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NUMERO 214 -PAGINA 1- LA STRAGE DI DACCA
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Appena ho sentito al Tg la notizia della strage ho subito
pensato alla puntata di Presa Diretta del 17 marzo 2016 sul Made in Italy.
Anche perchè la localizzazione geografica del Bangladesh e della sua storia
remota e recente non é mio pane quotidiano. Quindi...
Per essere un integralista che quando vuole acquistare qualcosa osserva con
attenzione le etichette per comperare il meno possibile (anzi: nulla se
possibile ) di NON italiano mi ha sempre colpito riflettere sul fatto che
la maggioranza di noi sostanzialmente é abbigliata e fa uso di oggetti che sono
prodotti altrove, a spese dell'ambiente e con dietro un elevatissimo
sfruttamento della manodopera locale.
Anche tutto quel che serve a realizzare questa pagina blog viene dall'Oriente.
Purtroppo.
Ovviamente la morte delle persone non mi lascia indifferente
(perchè allora sui nostri media gli oltre 200 morti e 300 feriti di
Bagdad sono passati all'ultimo posto? forse perchè non c'era un
italiano di mezzo?) ma l'aspetto che
più mi scoccia di questa vicenda sono l'ipocrisia (di un po' tutti:
dalla
persona semplice al presidente), la retorica (degli italiani che
stanno
in tutto il mondo a creare benessere ricchezza e volontariato) e il
razzismo
malamente celato: il dimenticare che la popolazione del Bangladesh è
sostanzialmente
schiava in un sistema di sfruttamento imperialista.
Le nostre aziende hanno abbandonato l’Italia per paesi con
minori costi di energia, tasse, personale, ambiente. I disoccupati vanno in
piazza a protestare questa delocalizzazione
con le scarpe malesi, le braghe e
le mutande indonesiane, la maglietta
bangadlese e il cellulare cinese. Sconvolgente.
La TV ci ha mostrato tutto il peggio dell’italiano medio in
questa tragedia, mescolando tutti gli ingredienti per cui non si comprende più l’alfa e l’omega
della situazione.
Mi interrogavo sulla reazione che avrebbe avuto il
bergamasco medio (che è poi uguale all’italiano medio) che sbevazza la TV
nostrana davanti a questa notizia: "Quattro chierichetti di Valbondione sono
penetrati questa sera nella Marianna ed hanno massacrato 40 clienti del locale.
Si sono salvati solo quelli che, richiesti dai terroristi, erano in grado di
recitare i brani del Vangelo. Gli stranieri che non conoscevano il Vangelo sono
stati trucidati sul posto in quanto infedeli".
Minimo minimo il bravo bergamasco medio sarebbe balzato dalla sedia
e avrebbe chiamato i carabinieri. Cambiando l’ordine dei fattori questo è il
massacro di Dacca in salsa catto-leghista-fascista con ampie venature piddine e
penstastellate. Cioè la maggioranza degli italiani che s’abbeverano alle notizie dello schermo … aggratis ovviamente.
E’ un po’ dura immaginare dei giovani del Bangladesh che professino
la religione cristiana come è altrettanto dura immaginare dei bravi bergamaschi
che praticano l’islam in una delle sue cento versioni provinciali (perché l’islam ha moltissime declinazioni geografiche
piuttosto che le due religiose).
Rifiuto l’idea di un “noi e loro”, di uno scontro di “due
civiltà” che in realtà è lo scontro tra due idee religiose. Presentare questa
ennesima strage con una radice religiosa
( e quindi uno scontro tra due religioni che avrebbero generato due “civiltà”) è
come sostenere derivare dal colore della pelle: noi bianchi siamo cristiani e
loro neri sono musulmani. Noi bergamaschi se fossimo nati in Medio Estremo Oriente saremmo in massima
parte musulmani. E viceversa.
Abbiamo fatto e facciamo una fatica durissima per
diventare essere mantenerci laicamente liberi e rispettosi
dell’uomo.
Chi uccide per un nesso religioso e chi si divide per la religione non
ci
piace. Non è esattamente il modo di stare la mondo che condividiamo.
Perché poi,
da qui, nasce l’idea che io possa avere le braghe firmate fabbricate da
uno
schiavo nero e musulmano e tu muslmano debba fabbricarmi le mie braghe
accontentandoti di pochi euro al mese per 400 ore di lavoro.
Prima che da Dio e Maometto la civiltà passa dalla libertà di potere essere uomo.
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Nei
commenti alla strage di Dhaka, costata la vita a 20 persone – 9
italiani, 7 giapponesi, 2 bangladesi, uno statunitense e un indiano –
sembra si sia volutamente taciuta la situazione sociale in cui si è
sviluppata l'azione del commando terrorista.
