IL PALLINO ELETTORALE CE L’HA IN MANO BERLUSCONI
SOLO IL CAVALIERE PUÒ MANDARE A CASA IL GOVERNO GIALLO VERDE: INTERROMPENDO LE ALLEANZE LOCALI CON LA LEGA.
MA I SUOI NON LO PERMETTERANNO MAI.
Stefano Folli stabilisce che l’obiettivo che il neo segretario del Pd
non dovrebbe perdere di vista è soprattutto uno: le elezioni
anticipate. Invece Antonio Padellaro vaticina che con questa sinistra,
Salvini può dormire sonni tranquilli. Ci pare che non tengano conto di
un terzo elemento.
Vero che il Parlamento lo può sciogliere solo Mattarella ma se B.
decidesse di ritirare i suoi dalle maggioranze regionali e provinciali
–ne basterebbe una sola: Lombardia o Veneto per dare una scossa-
la Lega sarebbe costretta a tornare a casa del centrodestra e
sfanculare i 5S. Insomma oggi il pallino sta (ancora) nelle mani del
vecchissimo cavaliere che si vede sottrarre ogni giorno voti ed
elettori dal suo alleato Salvini (che ha comprato il vecchio partito
coi 49 milioni spariti dai bilanci della vecchia Lega e finiti in
saccoccia al fondatore ed alla sua residua corte) senza porre freno al
dissanguamento elettorale. Non occorre molta immaginazione verificare
che i suoi (di B.) scherani locali non accetterebbero di mollare le
poltrone col rischio sicuro di non vederne nemmeno una su cinque alla
prossima tornata elettorale. Il fatto è che di presidenti forzisti in
regioni e provincie e comuni importanti ne ha pochi mentre va meglio
con la schiera degli assessori.
Vedremo tra pochi giorni la tornata elettorale delle regionali
lucane ed è abbastanza prevedibile che anche quelli si getteranno nella
braccia del Capitano, tanto bene o male per loro non cambierà nulla
salvo una breve stagione di illusioni. Vedi la storia del latte
sardo. Meglio non gettare via nemmeno quella. L’elettore italiano
sopravvive alla giornata: premia che lo fa vivere meglio fino a domani.
Doman l’altro sarà un’altra storia.
Dato per scontato che domani i 5S salveranno il Capitano dalle minacce
della magistratura (che però di questi tempi ha dato segni di forte
ravvedimento a destra) ieri le gazzette ampiamente soffieggiate dal
governo scrivevano di Tria sul Sole che […] la proposta è di cancellare
l’obbligo di presentazione preventiva della proposta all’Agenzia delle
Entrate tramite interpello. In pratica, quindi, viene meno l’obbligo
dell’istanza di ruling, e per ottenere lo sconto fiscale sarà
sufficiente presentare la documentazione. Una semplificazione che
riguarderebbe anche le migliaia di domande rimaste finora inevase.
Riguardo alle agevolazioni sulle fonti di finanziamento aziendale,
sarebbe previsto l’aumento da 1,5 a 2,5 milioni del Fondo centrale di
garanzia per l’emissione di mini-bond, attivabile anche in caso di
cessione del titolo di credito, mentre altre misure di alleggerimento
sono previste per la cosiddette legge Nuova Sabatini, con eliminazione
del tetto dei 2 milioni di investimento e dei controlli preventivi,
sostituiti da autodichiarazione.
Al netto delle tecnicalità, due cose balzano all’occhio: come
finanziare le misure e perché questo dietrofront, che reintroduce ciò
che è stato eliminato con la legge di bilancio 2019 per creare
coperture assai parziali, da immolare a misure demenziali per
concezione, come Quota 100 e la rendita di cittadinanza.
In pratica, si torna indietro di alcuni mesi ma con coperture
aggiuntive da inventare. Si parla di eliminazione della riduzione Ires,
che difficilmente sarebbe decollata, visto che per avere il taglio di
aliquota da 24 a 15% si richiede che gli utili (che possono serenamente
mancare, in questa fase congiunturale) siano reinvestiti in beni
strumentali e nuove assunzioni a tempo indeterminato, ma in entrambi i
casi superando i livelli preesistenti.
