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Mentre
mi avvio verso la casa di Ermanno Rea - giornalista,
scrittore, fotografo - cerco di farmi un'idea della sua
solidità narrativa. È uno sguardo, il suo, attratto dal reale. Da
quell'impasto di ideologia e concretezza di cui si compongono le sue
storie. C'è una forte componente napoletana e altrettanto forte è la
componente comunista in quest'uomo che nonostante le delusioni, i
rammarichi, le sconfitte non ha rinunciato a credere. Ci sediamo a un
tavolo. Dalla finestra si intravedono code di pellegrini e di turisti
che si muovono accaldate non lontane dalle colonne di San Pietro. Altre
fedi verrebbe da pensare. Da qualche tempo Rea si è lasciato crescere
la barba. Ha tratti del volto scolpiti. Dimostra meno dei suoi 88 anni.
Penso che la sua storia fatta di emarginazione e fedeltà sia un esempio
di come una certa sinistra italiana sia stata con dignità sconfitta,
amorevolmente soffocata dalle proprie stesse idee.
Che tipo di comunista sei stato?
"Mi aspettavo che mi chiedessi che tipo di scrittore sono".
Le due cose in te hanno lungamente convissuto.
"Sono stato un comunista di fronda. E uno scrittore irregolare".
Scusa di che anni parliamo?
"Degli anni Cinquanta. La mia passione politica era intrisa di
letteratura e di sogno di giustizia. Quando dico "fronda" intendo la
reazione allo stalinismo che in quegli anni vigeva ottusamente nel
partito. Non era facile prendere le distanze. I più critici tra noi
erano prigionieri di una coscienza divisa tra il bisogno di fedeltà ai
valori del proletariato e la condanna di un metodo politico a vocazione
autoritaria e illiberale. A volte mi sembrava di vivere dentro a un
carcere psicologico".
Non c'erano vie di uscita?
"Fino alla morte di Stalin nel 1953 no. Poi sembrò arrivare un vento di
rinnovamento. Fu un abbaglio. Fatto sta che dopo gli eventi accaduti in
Ungheria nel 1956 mi dimisi da redattore dell'Unità . Ero in crisi. Fu
allora che mi inventai il mestiere di fotografo con la Rolleiflex che
mi aveva regalato mio padre. Poi, nel 1957, abbandonai Napoli e andai a
Roma".
Quando dici "crisi" cosa intendi, cosa ti stava accadendo?
"Ero depresso, disorientato, annoiato. Sentivo la necessità di
sottrarmi all'abbraccio soffocante del partito, ma al tempo stesso
sapevo che mi sarebbe mancato. In che misura sarei stato in grado di
cavarmela da solo?".
Scegliesti Roma perché? "In
quel momento mi sembrava la città giusta. Non era molle, materna e
sinuosa come Napoli. Era un luogo di enormi potenzialità e di
immenso cinismo. Una bellezza crassa. Ridondante. A volte grottesca.
Dove qualunque frase che veniva pronunciata restava sospesa nell'aria.
Non sapevi se era una frottola o la verità. per un po' feci il
paparazzo.
Alla fine tornai al mestiere di giornalista".
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Mi risulta che la Macciocchi aveva molto innovato il parco firme. Reportage di Curzio Malaparte. Interventi di Pasolini.
"Era lo strato di cipria. Quando questa signora anni dopo scrisse un
librone di più di cinquecento pagine sulla Cina - su quel "paradiso"
che erano il maoismo e la rivoluzione culturale - non
potevi non cogliere l'aberrazione intellettuale, l'abbaglio ideologico,
la miseria politica ".
Dai una idea di un uomo irrisolto, irrequieto, contraddittorio, malmostoso.
"Non avevo più un baricentro. Non volevo fare il funzionario di partito
e, a quanto pare, neppure il giornalista, almeno a quelle condizioni
ideologiche. Avevo perfino provato a scrivere un romanzo e chi lo
lesse - senza alcuna benevolenza, ma secondo me con
sufficiente ragione - disse: "Lascia perdere, non dai
l'impressione di conoscere la vita. E scrivere vuol dire questo:
tuffarsi nella vita". Fu una tranvata. Una ferita al mio amor proprio.
Che dovevo fare?".
Che facesti?
