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NUMERO 217 - SE NON SON MATTI NON LI VOGLIAMO
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Parto con un fatto
personale che, essendo in gran parte pubblico, non svela granche di
nuovo. Trentun’anni or sono mentre ero fermo a un semaforo in attesa
del verde, due rapinatori in fuga si schiantarono contro la mia
auto cambiando completamente la mia vita. Erano due bravi
ragazzi, operai di una cartiera, più giovani del sottoscritto, di poco
meno di trent’anni, noti ai CC soltanto per qualche ciucca all’osteria
e successive scazzottature. Usciti di galera dopo tre anni, vennero di
nuovo catturati e imputati dell’ammazzamento di una coppia di
anzianissimi ma assolti al processo per quella che una volta era
l’insufficenza di prove. Tornarono a rapinare la prima banca
stavolta... dopo essersi dipinti il volto di un fondotinta tanto che
vennero scambiati per degli extracomunitari. Peccato che l’auto
della rapina, portava indelebili i segni del camuffamento. Un altro
pacchetto di 3-4 anni in via Gleno. Liberati uno si dileguò all’estero
e l’altro iniziò una vita sballata con lavoretti casuali onde evitare
gli artigli dell’assicurazione.
La loro vita è finita con uno ammazzato su un’isola dei Caraibi e
l’altro da una moltitudine di neoplasie. A parte l’essere stati
entrambi orfani di padre in giovane età, avevano entrambi la fortuna di
lavorare in uno stabilimento del proprio paese nell’alta Valbrembana,
piuttosto che essere costretti a fare i muratori in pianura o nel
milanese.
La lunga malattia mi costrinse a diverse visite presso l’ASL di via
Galliccioli. Nel passare -a piedi con tanto di bastoni canadesi e
generosa ingessatura agli arti- venni rapinato tre volte nel Piazzale
dell’Alpino dai soliti drogherì che vi stazionavano perennemente e
quando andavo dalla PS a presentare la denuncia (non tanto per i soldi
ma per i documenti di identità) alla terza volta sono stato anche
rimbrottato «ma perché passa sempre di li?!» come se avessi il potere
di cambiare il percorso del bus.
Comprendo benissimo che mi è accaduta una disgrazia non comune e quindi
abbia elaborato il lutto conseguente, però gran parte di noi vive al
mondo senza tenere conto che «altrove» c’è il male. Che ci aspetta
inatteso spesso fino alla morte. E questa cosa l’ho compresa un giorno
quando, essendo arrivato sul luogo di un grave incidente auto con
alcuni corpi ammazzati e sbrindellati sparsi per la strada, ho preso
l’iniziativa di ordinare a dei muratori su un camioncino di coprire i
cadaveri con del cellophane che avevano a bordo, muovendomi come un
esperto della protezione civile o del 118.
La tragedia subita e il tempo mi hanno impresso la convinzione che
«siamo qui per caso» e che basta uno stolto o un delinquente per
cambiarci la vita o togliercela del tutto.
Noi 68ttini abbiamo attraversato gli anni del terrorismo in tutte le
sue fasi. Già viaggiavamo negli anni in cui l’OAS compiva atroci
attentati nella Francia. Va detto subito che in quegli anni i morti
ammazzati si contavano (quasi) ogni giorno ed anche allora il tentativo
di inquadrare quegli assassini e quegli assassinii lo si leggeva
molto violento sulle pagine dei quotidiani attraversati dalle lezioni
moraleggianti dei o contro i cattivi maestri.
Erdogan ha alle spalle almeno un migliaio di morti nei primi sei mesi
dell'anno nella sua patria: eppure nessuno si mobilita come se morire
da turco conti meno che morire italiani o jap in Francia.
I nostri governi, nemmeno troppo imbarazzati, fanno affari con
delinquenti di mezzo mondo: vedi l'Arabia Saudita principale
finanziatore dell'ISIS.