L'attività svolta in Bangladesh dalle vittime, non solo quelle italiane
– quasi tutti manager o dipendenti di imprese tessili – rimanda
mentalmente al posto occupato dal paese nella divisione mondiale del
lavoro: centro tra i più frequentati dalle multinazionali tessili e
dell'abbigliamento in cui delocalizzare le proprie produzioni,
utilizzando a proprio vantaggio il supersfruttamento con cui le ditte
locali estraggono plusvalore (assoluto e relativo: orari di lavoro
infiniti e briciole di salario) da quella che è l'unica strada di
sopravvivenza per uomini, bambini
e donne bangladesi. |
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Nonostante
la maggior parte della sua popolazione sia molto povera, il Bangladesh
non è un paese povero… La causa di tanta povertà non è ovviamente la
mancanza, bensì il controllo delle risorse.
Il 16% dei proprietari terrieri controlla il 60% di tutta la terra,
coltivata per poi esportare cibo verso i cosiddetti paesi sviluppati. I
proprietari terrieri sono alleati in una casta al servizio di compagnie
straniere del settore agricolo che dirigono lo sfruttamento della
terra: ciò che si produce, come si produce e come si distribuisce…
Questa oligarchia agricola è alleata con altri interessi domestici, a
loro volta legati a compagnie straniere che producono in Bangladesh a
costi bassissimi.
La popolazione che fugge la miseria agricola accetta dei salari miserrimi perché non c'è altra possibilità.
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con un
mercato da 20 miliardi di dollari all'anno, l'industria tessile
bangladese nel 2012 ha garantito l'80% delle esportazioni del paese,
delle quali ancora un buon 80% verso l'Unione Europea”. Germania, Gran
Bretagna, Spagna, Italia sono infatti tra i paesi europei di cui un
maggior numero di industrie tessili e di abbigliamento operano in
Bangladesh. “Manodopera a basso costo significa anche terribili
condizioni di lavoro e sicurezza a rischio”, indipendentemente
dal prezzo finale di vendita della produzione, “firmata” o meno:
“secondo i registri di spedizione, scrive il Wall Street Journal,
Armani nel 2012 ha ricevuto quasi 10 tonnellate di magliette e
biancheria intima realizzate in una fabbrica di Chittagong”.
“Una medesima t-shirt prodotta in Bangladesh per la marca G-Star Raw in
un negozio di Londra costa 60 sterline”, scrive ancora post.it; “una
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Un
dato
significativo riportato dalla CIA è quello del lavoro minorile,
riferito ai bambini tra i 5 e i 14 anni di età: al 2006 i piccoli
schiavi erano poco meno di 5 milioni (13% di tale fascia di età): anche
se è difficile accogliere il dato a occhi chiusi, dal momento che da
tale “graduatoria” mancano quasi tutti i paesi cosiddetti sviluppati e
per l'Europa, ad esempio, vi figurano soltanto l'Albania (12%) e
l'Ucraina (7%)Ma le preoccupazioni della CIA si esprimono soprattutto a
proposito della distribuzione della popolazione secondo l'età.
Con una popolazione infantile in Bangladesh da 0 a 14 anni che
rappresenta il 31.62% del totale (circa 54 milioni) e quella tra i 15 e
i 24 anni il 18.86% (circa 32 milioni), a fronte del 6,12% di
popolazione tra i 55 e i 64 anni e 5.13% oltre i 65 anni, gli
“analisti” yankee sostengono che, in generale “La struttura per età
della popolazione influisce sui principali
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problemi socio-economici di una nazione. I paesi con popolazioni
giovani (alta percentuale sotto i 15 anni) devono investire di più
nelle scuole, mentre i paesi con popolazione più anziana (elevata
percentuale sopra i 65 anni) devono investire di più nel settore della
sanità. La struttura per età può anche essere usata per prevedere
potenziali problemi politici.
Ad esempio, la rapida crescita di una popolazione giovane adulta
in grado di trovare un lavoro può portare a disordini”. Problemi
questi, che sembrano restare abbastanza lontani dal Bangladesh: i
giovani e giovanissimi, se riescono a superare lo scoglio scosceso
della sopravvivenza, non necessitano di scuole e lavorano nelle
“galere” del capitale occidentale e locale e gli anziani lasciano
presto questa terra, con un'aspettativa di vita di 70,94 anni che
posiziona il Bangladesh al 151° posto mondiale.
Per quanto riguarda più specificamente l'infanzia, i dati del 2011
davano il Bangladesh al poco invidiabile 5° posto mondiale per
percentuale (36,8%) di bambini sotto i 5 anni considerati sottopeso.
