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Già
negli anni Settanta alla Normale di Pisa si studiava la complessità
abissale della sua opera e i rimandi a Whitman, Blake e Coleridge
Alla metà degli anni 70, alla Scuola Normale di Pisa, poteva accadere
che un austero assistente di filologia classica invitasse uno o due
studenti meritevoli a sedere compostamente nella Sala Musica, che
disponeva come non tutti allora di un impianto hi-fi, per ascoltare
fluire dal 33 giri il lungo, cangiante tessuto di strofe di Sad Eyed
Lady of the Lowlands, apprezzandone parola per parola l'oscurità da ode
pindarica.
I testi di Dylan erano pubblicati allora in uno spesso “paperback
poeti” Newton Compton dalla copertina morbida, spesso usurata per la
consultazione. Quei testi erano un thesaurus a sé, che andava
confrontato, studiato e anche interpretato, non senza difficoltà, in un
dibattito che ben prima dei tempi di internet attraversava i continenti
e portava a congetture esegetiche a volte maniacali, come ad esempio
quella sul significato (letterale o metaforico?) della “soglia” evocata
in Temporary Like Achilles. Già allora il corpus di Dylan era una
“scrittura” e ciò che provocava in noi denunciava la forza di un
classico. Nella distinzione crociana tra poesia e non poesia, nessuno
di noi allora era sfiorato dal dubbio che quella non fosse poesia. Era
poesia melica, destinata, cioè, ad essere cantata.
Analizzavamo i versi di Dylan non troppo diversamente da quelli di
Pindaro. Anche i greci dietro le loro poesie avevano la musica. Chissà
se nella fonetica degli antichi dialetti greci, nel vocalismo del
dorico o dello ionico, si avvertiva qualcosa di simile al vertiginoso
artificio della voce di Dylan, a quell'estenuarsi espressionistico
della parlata dell'ebreo del Minnesota nella cantilena del black
American, con le vocali che si allungavano e si stringevano in una
prosodia spiazzante, in una metrica stridula e singhiozzante di lunghe
e brevi che la musica sosteneva, ma non creava, perché a crearla era
una volontà poetica. Nella lirica monodica di Dylan, l'ebreo che
cantava come un nero e faceva risuonare insieme le grida dei ghetti in
fiamme e le sprezzature dell'upper class newyorchese, l'intera cultura
americana partecipava coralmente. Era la sintesi di molte memorie: la
cantilena del sud, dei lamenti degli schiavi, la voce ancestrale
dell'Africa, da cui dipende com'è noto la melodia di Blowin'in
the Wind; la tradizione dei folksinger militanti come l'amato Woody
Guthrie, dei bardi erranti, dei vagabondi che percorrevano il paese
dormendo sui treni e seminando le praterie di desolati blues; ma anche
le antiche radici letterarie europee, che fin dal nome d'arte, scelto
in omaggio a Dylan Thomas, riandavano al romanticismo di Poe,
all'imagismo di Pound, al flusso di coscienza di Joyce, a Eliot, a
Brecht e Weil, più volte citati, ma anche a Rimbaud e Verlaine,
entrambi esplicitamente menzionati, alla visionarietà mistica di
Whitman, che sfocerà in testi propriamente profetici come All Along the
Watchtower (ispirato a Isaia 21, 1-12), o misterici, come Isis. Dylan
era personalmente legato alla controcultura della beat generation, ma
il suo approccio alla rivoluzione psichedelica attingeva di prima mano
alle visioni dei grandi dionisiaci inglesi come Coleridge; e la
passione per Blake è confermata dall'incisione, insieme a Allen
Ginsberg, delle sue poesie musicate. In tutto questo, in quella che lui
stesso ha definito un'arte “storico- tradizionale”, Dylan ha riunito la
complessità abissale dell'America.
