LA NOTIZIA
Ritardi dei treni in Lombardia: la Bergamasca é la maglia nera.
La befana piuttosto che portare gli asabesi ai pendolari bergamaschi
s’è... portata via un treno. I pendolari si erano detti contrari della
proposta e lunedì mattina hanno avuto la sorpresa: «Senza alcuna
informazione, senza alcun avviso, stamattina (7 gennaio, ndr) il treno
delle 7,10 è sparito e sostituto da un treno delle 7,45» scrive il
Comitato Pendolari Bergamaschi. «Senza alcuna informazione, senza alcun
avviso, stamattina (7 gennaio, ndr) il treno delle 7,10 è sparito e
sostituto da un treno delle 7,45» scrive il Comitato Pendolari
Bergamaschi.
«Agli ultimi e più recenti incontri con Regione Lombardia ci era stata
comunicata l’intenzione di sostituire il treno straordinario delle 7,10
per G.Pirelli con un treno delle 7,45. Ci siamo da subito dichiarati
contrari, esigendo invece entrambi i treni, per ottenere un servizio
più completo in sostituzione della via Carnate. Attendevamo notizie in
questo senso e avevamo richiesto l’allocazione di un treno in più anche
nel recente incontro con il ministro Toninelli».
Il bonus compensativo è stato concesso per 12 mesi su 12 ai viaggiatori
della Lecco-Bergamo-Brescia. I pendolari: «Anno orribile».
La Bergamasca si è aggiudicata la maglia nera per i ritardi accumulati
dalla linee ferroviarie lombarde nel 2018. Come risulta dai dati di
Trenord, sono sette le tratte che attraversano la terra orobica a cui
l’anno scorso la società ferroviaria ha dovuto assegnare il bonus
mensile, risarcendo ai relativi pendolari il 30% dell’abbonamento.
E non si sta parlando solo di un mese o due in cui è stata superata la
soglia minima di minuti di ritardo complessivi oltre la quale, appunto,
scatta il rimborso. In cima alla classifica delle linee con la peggiore
performance c’è la Lecco-Bergamo-Brescia, i cui pendolari hanno
ottenuto il bonus per 12 mesi su 12. Nessuna linea in tutta la
Lombardia ha fatto peggio. Nemmeno la Bergamo-Carnate-Milano,
penalizzata da uno dei principali eventi che l’anno scorso hanno
compromesso la circolazione ferroviaria in Lombardia: la chiusura, a
metà settembre, del ponte san Michele sull’Adda fra Calusco e Paderno.
Anno orribile per i ritardi, per la chiusura del ponte ma anche
soprattutto per la tragedia di Pioltello, con il deragliamento di un
treno e la morte di tre pendolari, nel gennaio 2018.
IL COMMENTO
La Lombardia governata ormai da trent’anni dal centrodestra a trazione
leghista ha assorbito lo scandalo della sanità formigoniana, ha
assorbito le infiltrazioni mafiose e ci convive benissimo, ha assorbito
e si mantiene coerente col peggior servizio pendolari sul ferro delle
FFSS, riesce perfino a sopravvivere con due-tre mesi di sanità al
minimo ogni fine anno perché gli ospedali sono senza soldi .
Vero: poi ci sono anche due importantissimi ponti chiusi e decine di
opere che non vanno ne avanti ne indietro: pedemontana oppure la
variante di Zogno per dare due estremi. Ebbene la Lombardia si conferma
fedelissima del centrodestra a trazione leghista e adesso compare anche
lo zampino pentastellato. Ma i treni proprio non vanno. Salvini non
aveva voluto tra i piedi a Roma la Terzi, maroniana di ferro e il neo
presidente regionale Fontana le aveva affidato la cura del ferro in
sostituzione del forzista Sorte (assessore regionale alle
Infrastrutture e Mobilità presso la Regione Lombardia dal dicembre 2014
con deleghe alle infrastrutture e Opere Pubbliche, Sistemi di mobilità
e intermodalità e Trasporto Pubblico locale, durante la Giunta Maroni)
fatto deputato per metterlo al riparo di eventuali guai post
assessorato. Non si sa mai. La Terzi, avvocato leader delle imprese
leghiste appena insediata s’è trovata addosso la tragedia di Pioltello.