Riguardo il grado di diseguaglianza
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“una
della italiana Replay 35 sterline; una di Tommy Hilfiger quasi 40
dollari. Marchi come Tommy Hilfiger, Calvin Klein o Giorgio Armani
hanno un prezzo più alto perché il marchio ha una reputazione che fa la
differenza, afferma Ralston Fernandez, vice-presidente senior per le
operazioni di “ZXY Apparel Buying Solutions”, società bangladese che si
occupa di piazzare gli ordini dei rivenditori alle fabbriche locali.
Secondo Mohammad Zulficar Ali, direttore esecutivo di una società che
si occupa di curare i rapporti tra fabbriche produttrici e grandi
marchi, il costo di produzione di una t-shirt di Primark sarebbe
l'equivalente di 1,20 euro, 3,80 euro per una di Tommy Hilfiger e 4,60
dollari per una di G-Star Raw. Secondo i proprietari tessili
bangladesi, i margini di profitto tendono a essere gli stessi
indipendentemente dal cliente, e tutti tendono ugualmente ad abbassare
i costi di produzione”.
E lo fanno, sia tenendo i salari al di sotto del minimo di
sopravvivenza, sia estendendo gli orari di lavoro oltre ogni
limite.Ancora 2 anni fa il salario minimo era stimato tra i 29 e i 37
euro al mese, contro una media di 200 euro in Cina
Il
sito lindro.it scriveva nel 2012 della manager di un'azienda cinese di
abbigliamento, secondo la quale“le fabbriche cinesi non sono più
competitive come un tempo, a causa degli incrementi continui dei salari
degli operai”, arrivati a 400-500$ contro un salario medio |
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nella
distribuzione del reddito familiare – secondo l'indice usato dalla CIA,
più alta è la disuguaglianza, più l'indice si avvicina a 100, e
viceversa – il Bangladesh si situava nel 2010 al 111° posto nel mondo,
con un indice di 32,1. Vale a dire, apparentemente, in una posizione
molto migliore di quella degli USA, ad esempio, che occupavano la 44°
posizione, con un indice 45. Anche se tale misurazione rimane
approssimativa, perché non ci dà né i valori assoluti delle disparità
nazionali, né le percentuali di popolazione più povera e più ricca e
quale parte del reddito nazionale vada ad appannaggio degli estremi, è
significativo che, ad esempio, tra i paesi europei, la Germania fosse
scesa da un indice 30 nel 1994 a 27 nel 2006, mentre l'Italia sia
salita dal 27,3 del 1995 al 31,9 nel 2012.
Guardando di sfuggita ai dati più freddi della situazione economica,
che però possono essere indicativi del grado di sfruttamento del lavoro
operato dalle élite “compradore” locali e dalle multinazionali estere,
la CIA classifica il Bangladesh al 25° posto mondiale per tasso di
crescita reale del PIL (6,40%) e al 63° posto per volume di
esportazioni, valutate in 29.930.000.000 $, con il settore
dell'abbigliamento (quasi totalmente destinato all'export) che
rappresenta il 75% delle esportazioni nazionali. Il tasso di crescita
annua della produzione industriale nel 2015 era del 9,40%, che
posiziona il paese al 10° posto mondiale; un debito estero pari a 24,47
miliardi $, con circa 30 miliardi $ di export e 38,2 miliardi $ di
importazioni e un totale di investimenti di imprese straniere di 134
milioni $, accanto a un PIL procapite di 3.600 $ che gli valgono il
179° posto mondiale.
Un paese semicoloniale insomma, la cui borghesia riesce a fare affari
d'oro, d'accordo con il capitale straniero, estorcendo lavoro non
pagato, nel senso letterale del termine, dalla pelle di milioni di
schiavi.
*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore e della redazione di Contropiano.
Fabrizio Poggi/Contropiano.
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LE IMMAGINI
Le immagini provengono ovviamente dal web.
1 -immagine dell'interno di una microfabbrica;
2 - fiori sul luogo dell'eccidio;
3 - 4 il pianto dei famigliari delle vittime;
5 - 6 sono l'etichetta di una maglietta fabbricata in Bangladesh e
importata da una azienda napoletana con sede in via Caracciolo,
via tra le più snob della Napoli lungomare.
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L'ultima
volta che i media nostrani si erano occupati un po' più diffusamente
del Bangladesh – la cui industria dell'abbigliamento è valutata in 18
miliardi di $; il paese esporta anche pellami per milioni di dollari in
settanta paesi, tra cui Italia, Stati Uniti, Giappone e Cina – prima
della tragedia di Dhaka del 2 luglio, era stato nell'aprile del 2013,
allorché il crollo di un edificio di otto piani che ospitava varie
imprese tessili sempre a Dhaka, causò la morte di oltre 1.130
lavoratori.
