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Che differenza c'é tra Mistero Buffo e Soccor so Rosso?
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Che tra duecento anni Mistero Buffo potrà essere rivisto, in ologramma
tridimensio nale, come un capolavoro fuori dal tempo: un classico, come
il Ruzante o Molière o Chaplin o Arlecchino o Keaton. Mentre Soccorso
rosso, tra duecento anni, sarà solo l'istantanea sfocata di un
invecchia tissimo, dimenticabile momento della storia italiana.
Alla notizia della sua morte la prima cosa che ho pensato — conoscendo il mio paese, i suoi umori e i suoi media —
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Ma
si può essere agitatori politici e artisti miserabili; e agitatori
politici e artisti grandi (allo stessissimo modo l'essere cittadini
moderati o conformisti o addirittura tartufi non ha impedito a molti
scrittori la grandezza letteraria: Manzoni, per rimanere nella Milano
di Fo, ci dice qualcosa; Piero Chiara, quasi compaesano di Fo, anche).
Radicalismo, provocazione, avanguardismo sono una potente benzina
dell'arte, anche se non la sola; ma nessuna benzina, comunque,
garantisce di arrivare alla meta, se non sai guidare. Ognuno di noi —
specie in quegli anni, ma anche questi non scherzano — ha conosciuto
moltitudini di giovanotti e giovanotte convinti che gridare “il potere
fa schifo” li promuovesse automaticamente all'arte. Con risultati
penosissimi.
Anche Fo pensava che il potere facesse schifo, lo ha pensato fino alla
fine, lo ha pensato quasi pavlovianamente, ed è per questo — per
continuare a sentirsi “fuori dal sistema”, dunque per lui al sicuro —
che negli ultimi anni gli piacevano i ragazzi di Casaleggio e Grillo,
che l'avevano ricambiato con entusiasmo, adottandolo come un nonno
illustre.
Ma sul palcoscenico è poi la maniera di dirlo, che il potere fa schifo,
a fare la differenza, a fare di Dario Fo Dario Fo. Sono l'acume, la
destrezza, la fantasia, la padronanza linguistica, la cultura, il
talento, lo studio. Il settarismo che può essere imputato al Fo
militante scompare di fronte all'universalità di molto suo teatro. La
sproporzione tra la classicità (conquistata da vivo!) della sua
maschera eloquente, del suo corpo scenico, e il gergo datatissimo di
qualche vecchio volantino, rende arduo decifrare il nesso — che pure
esiste, perché la persona è la stessa — tra il Fo di Soccorso rosso e
quello di Mistero buffo. Ovvero tra un radicalismo politico sconfitto e
un radicalismo artistico vittorioso, trionfante. Tra una rivoluzione
perduta, quella politica degli anni Settanta, e una rivoluzione
compiuta, quella del suo teatro.
Ci sarà tempo e modo per ragionarci sopra, su quel nesso, e decidere se
sia molto esile (come io credo) o più robusto e significativo. Ma
ragionarci, però. Non con la fretta delle tifoserie. Non con l'astio
dei reduci. E soprattutto partendo dal palcoscenico e non dal
volantino, così come si fa per qualunque artista: è l'opera che rimane,
l'opera che fa testo, il resto si dimentica, e quasi sempre è una
fortuna.
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La chiacchiera é la metrica della società. E' il rumore di fondo
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dell'umano. Che dice anche senza dire. Come un segnale di linea. Perché
al di là delle parole, significa che siamo sintonizzati, disponibili a
metterci in comunica -zione, a parlare e ad ascoltare. A far risuonare
l'altro dentro di noi e viceversa. Del resto è proprio questa l'origine
del verbo chiacchierare, da una radice clag che indica l'eco, il
riverbero del suono, il clamore, ma anche il richiamo di certi animali.
E in tutte le lingue occidentali suono e senso della parola sono più o
meno gli stessi.
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Che
è una vera e propria performance sociale, nel senso che mette in scena
la società stessa con le sue regole, le sue gerarchie, le sue manie, le
sue passioni, le sue proibizioni, convenienze, sconvenienze. In fondo
l'etichetta della chiacchiera da salotto, con i suoi turni di
conversazione, le tecniche del parlare e lasciar parlare, è una forma
di cooperazione-contrapposizione sociale fondata sul discorso. Sul
potere che ha la parola di creare realtà. Ecco perché, nelle
discussioni usa e getta, come negli incontri di stato, hanno tanta
importanza quelli che chiamiamo convenevoli. Consuetudini verbali che
servono a manifestare disponibilità, non a scambiare informazioni.
Infatti, le formule che si ripetono sono sempre le stesse, “come
stai?”, “a casa tutti bene?”, “che bello vederti!”, in un crescendo
sempre più formale, fino ad arrivare ai cosiddetti salamelecchi,
termine derivato dal saluto arabosala'm alaik, letteralmente “pace su
di te”, che indica i complimenti eccessivamente cerimoniosi, falsi,
affettati, adulatori.
Ci sono popoli logorroici, come i Jivaro, che sono indios
dell'Amazzonia celebri per il loro interminabile chiacchiericcio
cerimoniale.
Quando gli esponenti di villaggi diversi si fanno visita, passano ore e
ore a ripetere parole che non dicono nulla. Formule di cortesia che in
realtà hanno la funzione preziosa di mantenere le buone relazioni tra i
gruppi. Si chiamano ausha ausha e i più grandi esperti di questo
parlare a perdere sono italiani, come il missionario salesiano Siro
Pellizzaro e il linguista Maurizio Gnerre.