Fare andare i treni pendolari in Lombardia non è questione di essere un
ex amministratore di imprese di pulizia piuttosto che un avvocato. Col
materiale rotabile e l’infrastruttura che c’hai in mano ci vogliono
ingegneri soldi a camionate e una fortuna. Che non te li danno le
elezioni.
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L’altra metà della bomba
(e chissà che botta al cuore del custode delLa Latrina di
Nusquamia, l’ing. Claudio Piga, sardAgnolo abduano
Ciò che ho da dire oggi si riduce a sei foto messe in fila come
un'inquietante e inaspettata processione perché senza che se ne avesse
il sentore o il sospetto è accaduto che ai vertici del complesso
militar industriale americano, che vive di guerre e di morte, siano
oggi sei donne, 4 a capo delle maggiori industrie belliche statunitensi
e due dall'altra parte del tavolo, la prima come supremo acquirente del
Pentagono, la seconda come gestore dell'arsenale nucleare. Ciò che
colpisce è che questa situazione venga esaltata e presentata dalla
pubblicistica americana come un successo del movimento femminista che è
riuscito a penetrare le ultime e più sorvegliate roccaforti del
machismo, ma senza tuttavia rinunciare allo slogan della “diversità”
affinché la folla politicamente corretta possa sentirsi bene con se
stessa e non farsi venire qualche dubbio.
Tutto questo si traduce in una sorta di caricatura del liberalismo
americano, della parte che cura le conquiste a fini di lucro, divenuta
ormai l'attività preminente dell'impero. E mostra con l'evidenziatore
che il vero tarlo del femminismo contemporaneo è il suo tentativo di
valorizzare le donne dentro un sistema di valori definito dagli uomini
e dal potere, che nella sua essenza che è asessuato o forse l'unico
sesso esistente. Evidentemente l'obiettivo reale non era di quello di
valorizzare le donne, i loro valori, le loro competenze, ma di
ignorarle in quanto poco assimilabili al patriarcato capitalista
e di indurle a giocare il solito gioco maschile. Non è un caso che gli
ultimi quarant'anni siano stati segnati in maniera significativa da
donne sedute sul tavolo da gioco del capitale e della lotta di classe
al contrario a cominciare dalla Thatcher, per continuare con la
Lagarde, proseguire con la Clinton apertamente guerrafondaia nonché
pescatrice di torbido per finire con la Merkel, sceneggiatrice finale
dell'europa oligarchica a egemonia tedesca.
Volendo sintetizzare il femminismo contemporaneo o almeno la sua forma
banale e peggiore, si è alleato al capitalismo e invece di puntare a un
mondo più egualitario e più giusto, a imporre in qualche modo una
diversità di visione: è diventato invece ancella del neoliberismo
mentre la critica al sessismo sta involontariamente fornendo la
giustificazione per nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento
collegandosi al culto del mercato. Infatti ai piani bassi per le donne
è cambiato poco, anzi le cose sono peggiorate con il dissolversi
graduale dei diritti che le espone a infinite forme di ricatto, ma
l'emancipazione sembra funzionare solo ai piani alti, dove la
distinzione diventa inesistente e nei quali più ancora che per gli
uomini non esiste più l'ascensore sociale: tutte le signore elencate in
questo post sono infatti appartenenti al notabilato americano. Non c'è
alcun dubbio che in questa prospettiva la seconda o terza fase del
femminismo, a seconda di come lo si voglia guardare, stia emergendo
come critica del capitalismo welfariano, opprimente e fallocratico in
funzione ancillare però del globalismo di marca neoliberista. In un
certo senso il femminismo da essere avanguardia di qualcosa di nuovo,
si è trasformato in retroguardia reazionaria rispetto all'eguaglianza
sociale, anche se non mancano segnali di frattura rispetto a questa
linea da parte delle donne più intelligenti. Non è certo un caso che se
guardiamo alla spaventosa disuguaglianza di reddito che si è creata
nell'ultimo ventennio si vede come la frattura reddituale sia molto più
accentuata nelle donne.
Ci mancava solo che diventassero protagoniste della guerra e delle stragi. Una conquista.
Alberto Capece Minutolo
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Come nasce e dove ci porterà la crisi di Apple
L'obiettivo di Trump è tarpare le ali al Dragone cinese. Anche a costo
di danneggiare le aziende Usa. Si va verso un indebolimento del
dollaro. E un ritorno della supremazia della politica sull'economia.