Che oggi si chiamano «al Baghdadi» e chi altro. Perché oggi il mondo
non è fatto dalle mille piccole patrie in cui ci siamo cullati
finoieri. Non ci rendiamo conto del portato libertario che abbiamo
consegnato alle generazioni più giovani e future: con un clic
acquistano un biglietto e domani partono per 6000km distanti dalla
nostra piccola patria. Noi a 18 anni andavamo a fare i naturisti in
Sardegna (senza preservativi...) oppure impiccavamo la scuola per
andare alla Rinascente o alla Fiera di Milano. Oggi trovi in Città Alta
due minorenni di Barcellona o Varsavi che hanno impiccato la scuola e
con un volo low cost sono approdati stamattina al Caravaggio e
ripartiranno stasera per casina. E (sicuramente) i loro genitori non
sanno nemmeno di avere due figli a... Bergamo.
Assieme a questa libertà, che va difesa a spada tratta esattamente come
va difeso a spada tratta il diritto di filmare il mondo anche quando
c’è un episodio di terrorismo, c’è il suo corrispondente rischio.
Noi, i nostri figli e nipoti e amici abbiamo introiettato come normale
girare il mondo perché ci sentiamo cittadini di quello ma
dovremmo anche sapere che altri cittadini si ispirano ad altri modelli
che contrastano col nostro. per molte ragioni: alcune giuste altre
inammissibili.
Adesso noi dobbiamo convincere il mondo che il nostro modello di vita
laica e tollerante non è solo il possesso dei cellulari o il volo low
cost ma porta con se DUE valori: la libertà e la democrazia, che sono i
motori della vita e del futuro. Facciamo quindi una riflessione se per
esempio la nostra bassa natalità, oltre essere un indotto della
povertà, non significhi anche un deficit di credo nella democrazia e
nella libertà. Cioè un dare ragione a quei criminali di qualunque
ragione.
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Psicopatico
o terrorista? Come se si dovesse scegliere. Come se i terroristi non
fossero tutti, sempre, degli psicopatici. Come se i macelllai nazisti
degli anni 20 e 30, le squadre dei reparti
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d'assalto hitleriani che davano la caccia a democratici ed ebrei, come
se le brutali SS preposte all'educazione ideologica delle masse
tedesche non fossero mai state altro che crudeli psicopatici, più o
meno gallonati.
Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l'autore della strage che ha falciato, al
momento in cui scrivo, 84 vite, era un terrorista ed era uno
psicopatico. Era instabile, disturbato mentalmente, ed era membro
dell'esercito del crimine che ha esteso l'appello del Daesh (sinonimo
spregiativo di Isis, ndt )di di «utilizzare» (sono i termini esatti
della sua rivista di propaganda) un camion «come un tagliaerba » e di
andare «nei luoghi più affollati» «alla massima velocità, pur
mantenendo il controllo del veicolo» per «massimizzare la carneficina»,
e di «prevedere delle armi da fuoco» per finire i superstiti, una volta
che «il camion è bloccato». Nessuna contraddizione. Il doppio volto
delle barbarie.
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Quindi,
se quel legame è sempre vivido, essenziale e costitutivo, se il
jihadismo è, dalle sue origini, ovvero dai Fratelli musulmani, una
forma specifica ed esplicita di nazismo, tale legame, quello con la
fede, può essere tranquillamente più allentato e porsi come rinforzo —
e di fatto lo è, nella misura in cui ci si allontana dal nucleo
teologico politico per entrare nella vasta periferia nebulosa in cui si
attivano gli ultimi barbarorum —. Mohamed Lahouaiej Bouhlel ne era la
prova. Era l'immagine di un Daesh che sta per conoscere, speriamo, il
limite della sua estensione, smarrendo, come è giusto che sia, la
distinzione delle sue parole d'ordine.
