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NUMERO 279 - PAGINA 1 - IL DELITTO DI GORO INTERROGA I GENITORI
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Una famiglia di ristoratori con marito e moglie con 15 anni di
differenza d'età. In famiglia ci sono due figli, il maggiore però è del
solo padre mentre il minore -quello che organizzerà l'assassinio- è
della coppia. Il fratellastro dell'organizzatore del crimine vive e
studia a Torino. L'assassino però risulta essere (finora) un altro
ragazzo cui era stata promessa una grossa ricompensa per la mazzata.
Proviamo quindi a concentraci sulle due coppie di genitori. Anzi: sul
ruolo che possono avere i genitori nell'allevare figli capaci di questi
massacri. Perché è facile e normale far cadere tutte le colpe
(evidenti) sugli assassini ma dei ragazzini che arrivano a compiere
quel gesto, si portano dietro delle tare educative che hanno
origine dentro le rispettive famiglie. Leggiamo che il figlio della
coppia amazzata non vivesse in casa bensì gli avessero allestito una
cameretta trasformando il garage: privo di riscaldamento e di
pochissima pulizia.
E' facile disquisire sulla mancanza di valori in quelle povere
teste ma forse di valori non ce ne sono molti e solidi nemmeno nei
quattro genitori. Perlomeno sono quattro persone che non si sono
accorti che uomini stavano allevando. La prima riflessione é che questi
genitori non sono stati in grado di essere tali. Lo stesso dicasi per
la scuola, per la quale le assenze ripetute dei due assassini era una
questione amministrativa e burocratica.
Questo perdere tempo immaginando che essendo giovani di tempo ce ne
sarà sempre per superare i problemi è stato risolto con un duplice
assassinio.
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I no impossibili dei genitori ai loro ragazzi
Forse dovremmo rassegnarci al fatto che non abbiamo un diritto
all'amore dei nostri figli. La santa alleanza per l'educazione è venuta
meno: la scuola è l'epicentro del conflitto. La cultura del narcisismo
Antonio Polito
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Quei figli senza senso di colpa
Quello che più colpisce dell'atroce delitto di Codigoro è l'assenza di
senso di colpa nei due giovanissimi assassini. Del figlio innanzitutto,
ancora più del suo sanguinario complice. La motivazione del suo gesto
appare sconcertante nella sua semplicità: «Non sopportavo più le loro
prediche», «volevo liberarmene ».
Massimo Recalcati
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Perché tocca a noi riempire il vuoto del loro futuro
Michela Marzano
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Forse
dovremmo rassegnarci al fatto che non abbiamo un diritto all'amore dei
nostri figli. Da quando si aggrappano a noi per tirarsi in piedi
facendoci sentire onnipotenti, a quando noi ci aggrappiamo a loro per
frenarne il delirio di onnipotenza, passa tanto tempo. Ci sembrano
sempre nati ieri; ma sedici, diciotto anni sono abbastanza per fare del
nostro bambino un individuo dotato di libero arbitrio, di
conseguenza diverso da noi. Talvolta estraneo. O addirittura nemico.
Riccardo e Manuel, i due complici del parricidio e matricidio di
Pontelangorino di Codigoro, sono una storia a sé. Il loro è un
comportamento deviante, materia per giudici e psichiatri. Ma anche quei
due adolescenti in fin dei conti sono millennials, come chiamiamo con
enfasi anglofona i ragazzi di oggi. E lo sappiamo, ce lo raccontiamo
ogni giorno, che tra la generazione Y (ormai quasi Z) e quella dei
genitori è aperto oggi un conflitto molto aspro. Ce l'hanno con noi.
Sostanzialmente perché stiamo lasciando loro meno benessere di quello
che abbiamo trovato.
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A parte una minoranza di dotati e di appassionati, per la maggioranza
dei nostri figli lo studio è inevitabilmente sacrificio, disciplina,
impegno, costanza. Tutte cose che non c'entrano niente con il narcisismo
del tempo.