"Sparii per un po'. Destinazione Berlino. Ripresi a occuparmi di
fotografia. Fotografai tutto quello che mi accadeva intorno. Era come
se, per la prima volta, mi stessi davvero tuffando nella vita".
E cosa vedevi?
"Una città spaccata in due. Ancora non era stato alzato il Muro. I bar
sembravano mense aziendali. I giovani spenti e le ragazze con il
sorriso rassegnato. Tutti bevevano birra senza un barlume di allegria.
La cosa che mi colpì maggiormente era la gente in strada.Sembrava che
non mi vedesse. Scattavo le mie foto a uomini e donne che
parevano ciechi. Era la parte Est. Squallida e insopportabilmente
noiosa. Fu la prima volta che percepii la durezza e la complessità del
reale. Tu mi chiedevi della mia irrequietezza?"
Sì.
"Non saprei risponderti. Non ho mai capito se sono un vero giramondo o uno stanziale. So che gli anni napole
tani hanno molto influito su di me".
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Di questo mondo hai scritto sia in "Mistero Napoletano" che ne "Il caso Piegari".
"È stato lo sfogo di una memoria che cercava di darsi delle coordinate.
Ma anche il bisogno di creare un vero respiro narrativo. Piegari mi
affascinò. La sua storia da un lato mostrava l'ottusità e fanatismo di
un partito che grazie a Giorgio Amendola ebbe la meglio. Fu vergognoso
come Piegari venne trattato. Insultato, delegittimato, definito pazzo.
Provincialismo e localismo ebbero la meglio. Piegari tornò alla sua
professione di medico. Si trasferì a Londra. Lontano dalle nostre beghe
e miserie ".
Un altro personaggio di quegli
anni - anche lui un meraviglioso sconfitto - fu
Renato Caccioppoli, il grande matematico. Non hai l'impressione che ci
fosse un bel concentrato di intelligenze sprecate?
"Ho voluto molto bene a Renato. Non so se l'aggettivo sprecato sia
corretto. La sua fu un'intelligenza spietata, umbratile,
conflittuale, dolorosa, vera. Non aveva nulla di gratuito. Né di
conformistico. Amava trasgredire e questo era considerato intollerabile
dai funzionarietti di partito".
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La tua infanzia come è stata?
"Sono un figlio della guerra. Ho visto crescere le macerie e
moltiplicarsi i morti. Mio padre, per metterci al riparo, decise di
vendere la sua piccola azienda di colori e vernici e di trasferirci da
Napoli in Toscana, sopra Arezzo. Acquistò una tenuta. Peccato che fosse
esattamente sulla Linea Gotica.
Cioè nel mezzo di uno scontro tra
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Che cosa è che ti colpisce della sparizione?
"È come se esplodesse un dolore dal profondo da cui avverti il senso
della tua stessa inutilità. Per amare il romanzo - ho scritto ne La
dismissione - devi riuscire a fare un inventario delle cose
perdute. Alla fine scrivere è solo questo. Inventariare ciò che non c'è
più".
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Il massimo della nostalgia.
"Sì e no. La verità è che stiamo rinnegando tutto. Tanto che un vecchio
di 88 anni come me si sente oggi spaesato. Cosa mi lega al passato? Più
nulla. I fili sono stati recisi".
Hai mai pensato di tornare a vivere a Napoli, riscoprire lì le radici?
"Ho vissuto qualche anno a Roma, poi per tredici anni a Milano e di
nuovo a Roma. Non credo che tornerei a vivere a Napoli. In questa
decisione c'è qualcosa di irrimediabile. C'è il disagio delle antiche
abitudini che sono state rinnegate. Ti dirò un'altra cosa: ho amato
molto mio padre e questo amore viscerale ha forse pesato in maniera
negativa. Sono figlio di una grande armonia familiare. E quando ho
incontrato la disarmonia mi sono trovato di colpo impreparato".
La politica e il partito furono la coperta sotto cui rifugiarsi.
"Una coperta un po' corta ma che ci ha tenuti al caldo ".
Non ti sembra un ossimoro essere napoletano e comunista?
"C'è un doppio pregiudizio in quel che dici: sul napoletano e sul
comunismo. L'idea che sia impensabile un comunismo allegro, umano,
garbato, perfino "leggero", fa il paio con l'idea che non possa
esistere in natura il napoletano silenzioso, ordinato, malinconico,
legalitario fino all'ossessione, eccetera. Il fatto è che certi luoghi
comuni sicuramente facilitano la vita, però non la spiegano ".
