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NUMERO 213 - PAGINA 1 -LA BREXIT COME LOTTA DI CLASSE
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giornata di giovedì 23 giugno 2016 verrà ricordata negli anni come una
data storica. Non, ovviamente, nell'accezione del leader dell'UKIP
Nigel Farage, che l'ha prontamente proclamata “Independence Day”, ma
per la sua portata e per gli interrogativi che pone dopo un'attenta
analisi del voto.
Incrociando i redditi medi per contea, l'appartenenza sociale media
(sì, nel Regno Unito c'è una classificazione della popolazione per
“classi sociali”) e le percentuali “Leave” e “Remain” emerge in modo
netto che la cosidetta working class ha votato in massa per laBRexit.
ll voto di questo strato sociale (ormai più working poor che working
class) è stato un voto di paura, di preoccupazione per il futuro, di
frustrazione e rabbia per le condizioni di avanzata povertà nelle quali
versano milioni di inglesi.
Un dato su tutti, l'esplosione del numero di senza tetto, quadruplicati nella sola
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cato del lavoro che ha aperto la strada a una rapida e diffusa precarizzazione della forza lavoro attraverso i mini-jobs.
Il tutto recentemente condito da ulteriori tagli alla spesa pubblica,
mentre si approvavano politiche fiscali molto generose per i grandi
capitali e le corporations e il salvataggio plurimiliardario delle
banche nel 2008, il più dispendioso in tutto lo spazio europeo.
Questi sono gli ultimi 30 anni delle politiche economiche anglosassoni: è il neoliberismo, baby!
Così l'Inghilterra è diventato il paese più diseguale d'Europa, il più
classista, con una mobilità sociale vicina allo zero. Se nasci dalla
parte sbagliata, devi sperare di vincere all'Euromillion. Questa rigida
stratificazione sociale, altamente correlata al livello di istruzione
raggiunto (più che nel resto d'Europa), affiancata dalla retorica
dell'opportunità e della meritocrazia, ha condotto ad una diffusa
colpevolizzazione (ed auto-colpevolizzazione) di chi non
"riesce ad arrivare" in alto.
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Non é
un caso che l'anno scoriso i media inglesi abbiano dato ampio spazio al
braccio di ferro Bruxelles-Atene: in alcuni casi in chiave anti-UE tout
court. Così è stato facile per Farage e Johnson estendere le
responsabilità dell'Unione Europea anche alla situazione britannica,
imputando le misere condizioni di vita di un'ampia fetta della società
inglese alle politiche di Bruxelles e, soprattutto, incutendo timore
per un futuro ancora targato UE.
Decisivo, nella riuscita di questa campagna, il ruolo giocato da Corbyn
e Cameron. Il primo, proveniente dal socialismo euroscettico inglese
degli anni '80, non si è esposto fino in fondo per il “Remain”, conscio
della pancia anti-UE di quello che una volta era l'elettorato storico
del partito laburista.
Il suo motto “Stronger In” non ha avuto molto seguito (seppure il 60%
degli elettori del Labour abbia votato per la permanenza nell'UE).
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Nessuno
dei leader dei due più grandi schieramenti britannici ha
inoltre avuto il coraggio di dire che il Regno Unito, essendo fuori
dall'Euro, non doveva soddisfare gli stessi rigidi parametri che devono
invece essere rispettati nell'Eurozona o che il Regno Unito versa meno
della metà dei contributi che vengono invece richiesti a paesi dalle
dimensioni comparabili (Italia e Francia). In fondo, questa campagna
referendaria ha mostrato quanto la società inglese sia convintamente
euroscettica.
Si voleva indietro la propria sovranità: we have to take back the
control of our country! Che cosa, poi, significhi sovranità al tempo
dell'economia globale, non è chiaro, ma è evidente il rimando alla
grandezza imperiale, un immaginario forte che rischia di avere seguito
fra chi ha meno.
Non è un caso che Farage abbia parlato di restituire centralità al Commonwealth.
La questione migratoria e il razzismo latente
La partita più importante si è tuttavia giocata sul terreno
dell'immigrazione. L'assist, anche qui, è stato di Cameron (un errore
dopo l'altro…) che attraverso la trattativa con l'UE per fermare i
“turisti dei benefit”, ha direttamente identificato questi ultimi come
la radice di tutti i mali dell'economia britannica.
L' “ondata migratoria” proveniente dall'Est Europa diventata
comunitaria è stata, infatti, da una parte il capro espiatorio per la
caduta dei salari e il per il peggioramento delle condizioni di lavoro,
mentre dall'altra è stata ritenuta responsabile dell'implosione dello
stato sociale, fra erogazione di sussidi e prestazioni sanitarie.
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Last but not least, in questo referendum è stato possibile effettuare
un voto di chiara ispirazione razzista senza però votare un partito
apertamente xenofobo come l'Ukip di Farage.
