LA SCUOLA ITALIANA? ORAMAI È SOSTANZIALMENTE PRIVATIZZATA DALLE CORPORAZIONI E DALLE ONLUS.
STATO E COMUNI SONO SOLO UFFICIALI PAGATORI
Gli alunni della scuola elementare passano dai 2,534 milioni dell'anno
scolastico 2001-2002 ai 2,498 milioni del 2018-2019. Il MIUR attesta
che gli alunni disabili nella primaria erano 57.250 nell'anno
scolastico 2001-2002 e diventano 89.029 quest'anno scolastico. In
percentuale si passa dal 2,25% al 3,56%.
Gli alunni non italiani passano dal 2,39% al 12,16% dal 2001-2002 al 2018-2019.
Nell'anno scolastico corrente nella scuola elementare gli
italiani disabili sono il 2,8% contro il 3,9% sul totale degli alunni
(italiani e stranieri) presenti in aula.
Predicava Di Maio un anno or sono: "Per questo, la prima cosa che
faremo sarà aumentare le risorse per l'istruzione: nel medio termine
vogliamo arrivare al 10,2% del Pil, in linea con la media europea. I
nostri programmi di spesa sociale, istruzione compresa, saranno
finanziati da un lato con i tagli agli sprechi e alle spese inutili che
si annidano nel bilancio pubblico e dall'altro con il maggiore gettito
fiscale che il nostro piano di investimenti produttivi produrrà anno
dopo anno", dichiarò Luigi Di Maio il 17 gennaio scorso al sito online
Tecnica della Scuola.
A quasi 12 mesi dall'annuncio di Di Maio e 7 mesi dall'inizio
dell'esperienza di governo di Lega e Movimento 5 Stelle, le promesse
sono state mantenute?
Stando a quanto si evince dalla legge di bilancio al vaglio della
Camera per l'approvazione definitiva, la risposta è no: nel triennio
2019-2021 le risorse per la scuola si ridurranno del 10%, per un
ammontare totale pari a 3,9 miliardi di euro di tagli. Si dirà: "Ma Di
Maio ha parlato di medio termine", il che è verissimo, ma stando ai
prospetti allegati alla legge di bilancio l'esecutivo Lega-M5S la
tendenza appare inversa rispetto a quanto dichiarato in campagna
elettorale.
Come spiegato dal Corriere della Sera, "si passa da 48,3 a 44,4
miliardi nel giro di tre anni, con una riduzione delle risorse sia per
l'istruzione primaria (da 29,4 a 27,1 miliardi di euro) che per quella
secondaria (da 15,3 a 14,1 miliardi)" e i tagli incidono anche sui
fondi per gli insegnanti di sostegno e per i progetti di integrazione
scolastica per allievi con Bes per una cifra pari a 1 miliardo e 300
milioni di euro. "Il bilancio pubblico riclassificato per 'azioni
politiche' allegato alla legge di bilancio indica in modo chiaro e
netto le scelte del governo per i prossimi tre anni. Ebbene, su quel
documento è scritto nero su bianco che il governo del cambiamento
taglierà 4 miliardi di euro all'istruzione pubblica e a determinare
questa flessione sarà, soprattutto, la riduzione dei fondi destinati
agli insegnanti di sostegno. La sforbiciata sarà di 1 miliardo e 300
milioni di euro nel prossimo triennio. Il governo che sostiene di
essere nato per aiutare il popolo colpisce indiscriminatamente i più
deboli. Si dovrebbero vergognare di fare cassa sulle fragilità. Possono
scrivere tutte le liste della spesa possibili, ma a breve non potranno
più nascondere le loro bugie dietro la peggiore propaganda".
In sostanza, dunque, i tagli alla scuola colpiranno tutti quei bambini
disabili, con disturbi dell'apprendimento o bisogni educativi speciali
che hanno necessità di essere seguiti da particolari figure dedicate o
che hanno bisogno di determinati progetti per l'integrazione
scolastica. I tagli alla scuola sconfessano le promesse da campagna
elettorale del vicepremier Di Maio ma soprattutto vanno a ledere i
diritti dei bambini più bisognosi, che a causa di questi risparmi si
vedranno negare i necessari aiuti. La spesa italiana per istruzione è
pari al 3,9% del Pil, quasi un punto percentuale in meno rispetto alla
media Ue (4,7%), e gli indicatori suggeriscono che andrebbe
considerevolmente aumentata e non ridotta.
La scuola è come un alveare e mai è consigliabile scuoterla perché le
api si agitano, e le api agitate pungono. Invece tutti i ministri
appena arrivati scuotono, dimentichi che per una volta l'unica vera
riforma della costantemente riformata scuola italiana sarebbe da tempo
un coraggioso annuncio di nessuna riforma per un quinquennio almeno. Se
le forze armate avessero subito altrettante riforme, che fanno disfano
sovrappongono dividono, oggi probabilmente avremmo gli alpini
sommergibilisti, e i sommozzatori carristi. I nuovi ministri non si
sono ancora seduti sulla poltrona che devono annunciare la
disapplicazione dell'ultima riforma lasciata dal predecessore. Vedasi
l'annuncio lo scorso ottobre dell''ennesima versione dellesame di
maturità avviata dal ministro Valeria Fedeli (governo Gentiloni); le
prove scritte scendono da tre a due con grande gioia di studentie
famiglie.