LE IMMAGINI DI QUESTA PAGINA.
Le foto in B&N sono di Ermanno Rea.
Quelle a colori sono tratte dalla rete e riguardano la vicenda della bonifica di Bagnoli
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fra tedeschi e Alleati che durò molto più a lungo della liberazione di Napoli".
Finita la guerra?
"Tornammo a Napoli. Qui era avvenuta la mia educazione sentimentale. Ma
il disagio ricominciò presto. Noi che avevamo una coscienza politica,
pensando che fosse il solo modo per affrontare il futuro, ci rendemmo
conto del piacere perverso di vivere le contraddizioni".
Spiegati meglio.
"Voglio dire che la nostra vita è stata un po' un incantamento attorno
alle contraddizioni. Vi era la gioia di scoprirle convinti che noi
eravamo gli agenti che le avrebbero superate. Non comprendevamo
- almeno io non comprendevo - che Napoli era una
città troppo posseduta dal passato. Questa scoperta la vissi in un
primo momento come un fascino immenso. Poi come un fardello. E per
liberarmene scelsi di abbandonare la città".
Per una decina di anni hai fatto
esclusivamente il fotografo. Hai, come si dice, girato il mondo. Poi
hai smesso. Definitivamente. Perché?
"Penso che in ogni fotografia ci sia un giudizio, un'emozione, qualcosa
di esemplare che si riferisce all'attimo che stai vivendo. Ho visitato
paesi e vissuto storie che mi hanno stregato. Sono andato incontro a
vicende che mi hanno deluso o spaventato; in altre ancora lo
smarrimento e la solitudine prendevano il sopravvento. Era vita vissuta
attraverso le immagini. A un certo punto ho pensato che quel percorso
fosse giunto al capolinea ".
Perché?
"Forse perché ho l'animo del disertore. Non riesco a combattere nello
stesso esercito troppo a lungo. Quando presi la decisione di mollare
tutto ero a Dublino. Era notte. Una notte umida e fredda. Risalii per
una strada deserta lungo il fiume Liffey. Cominciai a cantare a
squarciagola. Mi prenderanno per ubriaco, pensai. Ma non ero sbronzo.
Ero disperato. E per non piangere cantavo. Cantavo sentendo che la
solitudine mi stava massacrando e che non ce la facevo più. Ecco. Dal
mio animo saliva confusa questa esigenza di mollare tutto".
E lo facesti.
"La verità è che ero stanco di girare il mondo e annoiato dalla
fotografia. Poi dopo un po' ad Amburgo conobbi Annette, una tedesca che
era vissuta in Italia perché la madre era stata un'attrice dei telefoni
bianchi. Ci sposammo. Avemmo un figlio e alla fine ci toccò ammettere
che non eravamo fatti l'uno per l'altra".
Sei affascinato dalla fuga e dalla sparizione.
"Forse non è casuale che abbia scritto un libro su Federico Caffè.
Sento di appartenere a quel mondo di scomparsi. Gente che ha rinunciato
alla propria identità. Che ha cancellato le proprie tracce"
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In che modo?
"In una continua interrogazione. Un bisogno spasmodico di spaccare il
capello in quattro. C'era il mio mentore Renzo Lapiccirella e la sua
compagna Francesca Spada - di cui mi ero anche un po' invaghito -
Paolo Ricci, Gerardo Marotta e Gaetano Arfé. C'era Guido Piegari che
nel 1948 aveva dato vita al gruppo Gramsci".
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Caccioppoli
morì suicida come pure due anni dopo si suicidò Francesca Nobili
Strada. Hai quasi sempre raccontato storie di sconfitti. Ti ci
riconosci?
"La verità è che siamo tutti dei perdenti. E poi detesto coloro che
vincono. Tra questi ultimi ci sono troppi sopraffattori, mascalzoni,
corrotti. Le persone sensibili e gentili - magari dotati di
un'intelligenza fragile - sono quasi sempre destinati a
essere sopraffatte. Con chi mi dovrei schierare? Fin da piccolo ho
avuto questo bisogno di sentire che la giustizia era in qualche modo
rintracciabile. Che non tutto si svolgeva allo stesso modo e sotto lo
stesso segno".
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