Chiunque abbia figli sa quanto sia dolorosa questa tensione. I ragazzi
fanno cose inaudite pur di sottrarsi. L'aneddotica è infinita. C'è la
giovane che riesce a ingannare i genitori per anni, fingendo di fare
esami che non ha mai fatto ed esibendo libretti universitari
contraffatti. C'è il ragazzone che scoppia a piangere come un bambino
ogni volta che il padre accenna al tema dello studio. C'è quello che dà
in escandescenze. Quello che mette il cartello «keep out» sulla porta
della cameretta. Quello che non toglie le cuffie dell'iPod. Padri e
madri non sanno che fare: fidarsi dei figli e del loro senso di
responsabilità, rischiando di esserne traditi? O trasformarsi in
occhiuti sorveglianti, rischiando di esserne odiati?
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La
grande tragedia di Edipo re di Sofocle, riletta da Freud, ha elevato
la ferocia del figlio Edipo che assassina il padre a paradigma di una
scena universale: ogni figlio vuole liberarsi di suo padre e dei suoi
genitori per realizzare il proprio desiderio.Il conflitto tra le
generazioni, lo sappiamo, è un passaggio fondamentale nel processo di
umanizzazione della vita. |
Necessariamente l'esistenza di una Legge implica anche la tendenza alla
sua violazione trasgressiva. Ma Edipo, che realizza la più estrema
della trasgressioni, porta anche su di sé le marche dei terribili
crimini del parricidio e dell'incesto. Per questo al termine della
tragedia si cava gli occhi con i fermagli dei capelli di sua moglie e
madre Giocasta. A dimostrazione che la Legge si è iscritta nel suo
corpo nella forma del senso di colpa per ciò che ha commesso.
Nel delitto di Codigoro, invece, in primo piano non c'è alcun conflitto
tra Legge e desiderio e, di conseguenza, nessuna esperienza autentica
della colpa. La fredda frivolezza con la quale vengono messi a morte i
genitori non sembra avere più alcun rapporto con il senso della
tragedia. Il figlio che, con la complicità di un amico reclutato a
pagamento, ha macchinato il delitto, non mostra, infatti, al termine
degli interrogatori, alcun segno di pentimento. E poco importa se più
tardi il suo avvocato dirà il contrario. Appare lontano anni luce dalla
tragica lacerazione che affligge il povero Edipo. Anziché essere diviso
dal conflitto tra il desiderio e la Legge, egli ha ucciso semplicemente
per coltivare l'illusione di una vita facile e spensierata —
letteralmente: senza pensiero — . La violenza furiosa che rende
impossibile ogni parola si configura così come il suo strumento più
immediato: per raggiungere l'obbiettivo di una libertà spensierata
bisogna eliminare fisicamente l'insopportabile presenza dei propri
genitori e delle loro prediche.
“Onora tuo padre e tua madre” è uno tra i comandamenti biblici
più belli. Portare “onore” ai propri genitori — non malgrado siano
imperfetti e vulnerabili, ma proprio perché essi sono tali — significa
riconoscere il debito simbolico grazie al quale la vita sorge e
iscrivere la propria vita nel patto tra le generazioni perché nessuna
vita può farsi da se stessa.
La bellezza di questo comandamento è stata oltraggiata da
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Increduli
prima di prima di riconoscere che dalle loro parti c’è poco da fare: si
sta insieme, si fa un giro, si gioca alla playsta- tion, si mangia una
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pizza, si fuma. Poco o niente, quindi. Come se la vita fosse vuota, non
solo di progetti, ma anche di senso. Ma basta questo vuoto a spiegare
l’accaduto? È il vuoto che porta a non rendersi conto delle conseguenze
di quello che si fa e della gravità dei propri gesti?
Il duplice omicidio dei coniugi Vincelli ci lascia tutti basiti. Ma una
volta superato lo shock del momento, forse si dovrebbe fare una seria
riflessione sulla condizione esistenziale in cui si trovano oggi tanti
giovani, persi in un mondo ormai privo di punti di riferimento e di
regole, spesso abbandonati a loro stessi, quasi sempre incapaci di
proiettarsi nel futuro. Ragazzi che, talvolta, crescono convinti che
nella vita funzioni tutto come all’interno di un videogioco — dove si
vince o si perde, ma in fondo poco importa, basta aspettate la partita
successiva, ricominciare da capo, e poi ancora di nuovo, tanto c’è
sempre tempo per una rivincita. Oppure anche pieni di rabbia e
sfiduciati: nella vita non cambia mai nulla, a che serve impegnarsi, è
così che vanno le cose, per noi non c’è futuro. In quale futuro può
d’altronde proiettarsi un adolescente che passa ore e ore di fronte a
una playstation, salta la scuola, si rifiuta di aiutare i propri
genitori a casa o al lavoro, e aspetta solo che arrivi la sera per
ricominciare il giorno dopo a vivere esattamente nello stesso modo?
