NUMERO 219 - TURCHIA: LA DEMOCRAZIA DISPOTICA






















































La rapida e drammatica involuzione della Turchia verso il dispotismo della maggioranza ci sveglia dal sonno dogmatico che alcuni decenni di egemonia democratica e occidentalista hanno facilitato, facendoci dimenticare che i governi fondati sul consenso non sono necessariamenti buoni. La volontà della maggioranza, anche quando radicata nella cultura nazionale, non è per questo amica dei diritti dei singoli di religione, di parola, di idee, di associazione, di insegnamento. Le resistenze dei liberali nei confronti della democrazia, se e quando questa è semplicemente governo del consenso, sono più che giustificate.
Anche le democrazie costituzionali possono presentare insopportabili pulsioni verso l'intolleranza. La moderazione ha successo se e quando la costituzione è più di un documento scritto, l'ethos che innerva il comportamento dei magistrati, dei rappresentanti politici e dei cittadini. Per attecchire come sistema di libertà, la democrazia deve poter contare su una società culturalmente aperta alle ragioni dei singoli e con una tradizione religiosa che accetti che la legge civile non sia omologata ai propri comandamenti. La debolezza dei tentativi democratici nei paesi islamici ci dice che ogni governo fondato sul consenso va giudicato non dal punto di vista dell'ampiezza del consenso ma della libertà con la quale quel consenso si forma, viene espresso e contestato.
Le primavere arabe sono cadute sulla debolezza del governo della legge, che ha seguito questo tragico destino: o è diventata preda del potere religioso mediante la conquista della maggioranza parlamentare, oppure, per ostacolare o reprimere questo esito, è stata presa della forza militare. Forza della massa e forza repressiva marcano la debolezza della legge civile, e quindi della democrazia costituzionale, nei paesi islamici. Si tratta di una debolezza di laicità, cioè della cultura della separazione tra poteri e della pratica di limitazione del potere, qualunque esso sia. La degenerazione del governo basato sul consenso verso forme illiberali è connaturata a questa debolezza.
La laicità viene spesso identificata, sbagliando, con il secolarismo. Essa però non è un “ismo” o un'ideologia, ma la condizione stessa dello stato della legge e del diritto perché un'attitudine dell'autorità civile (lo Stato) verso le pratiche religiose con lo scopo di renderle capaci di convivere pacificamente con altre pratiche di natura non religiosa e di altre religioni. Laicità è un modo di organizzare la coesistenza delle libertà plurali, di far convivere persone diverse e con culture diverse. Richiede per questo l'emancipazione del diritto dalla volontà e cultura della maggioranza, la distinzione tra diritto e morale, tra opinione su quel che è equamente giusto e quel che è assolutamente bene. Rispetto delle persone, delle loro credenze e della libertà di praticare la religione o lo stile di vita che esse scelgono: questo è laicità, condizione di una società aperta, plurale e liberale che rende la democrazia un buon governo.
Come si intuisce, la laicità è una conquista, non un punto di partenza. Per crescere deve potersi appoggiare alla sovranità della legge dello Stato, condizione essenziale per la formazione di ordini liberali e costituzionali. Ricordiamo l'insegnamento del Leviatano di Thomas Hobbes: si può ottenere sicurezza o pace sociale

pace sociale anche senza un regime liberale e costituzionale di divisione e limitazione del potere. Ma è evidente che governi limitati possono evolvere solo una volta che la legge dello Stato abbia consolidato il suo potere su tutti i suoi sudditi e le fonti normative. È questo il paradigma che ha guidato la Turchia di Mustafa Kemal Atatürk (il “padre dei turchi”, secondo il significato di “Atatürk”, ovvero il fondatore della Repubblica turca nel 1923). Atatürk diede origine allo Stato nazionale turco dopo la dissoluzione dell'Impero Turco- Ottomano, che era multietnico e multireligioso. Egli fu alla testa di uno Stato con una religione dominante che resisteva alla sua sovranità.
Lo Stato turco adottò una strategia di depressione della democrazia per tenere sotto controlla la religione -mise in evidenza il nesso



«Che diritto ha l'Unione Europea a porre il veto su qualcosa che vuole democraticamente il popolo?», si è chiesto il presidente turco due giorni fa. Erdogan è stato in effetti eletto nel 2014 con il 52 per cento dei consensi dal 76 per cento degli aventi diritto. L'elezione parlamentare del 2015 ha confermato il successo del suo partito, anche se non nei termini da lui sperati. Ha ora i poteri che gli attribuisce la Costituzione turca del 1982, più volte modificata, in particolare con i referendum del 2007 e del 2010. Si tratta di poteri molto estesi, che vanno dalla proclamazione della legge marziale e dello stato di emergenza (su decisione del Consiglio dei ministri) alla nomina dei presidenti delle università.
Ma basta parlare in nome del popolo perché ci sia democrazia?

