La
rapida e drammatica involuzione della Turchia verso il dispotismo della
maggioranza ci sveglia dal sonno dogmatico che alcuni decenni di
egemonia democratica e occidentalista hanno facilitato, facendoci
dimenticare che i governi fondati sul consenso non sono necessariamenti
buoni. La volontà della maggioranza, anche quando radicata nella
cultura nazionale, non è per questo amica dei diritti dei singoli di
religione, di parola, di idee, di associazione, di insegnamento. Le
resistenze dei liberali nei confronti della democrazia, se e quando
questa è semplicemente governo del consenso, sono più che giustificate.
Anche le democrazie costituzionali possono presentare insopportabili
pulsioni verso l'intolleranza. La moderazione ha successo se e quando
la costituzione è più di un documento scritto, l'ethos che innerva il
comportamento dei magistrati, dei rappresentanti politici e dei
cittadini. Per attecchire come sistema di libertà, la democrazia deve
poter contare su una società culturalmente aperta alle ragioni dei
singoli e con una tradizione religiosa che accetti che la legge civile
non sia omologata ai propri comandamenti. La debolezza dei tentativi
democratici nei paesi islamici ci dice che ogni governo fondato sul
consenso va giudicato non dal punto di vista dell'ampiezza del consenso
ma della libertà con la quale quel consenso si forma, viene espresso e
contestato.
Le primavere arabe sono cadute sulla debolezza del governo della legge,
che ha seguito questo tragico destino: o è diventata preda del potere
religioso mediante la conquista della maggioranza parlamentare, oppure,
per ostacolare o reprimere questo esito, è stata presa della forza
militare. Forza della massa e forza repressiva marcano la debolezza
della legge civile, e quindi della democrazia costituzionale, nei paesi
islamici. Si tratta di una debolezza di laicità, cioè della cultura
della separazione tra poteri e della pratica di limitazione del potere,
qualunque esso sia. La degenerazione del governo basato sul consenso
verso forme illiberali è connaturata a questa debolezza.
La laicità viene spesso identificata, sbagliando, con il secolarismo.
Essa però non è un “ismo” o un'ideologia, ma la condizione stessa dello
stato della legge e del diritto perché un'attitudine dell'autorità
civile (lo Stato) verso le pratiche religiose con lo scopo di renderle
capaci di convivere pacificamente con altre pratiche di natura non
religiosa e di altre religioni. Laicità è un modo di organizzare la
coesistenza delle libertà plurali, di far convivere persone diverse e
con culture diverse. Richiede per questo l'emancipazione del diritto
dalla volontà e cultura della maggioranza, la distinzione tra diritto e
morale, tra opinione su quel che è equamente giusto e quel che è
assolutamente bene. Rispetto delle persone, delle loro credenze e della
libertà di praticare la religione o lo stile di vita che esse scelgono:
questo è laicità, condizione di una società aperta, plurale e liberale
che rende la democrazia un buon governo.
Come si intuisce, la laicità è una conquista, non un punto di partenza.
Per crescere deve potersi appoggiare alla sovranità della legge dello
Stato, condizione essenziale per la formazione di ordini liberali e
costituzionali. Ricordiamo l'insegnamento del Leviatano di Thomas
Hobbes: si può ottenere sicurezza o pace sociale
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pace
sociale anche senza un regime liberale e costituzionale di divisione e
limitazione del potere. Ma è evidente che governi limitati possono
evolvere solo una volta che la legge dello Stato abbia consolidato il
suo potere su tutti i suoi sudditi e le fonti normative. È questo il
paradigma che ha guidato la Turchia di Mustafa Kemal Atatürk (il “padre
dei turchi”, secondo il significato di “Atatürk”, ovvero il fondatore
della Repubblica turca nel 1923). Atatürk diede origine allo Stato
nazionale turco dopo la dissoluzione dell'Impero Turco- Ottomano, che
era multietnico e multireligioso. Egli fu alla testa di uno Stato con
una religione dominante che resisteva alla sua sovranità.
Lo Stato turco adottò una strategia di depressione della democrazia per
tenere sotto controlla la religione -mise in evidenza il nesso
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«Che
diritto ha l'Unione Europea a porre il veto su qualcosa che vuole
democraticamente il popolo?», si è chiesto il presidente turco due
giorni fa. Erdogan è stato in effetti eletto nel 2014 con il 52 per
cento dei consensi dal 76 per cento degli aventi diritto. L'elezione
parlamentare del 2015 ha confermato il successo del suo partito, anche
se non nei termini da lui sperati. Ha ora i poteri che gli attribuisce
la Costituzione turca del 1982, più volte modificata, in particolare
con i referendum del 2007 e del 2010. Si tratta di poteri molto estesi,
che vanno dalla proclamazione della legge marziale e dello stato di
emergenza (su decisione del Consiglio dei ministri) alla nomina dei
presidenti delle università.
Ma basta parlare in nome del popolo perché ci sia democrazia?
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Questo perché non solo le economie, ma anche la stabilità, la pace,
l'ordine, la sicurezza di ogni nazione è strettamente interdipendente
con quelle di altre nazioni e Stati, come i recenti atti di terrorismo
dimostrano. Un acuto studioso americano ha chiamato questa horizontal
accountability , spiegando che i governi nazionali non debbono rendere
conto soltanto ai popoli che li hanno eletti, ma
anche agli altri popoli, e ai governi che li rappresentano, perché
hanno un comune interesse all'ordinato svolgimento della politica negli
altri Stati. Solo una concezione errata della democrazia può far
pensare che, se un popolo vuole instaurare una dittatura, la comunità
internazionale deve assistere in silenzio. E che i diritti conferiti
dal voto popolare a una maggioranza possano esprimersi anche in
compressione dei diritti delle minoranze.
Il presidente turco non sta violando solo il diritto comune a veder
rispettata la democrazia, ma anche i diritti umani e le libertà
fondamentali dei cittadini del suo Paese. Anche questo non è solo un
affare interno della Turchia. È una violazione non soltanto del diritto
turco e della relativa Costituzione, ma anche dei principi più generali
ai quali fanno riferimento la dichiarazione Onu del 2000 e molti
trattati internazionali. Le repressioni in massa, la privazione della
libertà personale, la revoca di autorizzazioni all'insegnamento, il
licenziamento di dipendenti pubblici e in particolare di giudici, sono
avvenuti senza regolari processi, con possibilità di contraddittorio,
in pubblico, dinanzi a giudici imparziali. Vanno quindi condannati
dalla comunità internazionale, a cui il presidente turco deve
rispondere.
Tutto questo vale a maggior ragione per l'Unione Europea, non solo
perché questa è una comunità fondata sul diritto, ma anche perché lo
Stato turco ha dal 1963 un trattato di associazione con l'Unione, ha
posto la sua candidatura per entrare a farne parte nel 1987, e dal 2004
ha iniziato i negoziati, cercando di dare prova di possedere i
requisiti per l'adesione.
La ragion di Stato, dettata agli Stati Uniti dall'impor tanza militare
strategica della Turchia e all'Unione Europea dall'accordo del marzo
2016 sull'emigrazione, porterà l'uno e l'altra ad attenuare le
pressioni che possono esercitare sul nuovo corso della politica turca.
Ma questo non deve attenuare l'interesse dell'intera comunità
internazionale a veder rispettati democrazia e giustizia in Turchia.
Anche da questo dipende la nostra pace . |