Cosa siamo capaci di trasmettere o insegnare ai nostri figli sul senso
della vita quando li lasciamo crescere così, giustificandoli magari
sempre e comunque, tanto sono ancora giovani?
Pare che
adesso i due adolescenti si siano resi conto di quello che hanno fatto.
Pare che, tornati progressivamente alla realtà, siano sconvolti,
esattamente come i genitori di uno di loro che parlano del figlio come
di un ragazzo come tanti: una storia «normale», una realtà «normale»,
una vita «normale». La madre non esita a difenderlo — ma anche questo
sembra «normale », è sua madre, non si smette mai di voler bene a un
figlio. Se lui è colpevole dovrà pagare, dichiara la donna, aggiungendo
però che, secondo lei, il figlio era sotto ricatto per una storia di
soldi: lui passava il tempo chiuso in camera sua a giocare alla
playstation, non sarebbe successo nulla se «ci fosse rimasto anche
quella notte».
In tutta questa “normalità”, sorge tuttavia il sospetto che, a forza di
capire e perdonare, i genitori non aiutino così tanto i propri figli a
crescere e ad assumersi la responsabilità dei propri gesti. Certo, un
genitore non può smettere di voler bene ai figli. Ma voler bene non
significa anche far prendere loro coscienza del fatto che la realtà è
irreversibile e che, quando si agisce,
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Insieme
con il trasferimento del reddito, si è però interrotto il canale di
trasmissione di molti altri beni dai padri ai figli. Di valori, per
esempio; di conoscenza storica, di credi religiosi, di senso comune,
perfino di lingua (si diffonde un italiano sempre più maccheronico). Si
è aperto un vuoto di tradizione, insomma; parola la cui etimologia
viene per l'appunto dal latino «tradere», trasmettere. I ragazzi vivono
così in un mondo in cui le cose che contano sono diverse da quelle che
contano per i genitori. Ma il guaio è che è il loro mondo a essere
quello ufficiale e riconosciuto, vezzeggiato e corteggiato, perché sono
loro i nuovi consumatori.
Al centro di questo mondo c'è una cultura del narcisismo, per usare
l'espressione resa celebre da Christopher Lasch. Lo spirito del tempo
ripete come un mantra slogan da tv del pomeriggio: «sii te stesso»,
«realizza tutti i tuoi sogni», «non farti condizionare da niente e
nessuno», «puoi avere tutto, se solo lo vuoi». Più di un'educazione
senti- mentale è un'educazione al sentimentalismo. Al culto del sé, del
successo facile, e del corpo come via al successo, sul modello dei
calciatori e delle stelline.
I genitori, anche i migliori, sono rimasti soli.
È finito il tempo in cui «i metodi educativi in famiglia non venivano
smentiti o condannati dal contesto», protesta Massimo Ammaniti ne Il
mestiere più difficile del mondo, il libro scritto con Paolo Conti e
pubblicato dal Corriere. Oggi invece la smentita è continua.
Nessun rifiuto, nessun limite, nessun «no» che venga detto in famiglia
trova una sua legittimazione nel mondo di fuori. Il fallimento
educativo che ne consegue è una delle cause, non una conseguenza, della
crisi italiana. Ne è una prova il fatto che a parlare del disagio
giovanile oggi siano chiamati solo gli psicologi e gli psicanalisti, e
non gli educatori: come se il problema fosse nella psiche
dell'individuo e non nella cultura della nostra società, come se la
risposta andasse cercata in Freud e non in Maria Montessori o in don
Bosco. È dunque perfino ovvio che l'epicentro di questo terremoto sia
la scuola. E che il conflitto più aspro con i nostri figli avvenga sul
loro rendimento scolastico.