Una tipica misura che ti fornisce l’ombrello quando c’è il sole e
nemmeno una nuvola in cielo, in pratica. E non ci si dovrebbe neppure
illudere troppo: quando il cavallo non beve, cioè non investe, per
elevata incertezza ed aspettative fortemente deteriorate a causa del
contesto internazionale e -soprattutto- interno, queste misure tendono
ad andare a vuoto.
Ma il cosiddetto piano Tria ha una soluzione anche per la paralisi
degli appalti pubblici che pare l’uovo di Colombo, prevedendo la
“sospensione sperimentale” a tutto il 2020 delle parti del codice degli
appalti che non derivano direttamente dalle direttive Ue. Il che
dovrebbe voler dire obblighi integrali di gara solo su appalti a
partire da 5 milioni per lavori e 200 mila euro per servizi e forniture.
Fine dell’ampia citazione. Poi tra una ventina di giorni il governo
dovrebbe presentare un Def (il Documento di economia e finanza)
fasullo. Senza dati e senza numeri. Senza le linee programmatiche.
Senza tenere conto che la previsione di crescita nel 2019 fissata
nell’ultima manovra all’1 per cento è già fallita. È una chimera
irraggiungibile. Il Def dovrebbe tenerne conto, almeno per correre ai
ripari. E invece niente. Il motivo è semplice: il governo sarebbe
costretto ad ammettere di aver sbagliato e di conseguenza imporre nuove
tasse ( come l’aumento dell’Iva) o nuovi tagli per mettere una pezza a
un bilancio che ormai fa acqua da tutte le parti. Una prospettiva,
però, elettoralmente impossibile da sostenere, almeno fino al 26 maggio
quando si voterà per le europee. Senza contare che un mese prima, il 26
aprile, Standard& Poor’s potrebbe declassare il nostro debito
pubblico e provocare un possibile terremoto sui tassi di interesse e
sullo spread.
Filca Cisl il 09 marzo denunciava come fossero bloccati 600
cantieri per un ammontare di 36 miliardi e 350mila posti di lavoro
fermi e a rischio. Hanno fermato tutto per disporre delle risorse per
il reddito e pensioni di cittadinanza e quota 100. Fermano
silenziosamente le opere sostenendo la necessità di una
valutazione mentre in realtà – sapendo che le due manovre creeranno un
deficit enorme- hanno fermato la spesa pubblica nelle opere cercando in
qualche modo di superare il fatidico 26 maggio. Poi si vedrà: pensano
Salvini e DiMaio.
Paradossalmente quindi le due minoranze messe meglio elettoralmente –
che più o meno fanno il 35% sommando anche gli altri rimasugli- non
hanno alcun interesse neppure loro a oggi a togliere le castagne dal
fuoco alla maggioranza e quindi navigano anch’esse finché il
Paese non andrà a sbattere. Del resto gli elettori hanno sempre ragione
e quindi…
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IL CASO 1
TORINO LIONE
LA LUCE SPENTA NEL TUNNEL
La vicenda del Tav Torino-Lione potrebbe essere la trama di una gustosa
farsa, se non fosse un episodio acuto del malaise italiano. Il
contrasto tra Lega e M5S su quest'opera rischiava, già nel maggio 2018,
di far naufragare il fatidico “contratto” su cui è nato il governo
Conte.
Cosi, venne trovata un'espressione vaga (e un po' vacua) per nascondere
il contrasto sotto il tappeto: “Con riguardo alla Linea ad Alta
Velocità Torino-Lione, ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il
progetto nell'applicazione dell'accordo tra Italia e Francia”. Dopo le
recenti acrobazie di Giuseppe Conte (lettera alla società Telt e
risposta di quest'ultima, apparentemente concordata), siamo ancora lì:
il governo scrive di voler ridiscutere integralmente il progetto con la
Francia, naturalmente coinvolgendo la Commissione Europea, ma non vuol
perdere i finanziamenti della Commissione stessa, legati alla
pubblicazione entro il 31 marzo dei bandi di gara.
