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Da Proust a Katy Perry, siamo fatti di parole
di Zygmunt Bauman
Che si tratti di Katy Perry o di Marcel Proust o Lacan che hanno
qualcosa di importante da dire sulle premesse inconsce della loro
consapevolezza — o di voi e di me; a prescindere da ciò che noi tutti e
ognuno di noi veda, pensi di vedere o creda di stare vedendo, e a
prescindere da qualsiasi nostro comportamento conseguente, ogni cosa è
sempre intessuta in un discorso. Di fatto, noi mangiamo discorsi,
beviamo discorsi, guardiamo discorsi. Il discorso è ciò di cui siamo
fatti. Ed è a causa del discorso e della sua intrinseca necessità di
dover guardare al di là dei confini che esso impone alla propria
libertà che il nostro stare-al-mondo è un processo di perpetuo divenire
— eterno e infinito. Il divenire insieme, il mescolarci, l'essere
intrinsecamente, inseparabilmente intrecciati e avvinti, condividendo i
nostri rispettivi successi e insuccessi, congiunti gli uni agli altri
nel bene e nel male, dal momento del nostro simultaneo concepimento
finché morte non ci separi...
Ciò che chiamiamo “realtà” quando cadiamo in uno stato d'animo
filosofico, o “dati di fatto” quando seguiamo le opinioni correnti,
sono entrambi intessuti di parole. Commentando nel suo libro Un
incontro la storia di un vecchio di Juan Goytisolo, Milan Kundera fa
notare che la biografia — qualsiasi biografia che tenti di essere ciò
che il suo nome suggerisce che debba essere — altro non è che una
logica artificiale, artefatta, imposta retroattivamente a una
successione poco precisa e incoerente di immagini, sovraccarica di
spezzoni di ricordi. Kundera conclude che, in netta contrapposizione
con gli assunti del buonsenso, il passato condivide col futuro
l'insanabile flagello dell'irrealtà. Eppure, proprio questa irrealtà è
l'unica realtà che dobbiamo afferrare e possedere, «vivendo nel
discorso come pesci nell'acqua». Questa realtà irreale, fin troppo
irreale, la chiamiamo “esperienza”. Ci sforziamo di penetrare
attraverso il muro fatto di parole. Paradossalmente, però, quel muro è
l'interpretazione.
L'interpretazione è sempre un atto di re-interpretazione; la
reinterpretazione è sempre una testa di ponte verso un'altra
reinterpretazione. Quella che chiamiamo a priori e anche a posteriori
“realtà” può arrivare a noi soltanto nell'involucro delle
pre-interpretazioni. Una realtà “cruda”, “pura” e “assoluta” — di fatto
non deformata — è un fantasma. Eppure utile, almeno finché sarà per noi
una sorta di stella di Betlemme che, sistematicamente irritata
dall'accecante imperfezione del linguaggio, ci indica comunque la
strada verso la perfezione linguistica e così, o almeno si spera, verso
la verità. La destinazione prescelta potrebbe essere irraggiungibile.
La sua visione, però, ci sprona, ci induce a metterci in cammino e a
continuare a camminare.
Testo tratto da In Praise of
Literature (“ Elogio della letteratura”), firmato da Bauman con
Riccardo Mazzeo, edito da Polity Press, e che uscirà in Italia da
Einaudi Traduzione di Anna Bissanti
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La civiltà nasce dalle paure che oggi il potere trasforma in merce politica
di Zygmunt Bauman
La paura è parte integrante della condizione umana. Potremo anche
riuscire a eliminare una a una la maggior parte delle minacce che
ingenerano paura (proprio a questo serviva secondo Freud la civiltà
come organizzazione delle cose umane: a limitare o a eliminare del
tutto le minacce dovute alla casualità della Natura, alla debolezza
fisica e all'inimicizia del prossimo): ma almeno finora le nostre
capacità sono ben lontane dal cancellare la «madre di tutte le paure»,
la «paura delle paure», quella paura ancestrale che deriva dalla
consapevolezza della nostra mortalità e dall'impossibilità di sfuggire
alla morte. Anche se oggi viviamo immersi in una «cultura della paura»,
la nostra consapevolezza che la morte sia inevitabile è il principale
motivo per cui esiste la cultura, prima fonte e motore di ogni e
qualsiasi cultura. Si può anzi concepire la cultura come sforzo
costante, perennemente incompleto e in linea di principio interminabile
per rendere vivibile una vita mortale. Oppure si può fare un ulteriore
passo avanti: è la nostra consapevolezza di essere mortali, e dunque la
nostra perenne paura di morire, a renderci umani e a rendere umano il
nostro modo di essere-nel-mondo.