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È
non solo banale ma tautologico, e ciò nonostante vero, dire che in
Dylan l'Accademia di Svezia ha voluto premiare l'unione inestricabile
di cultura d'élite e di massa propria di una particolare America che
taceva dai tempi di Steinbeck: non solo il pacifismo, non solo il
ricordo dell'impegno politico degli anni del movement (più volte
rinnovato: pensiamo alla versione di Masters of War ispirata nel '91
alla Guerra del Golfo), ma una lunga esperienza di ricerca di
liberazione interiore e collettiva.
Il corpus di Dylan non è la colonna sonora del nostro tempo: i suoi
testi sono preghiera, poesia liturgica, una liturgia delle ore che
affiora nelle nostre vite e su cui almeno due generazioni,
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Il caffè per la mamma e la consapevolezza di proseguire il viaggio
di Davide Van De Sfroos
Un pomeriggio, entrò nella stanza con dei giornalini che il signor
Luciano mi prestava e con sorriso compiaciuto, perché Dario Fo le aveva
offerto un cappuccio. Dario Fo. Lo avevo visto qualche volta sulla
terrazza dove era ospite, nella villetta confinante con quella degli
zii. Non avevo capito bene chi fosse, ma raramente avevo incontrato
qualcuno così simile al proprio nome. Un sorriso perpetuo e un
dolcevita scuro di cotone, un mento che si ripeteva su sé stesso e che
metteva di buon umore e qualcosa di profondamente divertito nei
confronti di tutti e di tutto e forse della vita stessa. Nessun altro
avrebbe potuto essere Dario Fo. Se mi avessero detto disegnami un Dario
Fo, lo avrei fatto proprio così. Lo spiavo con curiosità: cercavo di
captare qualche frase dentro la sua voce piena di sfumature insolite,
studiavo la sua mimica facciale. Rimase una figura distante e
misteriosa, anche se lo incrociavo in continuazione. Finì la vacanza e
si tornò a casa. Negli anni a seguire, nei pochi canali tv a
disposizione, capitava qualche volta di vedere quell'uomo su un
palcoscenico, con la stessa maglietta e la stessa maschera di quando lo
vedevo leggere il giornale al bar. Gli dedicavo tutta la mia
attenzione, le prime volte perché era quello che aveva bevuto il caffè
con mia mamma, ma poi perché qualcosa di lui mi ipnotizzava e
soprattutto mi penetrava e mi tirava come un cavatappi. Non avevo mai
preso in considerazione il fatto che uno potesse stare lì, sotto i
riflettori con un pubblico davanti e senza nemmeno un costume di scena
e fare così: ridere, piangere, allungandosi e accorciandosi come una
gomma da masticare, cambiando il mondo contenuto nello sguardo e anche
quello circostante con un semplice tono di voce. Lo ascoltavo capendo
parzialmente i sentieri ideologici e senza tener conto delle sfumature
storiche, sociologiche o satiriche, ma comprendendo in pieno la forza
della libertà di espressione. Si poteva parlare in lingue non
convenzionali o addirittura in una mistura antropologica di esse? Si
poteva aprire un sorriso per lasciare entrare ed uscire qualsiasi
tematica, anche la più spietata come fosse il giullare sfuggito da un
sovrano distratto? Era possibile mettere in scena qualunque cosa, anche
quella che poteva sembrare la più scomoda e addirittura le vicende che
ti avevano sfregiato? Dario Fo mi regalò la consapevolezza di un
ipotesi che fino ad allora non avevo considerato e che si meritava un
Nobel. La risposta a queste domande ha continuato a soffiare nel vento,
facendo discutere e spingendo tante persone nel proprio viaggio. Certo,
«la risposta soffia nel vento», ha sempre cantato Dylan, ma proprio ora
che lo stesso premio di Dario Fo, il comitato Nobel lo ha assegnato a
lui...credo che per un istante possiamo sentire il vento cessare e la
risposta arrivare con la fragorosa risata dell'uomo con la maglietta
scura.
Davide Van De Sfroos
Il Corriere della Sera
16 ottobre 2016
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