Deve essere chiarito una volta di più che il progetto del tunnel di
base (la tratta “intemazionale”) è stato già rivisto quasi dieci anni
fa e quello che si è scavato e si sta scavando esegue proprio quel
progetto rivisto. Se Conte e i suoi ministri pensano a una revisione
della tratta italiana, devono sapere che anche questa parte è stata
rivista, con il risultato di ridurre i costi da una previsione iniziale
di 4,4 miliardi a una di 1,9 miliardi dopo la project review. Si può
risparmiare ancora? Mai dire mai, naturalmente. Ma vale la pena
ricordare che con 1,9 miliardi si assicurerebbe una capacità uniforme
alla linea da Torino all'imbocco del tunnel pari a quella dello stesso
tunnel. Quindi una performance uniforme dell'intera tratta.
Ragionevolmente, tagliando ulteriormente (cioè non facendo questo o
quel pezzo) si ridurrebbe la capacità, riducendo l'efficienza
potenziale dell'intera opera. Certo, si aspetta l'ufficializzazione
della Project review della tratta francese, nata con un progetto
largamente sovra-dimensionato. Ma, in un certo senso, questa ci
riguarda fino a un certo punto, dal momento che quella tratta è e sarà
a carico interamente della finanza pubblica francese. Dal punto di
vista dell'efficienza dell'opera interessa solo che si facciano, anche
dal lato francese, quegli interventi necessari a rendere uniforme la
capacità della linea fino a Lione.
Il problema è che il “contratto” prima e il governo ora non sembrano
interessati a ridiscutere seriamente l'opera sul piano tecnico, ma solo
a tirare avanti il più a lungo possibile per far incassare ai 5S il
(presunto) dividendo elettorale della riaffermata fede no-Tav del
Movimento e della vittoria (altrettanto presunta) nel braccio di ferro
con la Lega.
Inutile ripetere ancora quanto discusse (e scarsamente motivate) siano
le previsioni di traffico poste alla base dell'analisi dei tecnici
scelti dal Ministro, quanti siano i dubbi sollevati da molti esperti
sulla metodologia usata e quanto trascurati siano stati dagli analisti
gli effetti indiretti (o di “equilibrio generale”). I tecnici non hanno
fornito una adeguata pluralità di strumenti di decisione e, quindi,
molte vie d'uscita alla politica. Si sarebbe dovuto 1) chiarire il
complesso dello scenario infrastrutturale in cui l'opera si colloca
(corridoio 5 della rete TEN-T); 2) analizzare le alternative
progettuali (cosa si fa e quanto costa all'Italia se non si realizza il
Tav?); 3) mostrare come cambiano i risultati cambiando alcune ipotesi
di base (durata della vita utile dell'opera, tasso di sconto con cui si
attualizzano costi e benefici, opzioni distributive); 4) fornire anche
un'analisi di cosa succede togliendo dal conto costi e benefici delle
accise e dei pedaggi perduti, secondo le raccomandazioni delle Linee
Guida Europee e italiane per l'analisi costi-benefici (economica, a
differenza di quella finanziaria). Era stato fatto per il Terzo Valico,
perché non farlo anche per il Tav?
La chiave di volta può averla in mano la Commissione Europea che -
aumentando la sua quota di finanziamento del tunnel di base dal
previsto 40% - potrebbe facilitare raccordo all'interno del governo
italiano. Senza accordo, non resterebbe che votare in Parlamento una
revisione del Trattato con la Francia e pagare tutto ciò che ci sarà da
pagare. Senza
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IL CASO 2
GENOVA, L’EFFETTO AMIANTO SUL PONTE
LA DEMOLIZIONE IN RITARDO DI UN ANNO
Anche la linea dell’orizzonte può essere
un’illusione. Quella che ha sullo sfondo il ponte Morandi è ormai
cambiata da quel maledetto 14 agosto. Proprio ieri è stato tirato giù
un tratto rettilineo lungo 36 metri e pesante 916 tonnellate. C’è più
cielo tra un moncone e l’altro, segno che i lavori di demolizione,
propedeutici alla ricostruzione, sono cominciati, e avanzano. Era
importante partire, e ancora più importante che si vedesse, ripete
sempre Marco Bucci, il sindaco-commissario del governo per il nuovo
viadotto.
