CRISI DI GOVERNO? MACCHÉ, LEGA E CINQUE STELLE STANNO FACENDO FINTA DI LITIGARE
A nessuno conviene il ritorno alle urne. Non a Mattarella che vuole
stabilità,. Non a Di Maio in caduta libera. Non a Salvini che non
rivuole Berlusconi. Ecco perché si farà scena fino a domenica. E lunedì
tornerà tutto a posto.
Da due giorni nel Transatlantico di Montecitorio è tornato ad aleggiare
lo spettro del voto.Non è dato sapere come, perché e quando si potrebbe
anticipamente sciogliere la legislatura dei barbari e degli «scappati
di casa» (copyright Silvio Berlusconi). I bookmakers del palazzo
ostentano una certa sicumera e scommettono fiches pesanti sul ritorno
anticipato delle urne. Eppure dietro questo chiacchiericcio fatto di
retroscena, indiscrezioni e pissi pissi, che induce democrat e forzisti
a tratteggiare scenari apocalittici dopo le europee: da un nuovo
Nazareno 2.0 a un esecutivo di centrodestra di vecchio conio. Ecco
dietro questi spifferi si nasconde un esecutivo gialloverde, o
gialloblu, che nonostante si discuta sul Tav Sì, No, Nì, proseguirà il
suo cammino come se nulla fosse.
Fuori verbale i dirigenti di rango del Carroccio confidano che «non ci
sarà nessuna crisi e noi governeremo cinque anni». Gli fanno eco i
quadri di un M5S in estrema difficoltà: «Fantapolitica l'ipotesi del
ritorno delle urne». E allora viene da pensare che i due contraenti
staranno forse bluffando. I leghisti fermi, immobili, nella loro
posizione del sì Tav, del partito dei cantieri spinto dal vento Nord.
Mentre le truppe di Di Maio a sbraitare e a opporsi all'alta velocità
Torino-Lione che rappresenta una battaglia simbolica per chi fino a
ieri l'altro manifestava a Chiomonte a colpi di Vaffa. Le parti
resteranno divise fino all'ultimo secondo utile per l'apertura dei
bandi sull'alta velocità. Fino a quell'istante sarà una simulazione di
una battaglia. Non è un caso infatti che il sottosegretario Buffagni si
sia spinto in avanti utilizzando parole di questo tenore: «La crisi è
già aperta». Insomma, si tratta di wrestling, non di pugilato. Pura
finzione. Anche perché a più livelli nessuno intende rimboccarsi le
maniche e attrezzarsi per una campagna elettorale dall'esito
sconosciuto.
Il primo che non desidera il ritorno alle urne risiede a via del
Quirinale e si chiama Sergio Mattarella. Sfogliando il dizionario del
Colle alla voce "e" non è presente la parola elezione. Il Capo dello
Stato è uno dei massimi sostenitori della stabilità del Paese.
Mattarella sa bene che in una fase delicata come quella attuale non è
ipotizzabile un ritorno anticipato alle urne in estate, né tantomeno in
autunno. È uno scenario da scongiurare. Si dovrà scavallare la prossima
finanziaria che partirà con un meno 23 miliardi di clausola di
salvaguardia da sterilizzare più una serie di previsione errate che
ingrosseranno il valore del deficit. La tesi del Colle è che toccherà a
questo governo, che ha combinato il pasticcio, venirne fuori.
Corollario: il mite Sergio non ha alcuna intenzione di consegnare
l'elezione del suo successore a un parlamento con la Lega al 35%. E
lotterà con le unghie e coi denti affinché la legislatura faccia il suo
corso fino al 2021, almeno.
Solo a Salvini, forse, converrebbe staccare la spina e incassare un
punteggio storico per il Carroccio. Ma con l'attuale sistema di voto,
un proporzionale puro, dovrebbe in ogni caso sedersi al tavolo con
Silvio Berlusconi, e il Capitano non ha alcuna voglia di riabbracciare
il vecchio alleato di Arcore
Ma non finisce qui. Anche i cinquestelle derubricano a fantapolica la
parolina "elezioni". Le truppe di Di Maio sono in caduta libera da
quando è nato l'esecutivo. E ancora ieri venivano attestati attorno al
21 per cento, circa dodici punti in meno del risultato ottenuto alle
politiche del marzo del 2018. Ciò spinge i vertici del Movimento, in
particolare Di Maio, ad allontanare lo scenario delle urne anche
perché, avrebbe confidato ai suoi, «se cado io, finisce per
tutti».Simul stabunt, simul cadent. Un movimento al 21 per cento
tornerebbe confinato all'opposizione, manderebbe all'aria il reddito di
cittadinanza - il decretone che ha al suo interno il Rdc non è stato
ancora approvato - e le riforme gradite a Grillo e company, e
rieleggerebbe un numero di parlamentari notevolmente inferiore
all'attuale. Tutte spie che allungano la vita all'esecutivo più pazzo
della storia della repubblica.