La situazione, da allora, è cambiata di pochissimo, salvo forse il
tentativo dell'Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro),
l'agenzia dell'Onu che si occupa di sicurezza sul lavoro, di
coinvolgere le centinaia di imprese straniere che producono in
Bangladesh a spendere pochi centesimi di euro in alcuni accorgimenti
strutturali negli ambienti di lavoro: uscite di sicurezza e
antincendio, luci di emergenza, impianti elettrici a norma, ecc., per
una spesa valutata in tre miliardi di $: cioè, considerato il volume
della produzione, 8 centesimi in più per ogni capo. In quell'occasione,
nel 2013, significativamente il Wall Street Journal aveva titolato
“Cosa hanno in comune Armani, Ralph Lauren e Hugo Boss? Il Bangladesh”;
e anche, si potrebbe aggiungere, lo stesso pugno di borghesia locale
con cui fare affari sulla pelle dei “loro” operai, sia per la
cosiddetta alta moda, che per quella degli indumenti meno costosi come
H&M, Zara, Walmart.
Parlando del Bangladesh, non è sufficiente dire che è uno dei paesi più
poveri al mondo e non basta neanche ricordare che tale povertà si
esprime in un “prezzo della manodopera” tra i più bassi del pianeta, il
che ovviamente alletta i capitali (soprattutto stranieri) sempre alla
ricerca – ci si scusi la reiterazione dell'evidenza marxista – del
massimo profitto, con condizioni di lavoro semischiavistiche. Sul sito
vnavarro.org si può leggere che “il maggior problema del Bangladesh (il
paese più povero al mondo assieme ad Haiti) non è la mancanza di
risorse, ma il loro controllo. |
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mensile in Bangladesh “per gli operai del settore abbigliamento tra i 70 ed i 100” $.
Dunque, “gli imprenditori cinesi del settore abbigliamento affermano
che se loro si rifornissero in Bangladesh, i prezzi potrebbero
facilmente scendere in un colpo solo del 10-15%”.
Ma, pur con tali salari, che attirano il massiccio trasferimento di
imprese straniere, specialmente tessili, il Bangladesh ha una forte
emigrazione di lavoratori, soprattutto verso paesi del Medio Oriente e
dell'Asia sudorientale (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti,
Oman, Qatar e Malesia) le cui rimesse, pari a 10,9 miliardi di $ nel
2015, rappresentano oltre il 10% del PIL nazionale.
Per orientarsi un po' nella situazione interna del paese, non é privo di interesse dare un'occhiata ai rapporti
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Questa
struttura economico-politica mantiene la maggior parte dei lavoratori,
in tutti i settori dell'economia incluso il tessile, senza alcuna
protezione. Il settore tessile è controllato dai grandi colossi che
dominano il mercato internazionale come, tra i tanti, Benetton, H&M
e Mango, e da una lunga lista di catene internazionali di distribuzione
e commercio, come per esempio El Corte Inglés. Queste compagnie operano
in Bangladesh grazie al bassissimo costo della manodopera (0,21 euro
l'ora), che lavora in condizioni miserabili, in fabbriche carenti dei
requisiti minimi di sicurezza”.
Già
tre anni fa, post.it scriveva che “la disponibilità di manodopera a
basso costo ha reso il Bangladesh il secondoproduttore di indumenti al
mondo dopo la Cina:
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di chi,
da sempre, fa di mestiere quello di mettere occhi e mani nelle cose
altrui. Secondo la CIA, il Bangladesh è il 7° paese al mondo per numero
assoluto di occupati: circa 82 milioni su una popolazione di poco meno
di 169 milioni (luglio 2015), con una disoccupazione ufficiale al 4,9%,
che lo piazza al 50° posto mondiale, dietro la Germania (4,8%), ma
davanti a USA (5,2%) e molto sopra l'Italia, con il 12,2% stimato dalla
CIA.
Il 47% dei lavoratori è occupato in agricoltura, il 13% nell'industria
e il 40% nei servizi, in una situazione in cui l'agricoltura
rappresenta il 16% dell'economia, l'industria il 30.4% e i servizi il
53.6% e con circa il 40% di popolazione, sottolinea la CIA,
“sottoccupata; molte persone sono occupate solo poche ore a settimana e
a bassi salari” e il 31,5% di popolazione (dati 2010) oltre la soglia
di povertà.
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http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-32d3b3be-421e-4164-af7b-d75aac92e530.html
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