Se la Francia è nel mirino non c'è nessun perché
Infine, perché Nizza? Perché la Francia? E che «sbaglio» abbiamo fatto per ritrovarci,
ancora una volta, sotto tiro? Altra falsa domanda. Lo stesso tipo di
falsa domanda. Con delle risposte assurde, come sempre quando si parte
da una domanda sbagliata (il mito delle «rappresaglie» presumibilmente
volte a punire l'intervento militare in Siria, successivamente, e non
precedentemente, agli attacchi contro Charlie Hebdo e l'Hyper Cacher) e
il dibattito che sa di sottomissione (dimentichiamoci le nostre leggi
sul velo, smussiamo la nostra laicità
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Il lupo non è solitario ma di massa e «uberizzato»
La questione del lupo solitario. Quel ripetere continuamente, fino alla
nausea, come per rassicurarsi, che, «allo stato attuale delle nostre
informazioni» quell'uomo era solo, sconosciuto al battaglione dei
soggetti «schedati con la lettera S» (potenziali terroristi, ndt ),
senza legami evidenti con il Daesh. Come se il punto fosse questo. Come
se il Daesh non fosse, appunto, il contrario di un'organizzazione a cui
si sarebbe, più o meno evidentemente, affiliati. E come se la
peculiarità del suo modo di funzionare non fosse proprio il fatto di
non avere bisogno, per operare, di comitati centrali che distribuiscono
ordini, responsabilità, obiettivi. Il Daesh è il califfato più Twitter.
È l'uberizzazione (neologismo francese per lavoro temporaneo
simboleggiato dall'azienda Uber, ndt ) di un terrorismo prossimale e di
massa. È l'influenza senza contatto, attraverso il contagio e la
suggestione fulminea. Stadio supremo del nichilismo, forse arrivato al
capolinea della sua folle corsa. Si può essere soldati del nuovo
esercito senza essere mai stati reclutati, né addestrati, né avvicinati.
Le rivendicazioni non contano. Inutile attenderle con ansia
La rivendicazione. Con quanta ansia è stata attesa, questa famosa,
presunta rivendicazione, fino a quando è pervenuta per firmare il
crimine! E con quale eccitazione è stata accolta! E poi si sono
sprecati i dibattiti bizantini sulla sua formulazione, la sua
tempistica e il fatto che il comitato invisibile abbia avuto bisogno,
questa volta, di 30 ore e non più 24! La verità è che tutto ciò,
ripeto, non ha alcuna importanza. Non ne aveva già dai tempi delle
Brigate rosse a cui capitava di non rivendicare le loro stragi o di
rivendicare, al contrario, quando conveniva loro, quelle perpetrate
dalle organizzazioni rivali. A maggior ragione il Daesh. A maggior
ragione questa nebulosa di gangster senza codice né onore che non hanno
alcuna ragione di essere ragionevolmente collocati nei casi previsti
dai nostri esperti. A volte, l'effetto del terrore avvalora tali
rivendicazioni (anche quando sono assolutamente infondate). A volte il
terrore è maggiore quando lascia i superstiti nella perplessità e nel
dubbio (e c'è da ridere, a Mosul, per l'ingenuità dei nostri
daeshologhi nel fare l'esegesi di comunicati raffazzonati). L'islamismo
è opportunismo. Sotto l'ombrello del radicalismo, il bricolage di una
retorica senza fede né legge.
Beveva birra e niente moschea. Era così, perché stupirsi?
Cosa? Un islamico che non frequentava la moschea? Che non faceva il
Ramadan? Che ballava la salsa? Che beveva la birra? Proprio così.
Perché l'islamismo, in effetti, non è una religione ma una politica.
Più precisamente, una versione dell'Islam, che è innanzi utto una
variante di quella forma generica di politica chiamata, da un secolo,
fascismo.
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cerchiamo
un compromesso...). Il jihadismo colpisce ovunque, è questa la verità.
Ha solo l'imbarazzo della scelta degli obiettivi, e li sceglie, anche
in questo caso, secondo una logica di pura opportunità. Un giorno
Orlando; un altro la Tunisia o il Bangladesh; un altro ancora, se lo
ritiene opportuno, Bruxelles, Istanbul o, appunto, Nizza. A tale
dispersione di bersagli colpiti alla cieca non bisogna attribuire più
senso di quanto ne abbia. Soprattutto, non bisogna fare al Jihad il
regalo di una — non so quale — mente, che programma le offensive come
se giocasse a scacchi . La forza di questa gente sono le nostre
debolezze. E questa tentazione di sovra-interpretare, di vedere
dappertutto dei segni sottili, di attribuire a queste anime aride una
dignità logica che non hanno è, appunto, un'altra nostra debolezza.
Bernard-Henri Lévy
( Traduzione di Ettore C. Iannelli )
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