Per chi conosce l'ipocrita società inglese, pronta a riempire le strade
di fronte a Pegida o l'EDL e a allo stesso tempo a rinchiudere i
migranti in ghetti e a sottopagare la loro manodopera, non è un fattore
del tutto secondario, soprattutto per parti di società che costituiscono storicamente i serbatoi di voti laburisti.
Contro la middle class, la City e Londra
Inutile nascondere che questo voto in favore della BRexit da parte
della cosiddetta working class è in parte anche un voto populista
contro le élites, di cui gli euroburocrats fanno parte, ma non in
solitudine.
Nel paese dove i leader dei due maggiori partiti erano schierati per il “Remain”, questo è stato un voto contro la casta.
Tuttavia, c'erano anche altri bersagli da colpire col voto BRexit: la
highly educated middle class, schierata in maggioranza per il “Remain”,
ma soprattutto Londra, ampiamente schierata per la permanenza nell'UE e
dove il “Remain” ha vinto con il 60% dei voti. Londra, e in particolare
la City, rappresenta il simbolo delle trasformazioni del sistema
produttivo britannico: dal fordismo alla finanza creativa che ha
drenato la ricchezza dal basso verso l'alto a una velocità sempre
maggiore.
Una trasformazione profonda anche delle relazioni sociali,
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Manchester in 5 anni e con un'elevata percentuale di giovanissimi, spesso teenager. I tagli alla spesa sociale e ai benefits
hanno avuto un impatto devastante. Da questo punto di vista, quindi, è
stato un voto per riconquistare voce e visibilità da parte di chi
compare sui giornali solo quando si tratta di dipingere i beneficiari
di sussidi come dei parassiti.
È stato anche un voto contro gli euroburocrats, che, “non eletti da
nessuno” (il bersaglio preferito è, come sempre in questi casi, la
Commissione Europea), danno pagelle e comandano i sudditi di Sua
Maestà: che vergogna per il fu Impero Britannico!
Ed è stato anche un voto di vendetta: vendetta contro la middle class
laureata, sempre più distante e inaccessibile alla working class (e non
solo per le 9.000 £ di tassa di iscrizione annuale agli atenei, ma
piuttosto a causa di un sistema sociale rigido ed escludente), e contro
Londra e la City, ardita sostenitrice del "Remain". Da questo punto di
vista il voto BRexit della fetta più povera della società inglese
potrebbe quindi essere visto come una vendetta di classe. Infine, un
voto che fa emergere un razzismo, latente e non, sempre più forte in
Gran Bretagna.
Ma andiamo per punti.
L'impoverimento, l'esclusione sociale e l'Unione Europea.
Se si prende in esame l'Inghilterra e si tolgono i voti di Londra dal
conteggio, il quadro che emerge è molto più nitido e chiaro: il “Leave”
vince con oltre dieci punti percentuali di vantaggio, 55,3% a 44,7%.
Un voto che proviene principalmente dall'Inghilterra profonda, rurale e
povera, la cui principale occupazione è l'agricoltura, e che fino a
giovedì sopravviveva, ironia della sorte, grazie a ingenti sovvenzioni
UE provenienti dalla PAC (Politica Agricola Comune, che pesa circa il
40% sull'intero budget UE).
Tuttavia sarebbe fuorviante attribuire un eccessivo peso al divario fra
il voto nelle metropoli e quello nei piccoli centri. Molti boroughs
periferici di grandi città che hanno votato a favore della permanenza
nell'Unione Europea, come Londra e Liverpool, hanno invece votato in
massa per BRexit. Così come hanno votato in prevalenza per il “Leave”
città di medie dimensioni come Birmingham e Sheffield che hanno
sofferto in modo rilevante la de-industrializzazione del paese iniziata
negli anni '80.
Tutte parti del paese – l'Inghilterra rurale, le periferie e le grandi
città del carbone e dell'acciaio – che negli ultimi 20 anni hanno
subito un ulteriore impoverimento dettato dal cambio di paradigma di
accumulazione della ricchezza: dal fordismo all'ingegneria finanziaria
e allo smantellamento dello stato sociale, iniziato dalla Thatcher ma
proseguito con zelo da chi l'ha seguita, New Labour in testa.
Politiche governative fondate sulle privatizzazioni dei servizi
pubblici e delle infrastrutture (emblematico il caso delle ferrovie,
ripubblicizzate dopo diversi incidenti gravi); sullo smantellamento
progressivo del sistema sanitario nazionale (NHS); sull'introduzione
della previdenza integrativa di fronte alla diminuzione delle
prestazioni pensionistiche.
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dipinto, anzi, come un parassita dei benefits.
La campagna per il “Leave” è riuscita a ricondurre questi problemi
sociali all'implementazione di politiche economiche imposte dall'Unione
Europea, per quanto questa tesi sia priva di fondamento.
Naturalmente, questo ha fatto leva anche su una profonda ignoranza del
funzionamento dell'UE da parte dei cittadini inglesi, come dimostra
l'impennata delle ricerche su Google.uk su cosa fosse l'Unione
Europeadurante le ore successive allo shock BRexit (seguita
dall'impennata delle ricerche “how to emigrate”…).
