DIMENTICATE LE URNE: ECCOPERCHE' NON SI ANDRA' A VOTARE ANCHE SE CADE ILGOVERNO
Dimenticate le urne: ecco perché non si andrà a votare (anche se cade il governo)
Non le vogliono i partiti, Lega a parte, che perderebbero un mare di
voti. Non le vogliono i parlamentari, che tornerebbero a casa. Non le
vuole il Colle, preoccupato della successione al Quirinale. E non le
vuole nemmeno Salvini, in fondo. Vale l'antica regola: governi brevi,
legislature lunghe
C'è una regola non scritta, nella politica italiana: i governi hanno
vita breve, le legislature hanno vita lunga. Tradotto: siamo il Paese
in cui se cade un governo non si torna mai alle urne, perché una
maggioranza alternativa si trova. È successo nel 1995 con la rottura
Berlusconi-Bossi che portò al governo Dini. Nel 1997 con Rifondazione
che toglie il sostegno a Prodi e apre la strada al Governo D'Alema
(entrano in maggioranza Mastella e Cossiga). Nel 2011, con Berlusconi
sostituito da Mario Monti. L'unica volta che non è successo, nel 2008
con la caduta di Prodi e le elezioni stravinte da Berlusconi, è stato
un massacro tale che ancora viene rinfacciato all'allora neo segretario
del neonato Pd Walter Veltroni. Le elezioni si chiedono, certo. Per
fare quelli che non hanno paura e che non fanno giochini di Palazzo, ma
non arrivano mai.
Lo diciamo per quelli che già scaldano i motori in vista del voto a
settembre o a ottobre, dopo le europee e prima della legge di bilancio.
Difficile, difficilissimo che accada, nonostante la rottura prolungata
e ormai quasi insanabile tra Lega e Cinque Stelle. Tanto più perché le
condizioni di scenario vanno tutte nella direzione opposta,
autorizzandoci a pensare che Mattarella non dovrà nemmeno mettersi di
traverso, rispetto all'opzione di un ritorno al voto. Faranno tutto i
partiti.
Primo punto. Non conviene al Movimento Cinque Stelle, che passerebbe
dal 32% al 20% scarso che gli viene accreditato dai sondaggi attuali.
Non conviene al Pd, che non ha recuperato quasi nulla rispetto al 19%
del 4 marzo 2018. Non conviene a Forza Italia, che oggi è accreditata
attorno al 10%. A ben vedere conviene solo a Lega e Fratelli D'Italia,
gli unici due partiti in crescita, che tuttavia hanno in mano poco più
del 25% dei voti dei parlamentari.
Secondo punto. Anche se i partiti, magicamente, dovessero mettersi
d'accordo per le urne, difficilmente i parlamentari starebbero a
guardare. Prendiamo il Pd: col cambio di segreteria, tutta l'area
renziana che occupa buona parte degli scranni dem alla Camera e al
Senato sarebbe certa o quasi di non essere ricandidata. E che dire dei
paria alla prima legislatura col Movimento Cinque Stelle, metà dei
quali perderebbe il biglietto della lotteria vinto il 4 marzo scorso?
Per Forza Italia è lo stesso, peraltro: Berlusconi, a marzo, negoziò
alla pari con Salvini le candidature. Oggi non ci sarebbe negoziazione,
nei fatti: Salvini potrebbe imporre a Berlusconi tutti i suoi candidati
e vincere tranquillamente in tutti i collegi. Qualcuno, certo, potrebbe
provare a riciclarsi sotto l'ombrello del nuovo Carroccio. Qualcuno,
non tutti.
Da oggi al 26 maggio i tessitori di Palazzo si metteranno in moto alla
ricerca di nuove maggioranze, ammesso non abbiano già cominciato a
farlo da un bel po'
Terzo punto. Mattarella, a dispetto delle voci che lo danno
possibilista, non vuole sciogliere le camere. Molto banalmente, il suo
disegno per questi tempi incerti è quello di farsi succedere, nel 2022,
da un presidente della repubblica autorevole ed europeista, in grado di
dare stabilità al Paese, qualunque cosa accada. Se vi è venuto in mente
il nome di Mario Draghi, non siete i soli ad averlo pensato. Ecco: con
questo parlamento Draghi riuscirebbe probabilmente a salire al Colle,
grazie a una maggioranza trasversale che comprenda Pd, Forza Italia e
Cinque Stelle. In un Parlamento con Lega e Fratelli d'Italia
maggioranza assoluta sarebbe praticamente impossibile ciò avvenisse. Al
contrario, potrebbe accadere che un Parlamento simile decida di portare
al Quirinale una figura uguale e contraria a quella di Draghi. Se vi è
venuto in mente il nome di Paolo Savona, già al centro di uno scontro
istituzionale al vetriolo tra i gialloverdi e il Colle, non siete i
soli ad averlo pensato, nemmeno in questo caso.