Dannato Tim Cook, ma cosa vuoi dalla mia vita? Perché le difficoltà
della tua azienda devono diventare un problema mio? Apple ha annunciato
una riduzione del giro d’affari: 7 miliardi di dollari di revenues
previste in meno, e la Borsa Usa (e non solo) è andata in panico. Com’è
successo che siamo diventati così fragili? Può venirci in soccorso la
simbologia: quando l’11 settembre del 2001 due grattacieli furono
colpiti da due aerei e crollarono, l’evento fu di portata storica per
il simbolo che quei due grattacieli rappresentavano. Lo stesso vale
oggi: Apple ha avuto una giornata da -10% in Borsa, perdendo in una
seduta una capitalizzazione superiore all’intera Sony, ma sebbene sia
notevole l’immagine di vedere cancellato l’equivalente di un’azienda
come Sony in 24 ore, la crisi di Apple (che dal primo ottobre ha perso
circa il 40% del suo valore) ha significato soprattutto perché Apple è
la più grande azienda del mondo, è il simbolo della primazia americana,
il totem del sogno americano: dal garage alle stelle. Apple taglia le
stime per il primo trimestre. Effetti sulle Borse
Le difficoltà delle aziende americane sono appena iniziate
Il simbolismo dell’evento è ancora più elevato perché il messaggio che
passa è che alla guida dell’ “aereo” che ha colpito la Mela morsicata
c’è un signore biondo dal colorito arancione, che da un paio d’anni
dimora alla Casa Bianca; le difficoltà di Apple stanno nella sua catena
del valore, un bel pezzo della produzione e della vendita dei telefoni
di Cupertino avviene in Cina e le politiche di Donald Trump stanno
provocando seri danni. E se fa danni alla più grande, alla più forte,
figuriamoci al resto: dal primo ottobre 2018 Google segna -20%, Amazon
-25%, Ibm -25%, l’indice Nasdaq -20% e Micron Technologies (produttore
di processori specificamente oggetto delle ritorsioni cinesi) vale la
metà di quanto capitalizzava soltanto lo scorso luglio. Frutti amari di
una politica economica che promette di danneggiare altre grandi aziende
americane: Starbucks ha nella Cina il suo secondo mercato, mentre Ford
e General Motors assegnano ai consumi cinesi ogni speranza di crescita
per gli anni a venire.
Make china small again, la vera stella polare di Trump
Nel marzo scorso Trump annunciava via Twitter che «trade wars are good
and easy to win», cioé che le guerre commerciali sono un bene e facili
da vincere. Si direbbe che il presidente abbia preso un granchio. Non
sappiamo se grande quanto il “muro” che avrebbe dovuto essere costruito
a spese del Messico e che oggi non ottiene il via libera al Congresso,
ma senza dubbio di buona misura. A meno che, dietro la dialettica della
guerra commerciale, non si nasconda un progetto politico più profondo.
Che dietro il claim “Make America Great Again” ci sia il meno seducente
ma più sincero “Make China Small Again”. L’ascesa dell’economia cinese
prosegue incontrastata da anni e arriva, in prospettiva, a minacciare
la supremazia americana, mettendo gli Usa nella condizione di voler
allontanare l’inevitabile, frenando la crescita cinese a qualunque
costo, inclusa una recessione.
Il nodo fed: cosí il dollaro perderà terreno
Se questo è lo scenario, la speranza che le difficoltà delle grandi
imprese americane possano far recedere Trump dalla sua Trade war sono
prossime allo zero, piuttosto, nell’inasprirsi della crisi il
presidente americano tuonerà contro la Fed pretendendo un intervento
che, se i mercati andranno davvero male, dovrà - anche se malvolentieri
- arrivare. La percezione di minore indipendenza della Fed da
Washington toglierà fiducia al dollaro, facendogli perdere il terreno
accumulato nell’ultimo anno. Un pannicello caldo per l’economia
americana che, con un dollaro più debole, troverà un aiuto alle
esportazioni. Il crollo di Apple in Borsa, secondo alcuni il campanello
d’allarme che costringerà la Casa Bianca a cambiare politica, rischia
dunque di essere - al contrario - l’inizio della concretizzazione di
una richiesta che da tempo l’opinione pubblica sta elevando: il ritorno
della supremazia della politica sull’economia. Bisogna stare attenti a
ciò che si desidera, si rischia di ottenerlo.
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