E adesso arriva una ricerca americana uscita sul Journal of
Experimental Psychology e ripresa nei giorni scorsi dal Wall Street
Journal a dirci che parlare del più e del meno con la barista,
l'edicolante o gli estranei che fanno la fila con noi, alza il nostro
tasso di benessere quotidiano. E ci salva da quell'autismo digitale in
cui siamo stati gettati dalla connessione permanente. Che ha
smaterializzato la chiacchiera, trasformando la conversazione in chat e
forum. Insomma passare dall'interazione face to face a quella face to
facebook fa male alla salute. Forse è una scoperta per gli
anglosassoni, ma non certo per noi italiani che abbiamo inventato il
bar sport e che della chiacchiera siamo campioni del mondo.
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è che il Fo artista avrebbe pagato un pesante pegno al Fo politico.
Facile profezia: un paio di quotidiani destra, la nostra povera
incurabile destra che spregia il culturame per conclamato inferiority
complex, hanno infierito sul cadavere (non rendendosi conto che anche
da cadavere la sua stazza rimane fuori misura per il loro piccolo
metro); il “Fatto” ha inteso spendere il suo nome monosillabo come uno
spiritoso bonus “last minute” per la sua campagna referendaria; molti
altri hanno scelto, come primissima forma di commiato, di rinfacciargli
le sua tante prese di posizione politiche, quasi tutte riconducibili —
le intelligenti e le meno — a un estremismo irriducibile, costante nel
tempo e molto generoso: si spesero assai, Fo e la Rame, dando colpi a
destra e a manca e ricevendone, come è noto, di terribili.
Intendiamoci, pochi artisti sono stati politici come Dario Fo. Era
politico il suo teatro, politici i suoi testi, politico il suo corpo di
attore che voleva farsi strumento del popolo indomito e ribelle; è
stato politico il suo iter televisivo (difatti censurato, non dovendosi
parlare, nell'Italia democristiana, di operai caduti dalle impalca
ture); iperpolitico il suo rapporto con il pubblico: negli anni
Settanta la Palazzina Liberty era al tempo stesso un teatro e una
animata, fumosa sede dell'estrema (estrema missima) sinistra
milanese, e molti degli spettacoli di Dario e Franca
avevano l'alea, e spesso l'andamento, dell'assemblea di compagni, con
comizio prima e dopo.
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Io??
Comportar mi bene?!! Da piccolo vedevo Tarzan andare in giro
nudo. Cenerentola arrivava a mezza notte. Pinocchio diceva bugie. Aladi
no era un ladro.
Batman guidava a 32O km/h. Bianca neve abitava in casa con 7 uomini.
Popeye fumava ed era tutto tatuato. E Pacman corre va in una sala buia
con musi ca elettro nica mangiando pillole che lo rende vano
accellerato.
Troppo tardi!
La colpa non é mia ma della mia infanzia...
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Istruire lo spazio del non fare cosi come si Istruisce lo spirito del fare.
Considerare
la non organizzazione come un principio vitale grazie al quale ogni
organizzazione si lascia attraversare dal lampi della vita
Avvicinarsi alla realtà con stupore
Considerare la mescolanza planetaria, propria del terzo paesaggio, come un motore dell'evoluzione.
Insegnare i motori dell' evoluzione come si insegnano le lingue, le scienze, le arti...
Considerare la dimensione planetaria
Presentare II Terzo Paesaggio non come un bene.patrimonlale, ma come uno spazio comune del futuro
Conservare o far crescere la diversità attraverso pratiche consentite di non organizzazione
Disegnare un' organizzazione del territorio per maglie larghe e permeabili
Creare tante porte quante ne servono alia comunicazione tra 1 frammenti
Facilitare II riconoscimento del terzo paesaggio alla scala abituale dello sguardo. Imparare a nominare gli esseri.
Pensare 1 limiti come uno spessore e non come un tratto
Pensare al margine come a un territorio di ricerca sulle ricchezze che nascono dall' incontro di ambienti differenti
Elevare l'Improduttività fino a conferirle l'autorità politica
Valorizzare la crescita e lo sviluppo biologici, in opposizione a crescita e sviluppo economici
Proteggere I siti toccati da credenze come un territorio indispensabile per l'errare dello spirito...
Non aspettare: osservare ogni giorno.
E allora?
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L'inglese
chat, il francese chouchoter, lo spagnolo charlar, il tedesco plappern,
ma anche i nostri ciarlare, cianciare, il veneto ciacolare, il
siciliano cicaliari, con riferimento al verso della cicala, il
napoletano pipitiare a quello della gallina. Ecco perché chiacchierare
fa sentire meno soli. Nel bene ma anche nel male. Perché la chiacchiera
è anche pettegolezzo, diceria, controllo sociale. O gossip, discendente
diretto della calunnia, della voce e della maldicenza. Il termine
deriva dall'inglese god sib, letteralmente “madrina”, e allude dunque
alle chiacchiere tra comari. Esattamente come il francese
commérage e lo spagnolo comadreo. O l'italiano fare comarella.
Un'altra etimologia non certa ma in compenso molto bella fa derivare
invece il termine da God says, che significa “Dio dice”. Attribuendo
così al Signore la prova della veridicità del
chiacchiericcio. Come dire vox populi, vox dei.
Ci sono società che del pourparler hanno fatto addirittura una cultura.
Come gli Inglesi, che hanno trasformato la small talk sul tempo nella
materia prima della loro arte della conversazione.
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