Niente è mai come sembra. Nonostante gli annunci ottimistici e gli inni
alla gioia della ricostruzione immediata, con consegna della nuova
infrastruttura a fine 2019, massimo primavera del 2020, l’abbattimento
dei resti di un gigante da cinquantamila metri cubi di calcestruzzo e
cinquemila tonnellate di acciaio rimane un’impresa esposta al vento
dell’imprevisto. L’esplosivo, panacea di ogni male per abbattere le
pile superstiti, non si può usare. La prima doveva essere la numero 8,
verso ponente, affacciata su capannoni abbandonati e alta 45 metri,
ovvero il livello della carreggiata. Dopo sarebbe toccato alle pile 10
e 11, prossime all’uscita del casello di Genova Ovest verso i terminal
del porto, che incombono sulle case destinate all’abbattimento, sulla
zona rossa e su quella gialla. E per loro non esiste neppure un piano B
senza la dinamite. Perché hanno entrambe gli stralli, e raggiungono i
90 metri di altezza. L’ipotesi più ottimistica in caso di smontaggio
meccanico prevede uno slittamento dei lavori di almeno altri 8 mesi, ma
qualcuno nella struttura commissariale sussurra che ci vorrebbe un
anno, oltre a un’impennata dei costi che farebbero lievitare i 19
milioni di euro previsti dal piano approvato da Bucci.
L’autostrada
Era prevista solo una chiusura di alcuni giorni, potrebbero diventare settimane
Nel Ponte Morandi c’è l’amianto. E tutti lo hanno sempre saputo, perché
nel 1962, quando iniziò la costruzione del viadotto sul Polcevera, quel
materiale e il mortale polverino che sprigiona erano considerati una
mano santa dell’edilizia italiana e mondiale. All’inizio dello scorso
ottobre i Vigili del fuoco specializzati in crolli e interventi in
ambiente urbano giunti da tutta Italia per sgomberare le macerie del
ponte si videro recapitare un modulo con una domanda che aveva
dell’incredibile. «Pensa di essere stato esposto anche in maniera
occasionale durante le operazione di soccorso, a materiale contenente
asbesto?». Eppure, come se nulla fosse. Il 6 marzo, conferenza stampa
in Prefettura alla presenza delle aziende vincitrici dell’appalto e di
tutti gli enti responsabili, compresi l’Agenzia regionale per la
protezione dell’ambiente e l’Asl, incaricate dei controlli, per
l’annuncio della demolizione con esplosivo della pila 8, quella più
«facile», come l’intero settore di ponente, prevista per la mattina del
9 marzo.
L’incognita
I costi rischiano di impennarsi facendo lievitare i 19 milioni di euro previsti all’inizio
«Cosa respirano i nostri figli?». I cartelli erano già apparsi
all’inizio dei lavori. Un comitato dei cittadini presenta un esposto in
procura. Nel carotaggio effettuato da Arpal e Asl, 6 campioni su 24
hanno dato valori fuori norma, confermando la presenza di amianto,
seppure in quantità infinitesimali. Il problema diventa non solo edile,
ma anche penale. Il primo a dirlo è lo stesso Bucci, commissario
governativo, ma anche sindaco. La marcia trionfale suonata finora si
smorza all’improvviso, non senza qualche imbarazzo. Dopo una settimana
di passione, viene escluso l’utilizzo dell’esplosivo per la pila 8.
La tecnica di smontaggio meccanico, che dovrà contenere misure di
«mitigazione del rischio» per la dispersione delle polveri, verrà
adottata per tutti i piloni superstiti. Impossibile anche solo
immaginare di far saltare in aria le pile 10 e 11, più vicine ai
quartieri abitati e allo svincolo della A7, uno dei caselli più
frequentati d’Italia. Se la pila 8 non presenta difficoltà
insormontabili, e il ritardo nei lavori sarà solo di qualche settimana,
sull’altro versante la differenza tra uso dell’esplosivo e demolizione
fatta «a mano», ragiona un esponente della struttura commissariale, si
calcola in semestri, con annessa chiusura per settimane
dell’autostrada, che nell’ipotesi originaria era previsto solo per i
giorni delle deflagrazioni. Da un lato la necessità di fare in fretta.
Dall’altro la tutela della salute pubblica, alla quale si collegano
eventuali responsabilità giudiziarie. Non se ne esce. Aggiornare i
calendari. L’importante era cominciare, in pompa magna. Ma la
demolizione di un ponte in una zona sovraffollata della città non
poteva certo essere un pranzo di gala.
Marco Imarisio
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