Questo perché non solo le economie, ma anche la stabilità, la pace, l'ordine, la sicurezza di ogni nazione è strettamente interdipendente con quelle di altre nazioni e Stati, come i recenti atti di terrorismo dimostrano. Un acuto studioso americano ha chiamato questa horizontal accountability , spiegando che i governi nazionali non debbono rendere conto soltanto ai popoli che li hanno eletti, ma anche agli altri popoli, e ai governi che li rappresentano, perché hanno un comune interesse all'ordinato svolgimento della politica negli altri Stati. Solo una concezione errata della democrazia può far pensare che, se un popolo vuole instaurare una dittatura, la comunità internazionale deve assistere in silenzio. E che i diritti conferiti dal voto popolare a una maggioranza possano esprimersi anche in compressione dei diritti delle minoranze.
Il presidente turco non sta violando solo il diritto comune a veder rispettata la democrazia, ma anche i diritti umani e le libertà fondamentali dei cittadini del suo Paese. Anche questo non è solo un affare interno della Turchia. È una violazione non soltanto del diritto turco e della relativa Costituzione, ma anche dei principi più generali ai quali fanno riferimento la dichiarazione Onu del 2000 e molti trattati internazionali. Le repressioni in massa, la privazione della libertà personale, la revoca di autorizzazioni all'insegnamento, il licenziamento di dipendenti pubblici e in particolare di giudici, sono avvenuti senza regolari processi, con possibilità di contraddittorio, in pubblico, dinanzi a giudici imparziali. Vanno quindi condannati dalla comunità internazionale, a cui il presidente turco deve rispondere.
Tutto questo vale a maggior ragione per l'Unione Europea, non solo perché questa è una comunità fondata sul diritto, ma anche perché lo Stato turco ha dal 1963 un trattato di associazione con l'Unione, ha posto la sua candidatura per entrare a farne parte nel 1987, e dal 2004 ha iniziato i negoziati, cercando di dare prova di possedere i requisiti per l'adesione.
La ragion di Stato, dettata agli Stati Uniti dall'impor tanza militare strategica della Turchia e all'Unione Europea dall'accordo del marzo 2016 sull'emigrazione, porterà l'uno e l'altra ad attenuare le pressioni che possono esercitare sul nuovo corso della politica turca. Ma questo non deve attenuare l'interesse dell'intera comunità internazionale a veder rispettati democrazia e giustizia in Turchia. Anche da questo dipende la nostra pace .










































































































































































































Il mondo si è interrogato da più di un secolo sulla portata dei principi di autodeterminazione dei popoli, di sovranità popolare e di non interferenza nelle questioni interne di altre nazioni: questi comportano che i governanti, una volta eletti, rispondano solo al popolo?
La risposta data fin dalla Seconda guerra mondiale è che ogni governo deve rispondere anche agli altri Paesi e alla comunità internazionale. Non a caso



















































tra democratizzazione e ismalizzazione. Atatürk fu il padre della sovranità assoluta dello Stato e, sulle orme di Hobbes, mise la religione dentro e sotto la sua potestà. Secolarizzò lo Stato per riuscire ad affermare l'autorità della legge civile su quella religiosa. La storia politica della Turchia moderna è documento vivo delle contraddizioni che possono nascere dal connubio tra stato-nazionale e sua trasformazione democratica in paesi dove l'aspetto “nazionale” è essenzialmente identificato con la tradizione religiosa che, a sua volta, cerca e vuole il controllo dello Stato. L'arte della separazione tra politica e religione è riuscita ad Atatürk a patto di impedire la democratizzazione piena e quindi l'ingresso dell'opinione della maggioranza nel potere dello Stato. Il processo in corso dopo il fallito tentativo di colpo di stato sembra dare ragione a quel vecchio progetto — o secolarismo di Stato o una radicale confessionalizzazione. In entrambi i casi è la democrazia liberale a non aver ossigeno.

Nadia Urbinati



























































































la solenne dichiarazione del Millennio dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite prevede un impegno collettivo non solo a promuovere la democrazia, ma anche ad appoggiarne il consolidamento .



Sabino Cassese