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L'Europa in costruzione del dopoguerra è sempre stata un rompicapo per
gli inglesi. Da vincitori della guerra non hanno mai provato nessuna
particolare emozione verso il progetto federale e la sua narrazione
pacifista. E tuttavia, una volta prevalsa l'idea americana di
reindustrializzare la Germania in funzione antisovietica (Churchill
l'avrebbe trasformata volentieri in un paese agricolo) e una volta
presa la decisione strategica di liquidare l'impero, la Gran Bretagna
si sente giustamente a disagio e decide di bussare alla porta della Cee
già nel 1958. Gli obiettivi sono (e resteranno fino a oggi) solo due.
Il primo è partecipare a un'area di libero scambio in rapida crescita,
il secondo è impedire che gli europei prendano decisioni lesive degli
interessi inglesi. La bandiera blu con le 12 stelle, l'Inno alla Gioia,
il manifesto di Ventotene e i sogni a occhi aperti sull'euro lasceranno
sempre perfettamente indifferenti gli inglesi, che del resto si
immischieranno poco nelle vicende interne del continente.
Oggi che siamo tutti in ansia per l'eventuale uscita del Regno Unito fa
un certo effetto ripercorrere la storia e vedere quanta fatica dovette
fare Londra per entrare. De Gaulle tenne infatti gli inglesi fuori
dalla porta per più di un decennio, alzando il prezzo dell'ingresso
ogni volta che Londra si dimostrava pronta a pagarlo. La storiografia
francese sostiene la tesi nobile della visione gollista di un'Europa
fiera che rifiuta la colonizzazione anglosassone. La storiografia
anglosassone (se ne veda l'esponente più autorevole, Andrew Moravcsik
di Princeton) sostiene invece, acidissima, che il generale voleva
semplicemente proteggere l'agricoltura e l'industria francesi,
mantenere il dito sul bottone nucleare della force de frappe ed evitare
di diluire il peso di Parigi all'interno del progetto comune. Fatto sta
che Londra riuscirà a entrare solo nel 1973. Gli inglesi verranno
accolti con la stessa freddezza con cui loro entreranno e passeranno i
due decenni successivi a cercare di abbassare il prezzo della quota
annuale di adesione al club e a negoziare il diritto di potersi
defilare sul maggior numero di questioni possibile.
Chi oggi prevede il peggio per il Regno Unito in caso di Brexit
sottovaluta probabilmente la flessibilità e il pragmatismo di cui gli
inglesi sono capaci. Ricordiamo che Londra uscì dal 2008 ristrutturando
velocemente le banche, svalutando la sterlina, adottando subito il Qe e
licenziando mezzo milione di statali che furono riassorbiti nel giro di
un anno dal settore privato. Facendo di testa sua e infischiandosene
dei tabù ideologici di Berlino e di Bruxelles ha avuto tassi di
crescita invidiabili.
Ascoltando uno per uno quelli che profetizzano grossi guai per il regno
si ha l'impressione che in realtà stiano pensando ai guai che Brexit
porterà a loro, non agli inglesi. Obama pensa alla crescita di
influenza russa sull'Europa. La Lagarde non teme di dovere salvare un
giorno Londra, ma è preoccupata per Francia, Spagna e Italia. Le case
di Wall Street sono seccate per l'idea di doversi trasferire in
giurisdizioni ad alta tassazione. Cameron teme che la sua carriera
politica finisca giovedì prossimo e Carney, che Cameron è andato a
scovare in Canada, cerca di aiutarlo profetizzando sciagure. Quanto
alla Merkel, Brexit la metterebbe in una posizione molto difficile.
Insistere infatti sulla natura masochista di Brexit ha come corollario
che se un popolo storicamente razionale sceglie di farsi del male pur
di uscire dall'Unione significa che la capacità di questa Europa di
farsi detestare è ancora più grande di quello che si pensava. E questa
è un'Europa a trazione tedesca.
Non c'è dubbio che Brexit, nel breve, sarà a somma negativa. Che lo sia
in maniera superabile dipenderà dalle reazioni dei protagonisti. Se si
inizierà a recriminare e se i negoziati di uscita saranno ispirati dal
rancore (magari per spaventare altri possibili candidati all'uscita,
come Olanda o Finlandia) la causa di separazione sarà lunga e costosa e
l'Europa finirà con il farsi amare ancora di meno.
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Se
invece si raggiungerà un accordo per cui Londra rinuncia a diventare un
paradiso fiscale e un paese di pirati in cambio del mantenimento
dell'accesso della City all'area euro i danni saranno presto
recuperati. Più che con Londra, tuttavia, l'Europa dovrà negoziare con
la propria coscienza e interiorizzare che, senza il consenso
dell'opinione pubblica (che richiede tra l'altro un minimo di crescita
economica) anche un grande progetto partito di slancio settant'anni fa
può afflosciarsi all'improvviso.
Nei giorni dopo Brexit vedremo grande prudenza da parte di tutti. Si
farà notare la natura consultiva del referendum e il fatto che il
parlamento approverà l'uscita solo in ottobre. Da quel momento, per due
anni, tutto resterà esattamente come è oggi. Si cercherà di minimizzare
e si sottolineerà che la borsa inglese, quest'anno, è la migliore borsa
europea. Si metterà in luce che l'Europa sta crescendo da inizio anno
all'ottima velocità annualizzata del 2.3 per cento, che la Cina sta
rispettando con assoluta precisione il suo obiettivo del 6.9 e che in
America l'economia ha ripreso a viaggiare alla sua velocità di crociera
del 2 per cento.
Le banche centrali, in caso di Brexit, una decisione di grande portata. La Bce, acquistando corporate,
continuerà a spingere i mercati verso i debitori più fragili, le borse
e i Treasuries. |
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