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questo figlio che mostra di non saper sopportare la minima
frustrazione. Ma questo figlio è anche un nostro figlio:
la liberazione
da ogni senso di colpa viene infatti salutata dal neo-libertinismo del
nostro tempo come un principio irrinunciabile trascurando il fatto che
esso non è di per sé una malattia, ma il fondamento di ogni possibile
incorporazione soggettiva della Legge.
Se nelle società religiose l'ipertrofia sacrificale del senso di colpa
poteva dar luogo ad una vera e propria malattia psicologica — , nella
società attuale la sua estinzione prepara ad una dimensione predatoria
dei rapporti umani che sembra non trovare più argini. Senza esperienza
del senso di colpa non c'è, infatti, esperienza possibile della Legge.
Riconoscere la propria colpa è infatti il primo indispensabile passo
affinché la Legge possa iscriversi nel cuore dell'uomo.
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non basta un “clic” per tornare sui propri passi?
Credo sia un errore ignorare il fatto che, nel vuoto esistenziale di
tanti adolescenti, ci sia anche un vuoto di limiti e di regole: questo
si fa, questo non si fa, questo si dice, questo non si pensa nemmeno.
Forse è questa la lezione da trarre da tutta la vicenda: ripensare i
rapporti che esistono oggi tra giovani e adulti, e chiedersi se i veri
problemi ce li abbiano gli adolescenti — che sono certamente sempre più
incapaci di distinguere il mondo reale da quello virtuale; che sembrano
un po’ tutti alla ricerca di senso; che manifestano sempre più spesso
segni di malessere, facendo del male agli altri e a loro stessi —
oppure gli adulti — forse non più in grado di insegnare ai ragazzi che
la vita, in fondo, è il risultato delle scelte che si fanno giorno dopo
giorno. Il futuro non è vuoto per definizione. Lo si costruisce (e
riempie) quotidianamente. Con sforzi e sacrifici che a volte possono
sembrare inutili, ma che tante altre volte ci permettono di essere
fieri dei risultati raggiunti.
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Lo spaesamento è testimo niato dall'espressione che usiamo
correntemente nelle nostre conversa zioni: «Ciao, che fai?». «Sto
facendo fare i compi ti a mio figlio». «Far fare», un unicum della
lingua italiana, una costruzione verbale che si applica solo alla lotta
quotidiana con gli studi dei figli.
Bisognerebbe invece fare qualcosa. Ci vorrebbe una santa alleanza tra
genitori, insegnanti, media, intellettuali, idoli rock, stelle dello
sport, per riprendere come emergenza nazionale il tema dell'educazione,
e sottoporre a una critica di massa la cultura del narcisismo. Ma i
miei figli cantano, insieme con Fedez: «E ancora un'altra estate
arriverà/ e compreremo un altro esame all'università/ e poi un tuffo
nel mare / nazional popolare/ La voglia di cantare non ci passerà».
Antonio Polito
14 gennaio 2017
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Se
dei genitori non si accorgono di avere allevato un figlio con la morte
nel cuore vuol dire che non sanno fare il proprio mestiere di genitore.
Indubbiamente possiamo metter in campo che erano famiglie semplici e
poco acculturate, dedite a fare soldi oppure anche solo vivere
dignitosamente ma una famiglia non è un pollaio. Non voglio passare per
il lodatore dei bei tempi andati ma quelli della mia età hanno
trascorso gran parte del loro tempo dopo la scuola coi genitori. E dire
che ai nostri tempi la scuola durava poche ore al giorno, mentre adesso
i figli sono fuori casa per lunghissimi periodi ogni giorno e non
appena è possibile vengono rispediti di nuovo fuori per qualche
ragione «nobile». Così questi giovani sono dei polli in batteria
affidati sequenzialmente a degli insegnanti (magari che cambiano ogni
3x2...), a qualche allenatore sportivo, al baretto sotto casa, alla
piazzetta, alla rete.
Da un lato vengono messe in mezzo
le difficoltà o le necessità economiche dei genitori e dall'altro
questi ragazzi sono sostanzialmente figli di nessuno e se vogliono
sfilarsi da ogni obbligo, l'organizzazione che hanno attorno è fatta
apposta per raggiungere lo scopo. Ecco: quei due ragazzini
risponderanno del delitto che hanno commesso ma forse è caso che anche
i genitori vengano messi in mezzo. Loro e noi.
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