Solo a Salvini, forse, converrebbe staccare la spina e incassare un
punteggio storico per il Carroccio. Ma con l'attuale sistema di voto,
un proporzionale puro, dovrebbe in ogni caso sedersi al tavolo con
Silvio Berlusconi, e il Capitano non ha alcuna voglia di riabbracciare
il vecchio alleato di Arcore che nel frattempo è finito imbrigliato in
una nuova indagine, questa volta per corruzione in atti giudiziari, reo
di aver pilotato una sentenza del Consiglio di Stato. «Noi con
Berlusconi abbiamo chiuso», assicurava fino a ieri sera un senatore
assai ascoltato da Salvini. E allora, per dirla con Agatha Christie,
«un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre
indizi fanno una prova». La prova è che Lega e Cinquestelle non si
separeranno. Né oggi. Né tantomeno domani.
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COSA HA FATTOILGOVERNO PERLA TAV? UN'AMMUINA.
«Giovanotto... carta, calamaio e penna, su avanti, scriviamo». «Un
momento!» «Signorina, veniamo, veniamo noi con questa mia addirvi...».
Scegliete a libero piacimento se far interpretare Totò oppure Peppino,
i due fratelli Caponi originali, a Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, o
viceversa. Ma l'effetto rimane uguale. Nella loro lettera, indirizzata
a Telt, la società incaricata di realizzare la Tav, ma in pratica
rivolta alle malefemmine Francia ed Europa, i due epigoni moderni si
esibiscono in un testo da azzeccargarbugli che non cambia nulla, non
decide nulla su questa benedetta Tav. Una colossale presa in giro, con
la complicità un po' ipocrita della Lega, che certo non ne esce bene e
dovrà spiegare ai suoi elettori il senso di questa stucchevole recita.
«Noio vulevàm savuar». Nel mondo, se non conosci le lingue sei fregato.
E Di Maio-Conte, modestamente, le conoscono. Nella lettera che la
presidenza del Consiglio invia a Telt, siccome la parola «bandi di
gara» è diventata un'altra ossessione dei 5 Stelle, ecco la gran
trovata. I bandi di gara, appalti da 2,3 miliardi per la costruzione
dei 45 chilometri della tratta francese del tunnel di base, non si
chiamano più così. Palazzo Chigi diffida Telt dall'invio alle imprese
dei capitolati, che in realtà rappresentano la fase successiva a quella
iniziale del lancio della gara. Telt risponde che sarà così. Ma per
salvare i finanziamenti europei legati ai bandi, il consiglio di
amministrazione procederà a pubblicare gli «avis de marchés» per i
lotti francesi del tunnel. E come si chiama in francese la prima fase
dei bandi di gara? Avis de marchés , ovvero inviti a presentare la
candidatura. Tra sei mesi, secondo il diritto d'Oltralpe, si deciderà
quali imprese hanno diritto a partecipare, e solo allora verrà il
momento di mandare i capitolati con la spiegazione in dettaglio dei
lavori richiesti. A quel punto, Telt chiederà ai governi italiano e
francese che intendono fare. Ma anche questa non è una conquista, e
neppure una novità. L'azienda aveva già fatto sapere a dicembre della
propria disponibilità a procedere in questo modo.
Che farsa. I 5 Stelle fingono di esultare per aver fermato i bandi di
gara italiani, in realtà previsti per il 2020. I veri militanti No Tav
vedono invece compiersi quel passo iniziale mascherato però da un
fumoso giro di parole, e questa volta sarebbero i più autorizzati a
sentirsi presi per i fondelli. Chi sostiene l'opera rimane come prima,
tra coloro che son sospesi. Ma il governo nella sua interezza può
trionfalmente scavallare le elezioni europee, tanto poi si vedrà, non
importa se esponendo il nostro Paese all'ennesima figuraccia. Firmato,
i fratelli Caponi, che siamo noi.
Marco Imarisio
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