La cultura è il sedimento del tentativo incessante di rendere possibile
vivere con la consapevolezza della mortalità . E se per puro caso
dovessimo diventare immortali, come qualche volta (stoltamente)
sogniamo, la cultura si fermerebbe di colpo, come hanno compreso sia
Joseph Cartaphilus di Smirne,l'infaticabile cercatore della Città degli
immortali ideato da Jorge Luis Borges, sia Daniel, l'eroe de La
possibilità di un'isola di Michel Houellebecq destinato a essere
clonato e riclonato all'infinito. Joseph Cartaphilus accerta di persona
che Omero, essendosi reso conto della propria immortalità, e sapendo
«che in un tempo infinito a ogni uomo accadono tutte le cose» e che
dunque per questa stessa ragione sarebbe «impossibile (...) non
comporre, almeno una volta, l' Odissea », è destinato a ritornare
troglodita. E Daniel comprende che una volta cancellata la prospettiva
della fine del tempo e assicurato il carattere infinito dell'esistenza,
«il solo fatto di esistere è già una sciagura» e la tentazione di
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rinunciare alla prerogativa della ulteriore clonazione andando verso
«un nulla semplice, una pura assenza di contenuto», diventa
irresistibile.
È stata proprio la consapevolezza di dover morire, della inevitabile
brevità del tempo, della possibilità o probabilità che le visioni
rimangano ir -realizzate, i progetti in -compiuti e le cose non fatte,
a spronare gli uomini ad agire e l'immaginazione umana a spiccare il
volo. È stata questa consapevolezza a rendere necessaria la creazione
culturale e a trasformare gli esseri umani in creature culturali. Fin
dai suoi albori, e per tutta la sua lunga storia, il motore della
cultura è stato la necessità di colmare l'abisso che separa il
transitorio dall'eterno, il finito dall'infinito, la vita mortale da
quella immortale; l'impulso a costruire un ponte per passare da una
parte all'altra del precipizio; l'istinto di consentire a noi mortali
di incidere durevolmente sull'eternità, lasciandovi un segno immortale
del nostro pur fugace passaggio.
Tutto ciò naturalmente non significa che le sorgenti della paura, il
luogo che essa occupa nell'esistenza e il punto focale delle reazioni
che evoca siano immutabili. Al contrario, ogni tipo di società e ogni
epoca storica hanno le proprie paure, specifiche di quel tempo e di
quella società. Se è incauto baloccarsi con la possibilità di un mondo
alternativo «senza paura», descrivere invece con precisione i tratti
distintivi della paura nella nostra epoca e nella nostra società è
condizione indispensabile alla chiarezza dei fini e al realismo delle
proposte.
I nostri progenitori quando avevano sete tracannavano la loro
dose quotidiana di acqua dai torrenti, dai fiumi, dai pozzi, persino
dalle pozzanghere... Noi acquistiamo in un negozio una bottiglia di
plastica sigillata piena d'acqua, la portiamo tutto il giorno con noi,
ovunque andiamo, e ogni tanto ne beviamo un sorso. È questo oggi a
«fare la differenza», la stessa differenza che intercorre tra le paure
contemporanee e quelle dei nostri antenati. In entrambi i casi, la
differenza è la commercializzazione. Come l'acqua, la paura è diventata
un prodotto di consumo ed è stata assoggettata alla logica e alle
regole del mercato. È stata poi trasformata in merce politica, in
valuta utile a condurre il gioco del potere. La quantità e l'intensità
della paura nelle società umane non rispecchiano più la gravità
oggettiva o l'imminenza del pericolo, ma l'abbondanza di offerte sul
mercato e l'intensità della promozione (o propaganda) commerciale.
( traduzione di Fabio Galimberti )
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