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Secondo la narrazione del “Leave”, quindi, non sono stati i tagli e le
riforme della Thatcher e del New Labour le cause dello sgretolamento
del welfare state britannico, ma gli EU migrants.
In generale, rivelando forti pulsioni razziste soprattutto verso
musulmani e persone provenienti dall'estremo oriente, cinesi in primis.
A nulla sono valse statistiche incontestabili, pubblicate
dall'Economist, in cui veniva chiaramente illustrato come i migranti
contribuiscano al welfare britannico più di quanto ricevano sotto forma
di assistenza e, soprattutto, come questa situazione sia rovesciata per
gli inglesi, generalmente più vecchi di chi emigra nel Regno Unito e
meno qualificati degli EU-migrants.
Naturalmente, nei piccoli centri, molto meno permeabili alle migrazioni
rispetto alle grandi città, questo discorso ha attecchito più
facilmente, così come in quelle fasce di popolazione che svolgono
mansioni per le quali non è richiesta una particolare qualifica.
I toni, sul tema dell'immigrazione e delle frontiere (in un paese che
non applica il Trattato di Schengen) sono stati, a dir poco, molto
accesi.
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che ha frammentato comunità legate alla produzione di fabbrica, non sopravvissute al pugno duro della Thatcher.
Una Londra che inoltre è sempre più inaccessibile e cara, che espelle i
suoi abitanti per far posto a brokers e magnati della finanza.
E' da questo punto di vista che il voto “Leave” della working class
britannica potrebbe essere quindi letto come una “vendetta proletaria”.
Già, peccato che ora tutti i poteri tornino proprio a quella Londra
amministrata fino a poco tempo fa da Boris Johnson,grande vincitore di questo referendum insieme a Farage.
L'aver consegnato il paese alla destra dei Tories, che continueranno a
perpetrare un assalto alla spesa pubblica come del resto hanno sempre
fatto, è la cosa più controproducente e autolesionista che le classi
più emarginate e povere potessero fare. Un regalo che purtroppo costerà
loro molto caro. Tanto è vero che immediatamente dopo la proclamazione
ufficiale dell'esito del voto, numerose sono state le dichiarazioni di
pentimento da parte di leavers appartenenti allaworking class ed è
stata addirittura lanciata una petizione (con già milioni di firme) per
l'indizione di un nuovo referendum... Un voto, quindi, anche del tutto
irrazionale.
In definitiva, una prima analisi del voto britannico sulla BRexit ci
consegna, di nuovo, un dato preoccupante: gli strati della società
maggiormente colpiti dalle politiche neoliberiste di questi ultimi
vent'anni costituiscono un terreno fertile per i discorsi populisti e
sono pienamente arruolati in una guerra fra poveri abilmente alimentata
dai governi e da chi ne trae enormi benefici.
E rende evidente la quasi totale assenza nel campo del “Remain” di un
discorso pubblico alternativo all'austerità e alla gabbia del debito,
in grado di rimettere al centro l'eguaglianza, i diritti sul posto di
lavoro, le tutele per le classi impoverite da decenni di politiche di
ispirazione thatcheriana e un welfare state degno di questo nome.
Sono mancati, in sostanza, una messa in discussione radicale del
neoliberismo come modello di “sviluppo” e il coinvolgimento delle fasce
più deboli della popolazione nella costruzione di un'alternativa che
sia in grado di indicare un'uscita collettiva necessariamente europea
da questo stato di crisi ormai permanente.
Da contrapporre al razzismo e alla guerra agli ultimi.
Luca Galantucci
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Tuttavia, il più grande aiuto a questa distorsione della realtà è
arrivato proprio dall'Unione Europea, che nell'ultimo decennio (e
quindi ben dopo l'inizio del Thatcherismo) ha imposto misure di
austerità ad altri paesi, PIIGS in testa, molto simili al neoliberismo
made in UK: rigidità economica ispirata dagli interessi del capitale
finanziario; ingenti tagli allo stato sociale; privatizzazione dei
servizi pubblici, messa in vendita, se non in saldo, dei beni comuni;
legislazioni sul lavoro che rasentano lo schiavismo.
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Cameron d'altra parte non aveva nessuna credibilità nel sostenere le
ragioni del “Remain”, soprattutto in seguito al negoziato per ottenere
condizioni più vantaggiose per la permanenza del Regno Unito
nell'Unione Europea.
Negoziato dall'esito fallimentare, visto che l'unico risultato
strappato da Cameron è stata la sospensione dei benefits agli EU
migrantsper i primi 4 anni di permanenza nel Regno Unito: un giro di
vite ai cosiddetti benefit-tourists.
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Anche perché questa è stata una campagna referendaria dai potenziali
costi politici vicino allo zero. Infatti, Farange ha avuto carta
bianca, mentre l'unico del fronte del “Leave” che dovrà pagarne le
conseguenze sarà Johnson, se dovesse diventare Premier, e negoziare l'uscita del Regno Unito dall'UE.
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