Quarto punto. Neanche a Salvini conviene ad andare a votare. O meglio,
non conviene trovarsi da premier, in solitaria, a dover affrontare una
legge di bilancio come quella del prossimo novembre, costruita
chirurgicamente per levare agibilità politica a chiunque vi abbia a che
fare. Come farebbe, Salvini, a poche settimane di distanza dalla
campagna elettorale, a far digerire aumenti dell'Iva o tagli alla spesa
a elettori cui con ogni probabilità avrà promesso flat tax e pensioni a
sessant'anni per tutti? Sa bene, il Capitano leghista, che affrontare
le forche caudine di novembre con l'alibi dell'alleato scomodo sulla
cui prudenza scaricare ogni colpa è un ottimo antidoto all'emorragia di
consensi.
Questo significa che non si andrà a votare? No, attenzione. In politica
può anche succedere che per orgoglio o eccesso di tattica si finisca
per cadere nel burrone che ognuno dei giocatori vorrebbe evitare,
soprattutto se i giocatori sono inesperti. Significa altro: che da oggi
al 26 maggio i tessitori di Palazzo si metteranno in moto alla ricerca
di nuove maggioranze, ammesso non abbiano già cominciato a farlo da un
bel po'. Certe cose, con buona pace del governo del cam
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CHE BELLO AVERE UN AMICO COME TRUMP!
Massima pressione sull'Iran, d'accordo coi nostri alleati, perché
smetta le sue attività destabilizzanti che minacciano la sicurezza del
Medio Oriente » . Così la Casa Bianca ieri ha motivato un nuovo passo
nell'escalation delle sanzioni: l'obiettivo è ridurre a zero l'export
iraniano di petrolio, che è la prima fonte di valuta pregiata per il
regime degli ayatollah. L'embargo petrolifero era scattato nel novembre
scorso, ma con eccezioni per otto paesi tra cui l'Italia. Ora cadono
anche le eccezioni e Washington fa sapere che non verranno prorogate:
nessuno deve più comprare una goccia di petrolio da Teheran, se non
vuole finire a sua volta sotto un regime di sanzioni americane.
Il gesto non ha effetti sostanziali su Italia, Grecia e Taiwan: inclusi
nella lista degli esonerati l'anno scorso, secondo fonti americane,
questi tre paesi hanno già azzerato comunque i loro acquisti di greggio
iraniano. Ad essere colpiti da questo mancato rinnovo delle esenzioni
sono soprattutto Cina, India e Turchia.
Sia il governo di Pechino che quello di Ankara hanno criticato la
legittimità della mossa americana, oltre a sottolineare l'impatto
negativo sul mercato petrolifero. Poiché l'embargo sull'Iran aggiunge i
suoi effetti a quello sul Venezuela e al caos in Libia, il prezzo del
petrolio è in rialzo da tempo. Ieri il greggio di qualità Brent è
salito del 3% a 74 dollari il barile.
L'ultimo gesto contro il regime di Teheran, rientra nella nuova fase
della politica estera americana aperta da Donald Trump. Questo
presidente fu contrario dall'inizio all'accordo che Barack Obama aveva
siglato nel 2015 con l'Iran e altre cinque nazioni (Russia Cina
Germania Francia Regno Unito). Un anno fa Trump decise di denunciare
quell'accordo. A novembre scattarono le prime sanzioni Usa dirette
contro quattro settori dell'economia iraniana: energia, finanza,
cantieristica, trasporto navale. L'effetto è stato pesante. L'economia
iraniana era già in crisi prima, con alta inflazione e svalutazione
della moneta, ma da novembre i problemi si sono aggravati per il calo
ulteriore di entrare petrolifere. Si stima che da allora Teheran abbia
già perduto 10 miliardi di dollari di entrate. L'obiettivo dichiarato
dell'Amministrazione Trump è costringere l'Iran ad un nuovo accordo.
Sul nucleare la Casa Bianca vorrebbe condizioni più severe di quelle
negoziate da Obama, inclusa una maggiore durata del congelamento ( nel
2015 l'Iran accettò di fermare per dieci anni i suoi lavori sul
nucleare). Ma Trump vuole allargare l'accordo ad altri temi,
costringendo l'Iran a sospendere anche il suo programma missilistico e
le sue attività militari all'estero: dalla presenza in Siria
all'appoggio agli Hezbollah, una milizia che gli Stati Uniti
considerano come un'organizzazione terroristica.
Ieri il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha ribadito la linea
Trump: « Siamo pronti a dialogare con Teheran, se accetta quelle
precondizioni».
