tributari commessi dai contribuenti sono bloccati nei tribunali a causa di ricorsi e le popolazioni terremotate protestano per le lentezze burocratiche che non permettono di attingere ai fondi stanziati.
Fa impressione quindi tornare a ciò che la Commissione UE scriveva un anno e mezzo fa nelle sue raccomandazioni, spingendo il governo ad andare avanti su fìsco, privatizzazioni, fine del bi cameralismo, modernizzazione della Pa, riforma del sistema bancario, riduzione dei crediti in sofferenza.
Quasi tutte varate e poi abortite o impantanate, grazie ad un mix di con cause: feroce resistenza al cambia mento da parte dei soggetti interessati, ma anche provvedimenti evidente mente carenti sotto il profilo normativo o inopportuna gestione politica.
Eppure era solo lo scorso settembre quando un ottimista presidente dell'Eurogruppo Jeroen Djisselbloem affermava:"L'Italia è sulla strada giusta”.
Non sapeva che nel frattempo il conducente era senza patente e qual cuno stava mettendo sabbia nel motore.















































































































































































































La crisi post 2007 ha spaccato il Paese con un lunga recessione che ha generato oltre un milioni di disoccupati e una crescita del debito pubblico fino al 132%. Purtroppo da  questa crisi siamo usciti con l'80% delle imprese che non sono ripartite  e non hanno recuperato posti di lavoro (tranne brevi exploit coperti coi voucher) mentre un quinto delle imprese sono state ancora capaci di stare avanti e mantenere la competitività italiana all'estero.
Non c'é da raccontare la favola consolatoria di un governo Renzi martirizzato da gran parte delle imprese e da qualche potere istituzionale forte. A Renzi -in tema- va semmai fatto presente che toccava a lui mettere mano anche in quei settori refrattari. Resta il fatto che l'italiano medio non ha interesse a una visione d'insieme e mira piuttosto al proprio gruzzoletto di BOT che a capire  il pericolo (di licenziamento) che corre quando sta in una azienda dove lavora alla stessa macchina da dieci anni.
Scrivono Giunta e Rossi che «le imprese vincenti sono diventate tali nonostante il Paese, le perdenti a causa di esso». E la causa più nefasta – concludono i due autori – risiede nei labirinti burocratici, nell'iper trofia fiscale, nell'oscurità legisla tiva. Dipende insomma da un ordinamento giuridico che ha trasformato il diritto italiano in un torto agli italiani. Che poi si replica in politica con la cancellazione delle poche riforme che sono state fatte perchè -appunto- costituiscono una specie di torto fatto sempre e solo a qualcuno. Peccato che quel torto  fosse  in realtà un vantaggio per tutti
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