L'opposizione democratica a Washington condanna questo atteggiamento
sottolineandone le contraddizioni: il patto nucleare fu firmato da
sette paesi, non può essere stracciato da uno solo; inoltre la stessa
Amministrazione Trump ha una linea diversa con la Corea del Nord,
avendo accettato ben due summit col leader Kim Jong Un senza porre
condizioni. Peraltro chi critica l'embargo di Trump all'interno degli
Stati Uniti osserva che le sanzioni non hanno modificato la politica
estera degli ayatollah, in particolare sull'appoggio a Hezbollah e
Assad. A queste contestazioni interne si aggiungono quelle dei paesi
colpiti dalle sanzioni. L'Iran le ha definite «illegali». In Cina il
ministero degli Esteri ha dichiarato che la cooperazione con l'Iran «è
trasparente e legale, come tale va rispettata » . Il ministro degli
Esteri turco ha dichiarato che l'ultimo giro di vite all'embargo «
danneggia il popolo iraniano senza fare avanzare la pace e la stabilità
in Medio Oriente».
Per il resto del mondo – inclusa l'Italia che ormai non usa più
l'esenzione per importare petrolio iraniano – i timori più immediati si
spostano sull'impatto energetico. Con una crescita globale che
rallenta, un mini- shock energetico da aumento dei prezzi è un
ulteriore vento contrario per l'economia. Pompeo ha voluto rassicurare
gli alleati su questo punto. «Stiamo lavorando – ha detto il segretario
di Stato – coi maggiori produttori di petrolio per minimizzare
l'impatto sui prezzi. L'Arabia saudita e gli Emirati Arabi Uniti ci
hanno assicurato che garantiranno un'offerta adeguata sui mercati. Gli
Stati Uniti fanno la loro parte con un aumento di produzione di 1,5
milioni di barili al giorno nel 2019 che si aggiunge a quello del
2018». Il ministro dell'Energia saudita, Khalid al-Falih, ha confermato
che il suo paese si sta coordinando con gli altri produttori « per
prevenire squilibri sul mercato petrolifero mondiale ».
Federico Rampini
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DOVE VAI SE UNA GO-PRO NON CE L'HAI?
Da una parte il calendario (specie quello scolastico) che c'ha messo lo
zampino, dall'altra parte la crisi economica ragione per cui restano
vicini a casa per via delle poche palanche disponibili. Fatto sta che
ieri i boschi del monte Linzone erano pieni di gente fin dal mattino
presto. Le piogg e di questi giorni cominciano a dargli un
aspetto “umano”.Perlomeno non si corre più il rischio di restare
abbrustoliti in un incendio. I sentieri sull'Adda e sul Brembo
altrettanto fino a sera tarda. Il bugiardino e degli amici ci dicono
che città alta era inavvicinabile da una folla mai vista. Certo é che
fa specie incontrare gente di Gandino su per i boschi di Burligo.
Oppure incontrare una compagnia di Casirate (pais di rane e del
petrolio) a fare il picnic in vetta al Linzone ancora privo di narcisi
non ancora rimarginato dall'”unico” piccolo incendio subito
quest'inverno. Del resto basta dare un'occhiata ai vari gruppi sportivi
e non che percorrono le nostre montagne per capire che se ieri i
bergamaschi erano dati come un popolo alpino, oggi lo siamo
–numericamente e come penetrazione- almeno il doppio. Fossero in vita
le guide alpine che ci hanno insegnato ad arrampicare e vedessero
i filmati e le foto dei siti fessbuc trasalirebbero. Se vai in montagna
senza una go-pro non sei nessuno: i tuoi amici al bar mentre si
ciuccano l'aperitivo ricevono il filmato della tua impresa in tempo
reale. Vero che ogni anno contiamo una decina di bare e di invalidi
gravissimi come esito di bullerie alpinistiche ma forse meglio (?)
morire cadendo in montagna che d’infarto sulla porta dell’ufficio o del
bar. La moda di quest’anno sono le borracce d’acciaio inox, esito
della battaglia mediatica contro le plastiche nel mare ma soprattutto
molto «economiche» visto i prezzi che spuntano quelle termiche.
Tornando in città (alta: in quella bassa c’é la Fiera dei Librai, non
dei libri...) leggiamo sulle gazzette che il primo maggio il portico
del Palazzo della Ragione verà occupato da un concerto di più gruppi.
Del resto con la fiera in Piazza Vittorio Veneto di spazi al di
la del Lazzaretto dove non ci sarebbe andato nessuno (pioggia esclusa)
non c’erano alternative.
Intanto che si apre lentamente la campagna elettorale per le
amministrative in città in un clima che pare dia per scontata la
riconferma di Gori assieme a un vasto ritorno di anziani
candidati sindaci maschi (lo scrive il Corriere, quindi...) un
po’ dappertutto dopo l’abbandono della mezza età che aveva fatto furore
cinque anni or sono resta poco da sperare. Le costosissime paciugate un
po’ dappertutto del trio Gori-Brambilla-Alesini, il verde rimasto cesso
com’era per mano della Leyla Ciaga; i bus elettrici potenziati da
quelli a metano e le multe a raffica del Gandi:bisogna accontentarsi di
quello che passa il convento. Per il momento non c’è di meglio.
Sperando che col concerto non caschi qualche pietra del Palazzo.
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