Il nuovo ministro Marco Bussetti, della Lega, insegnante e dirigente
scolastico di professione, ha aggiunto, tentazione irresistibile,
alcune riformette di suo. Per accedere alla maturità, cioè all'esame
finale che chiude la scuola media superiore, non saranno più necessarie
le ore di alternanza scuola-lavoro, contestatissime in Italia ma che
funzionano in Svizzera, Germania e altrove. E inoltre il test Invalsi
del quinto anno di superiori non sarà più parte deè pari al 3,9% del
Pil, quasi un punto percentuale in meno rispetto alla media Ue (4,7%),
e gli indicatori suggeriscono che andrebbe considerevolmente aumentata
e non ridotta.
Questi tre quadr(ett)i: l'andamento numerico dei disabili nella scuola
(noi abbiamo puntato solo sulle elementari che durano cinque
anni), i finanziamenti nella Legge di Bilancio 2019 (anno che vai,
denominazione che cambia….) , le “mania” delle riforme dei vari
ministri che si succedono si coniugano con l'altimo quadr(ett)o:
l'Aran accerta per il triennio 2016-2018 la rappresentatività
sindacale: il comparto scuola registra ben 145 sigle sindacali. L'Aran
ha definito l'accertamento ufficiale della rappresentatività sindacale
all'interno dei comparti pubblici, pubblicando per ogni sigla sindacale
in dettaglio i dati associativi (deleghe) ed elettorali (voti per le
RSU), in base ai quali viene determinato il tasso di rappresentatività.
Avete letto bene: centoquarantacinque organizzazioni sindacali sono la
controparte del ministero dell'istruzione e della ricerca.
Le scelte economiche e riformatrici del governo legastellato sulla
scuola, oltre al ridicolo di avere come ministro un professore di
ginnastica dirigente scolastico che fa venire in mente la mens sana in
corpore sano oppure libro e moschetto fascista perfetto (a scelta visto
che i penta stellati non sarebbero ne di destra ne di sinistra e la
Lega sulla scuola ha porco nerbo) sono coerenti col processo di
privatizzazione della scuola pubblica italiana che é ormai in buona
parte privatizzata ma non si può dire. Meglio non dirlo.
Perché quelli che sono gli investimenti statali nella scuola (pubblica
e privata) si accompagnano poi alle spese che i vari enti locali
destinano in sovrappiù. Sovrappiù non certo nel senso che sarebbero uno
spreco: tutt'altro. Attorno alla scuola non esistono solo le lezioni
private che p.e. il Codacons stima costino quasi un miliardo alle
famiglie e siano per il 90% pagate “in nero” (gli insegnanti rimandano
un alunno su quattro, stima sempre il CODACONS) ma i Comuni con
apposite deliberazioni (piani del diritto allo studio). Pur non essendo
tra le uscite primarie, anche le amministrazioni locali contribuiscono
al funzionamento del sistema scolastico: con servizi alle famiglie e la
manutenzione delle strutture di proprietà. Vediamo quanto vale questo
capitolo del bilancio nelle maggiori città italiane.
In generale far funzionare e organizzare il sistema educativo è una
prerogativa statale, e i comuni non hanno competenza specifica sulle
spese per l'istruzione, a eccezione di quelle per gli asili nido, che
però rientrano tra quelle sociali e non tra quelle scolastiche. Se si
osserva la classifica di quanto hanno speso le città con oltre 200mila
abitanti nel 2014, (Milano nel 2014 aveva 1,324milioni di abitanti)
emerge che a destinare la cifra maggiore all'istruzione è Milano con
oltre 240 euro per ogni residente. Dopo il capoluogo lombardo troviamo
6 comuni che spendono somme comprese tra i 150 e i 200 euro pro capite,
nell'ordine: Bologna, Verona, Torino, Trieste, Roma e Firenze. A
Genova, Catania e Venezia vengono spesi tra 100 e 150 euro per ogni
residente. La città etnea è l'unica grande città del Sud a superare la
soglia dei 100 euro. Bari, Napoli e Palermo infatti si trovano agli
ultimi posti della classifica, insieme a Padova – penultima con circa
73 euro per abitante.
Da questo quadro, peraltro sommario ma che proviene da fonti
perfettamente attendibili:oggi il governo NON sa quanto costa un alunno
scuola per scuola…, si vede come la scuola pubblica funzioni da motore
per creare occasioni di lavoro e reddito a vantaggio di un gran numero
di categorie che vengono finanziate direttamente dagli enti locali e
dalle stesse famiglie. Nel senso che dalla crescita delle disabilità
fino al numero degli allievi rimandati piuttosto che alla manutenzione
degli edifici é proprio da DENTRO la scuola che si avvia e si innescano
i processi di privatizzazione della prestazione. Non essendo più
possibile espandere la spesa pubblica é stato avviato un percorso di
privatizzazione che serve a recuperare la gran massa dei disoccupati e
sottoccupati che lo stesso settore produce Il disabile che è assistito
della spesa comunale nel piano del diritto allo studio costa 8mila euro
l'anno ciascuno e questa spesa va tutta ai privati i quali non
sono altro che parte del grumo professionale di specializzazione
scolastica che la scuola ha prodotto ma non assume ne potrà mai
assumere.
Che poi un Paese anziché ricostruire dei ragionevoli costi
standard per un servizio pubblico (non lo vuole nessuno ne tra le 145
sigle sindacali e nemmeno nei ministeri…) in modo da controllare le
spese- a partire dallo stato fino all'ultimo comune- adotti il sistema
dei tagli più o meno mirati per favorire o danneggiare quelle
organizzazioni che fanno riferimento o meno alla maggioranza di governo
è la ragione principale del malessere che attraversa il Paese che si
vede saccheggiato sia dallo stato che dai privati ed alla fine i propri
figli non trovano lavoro e mentre la parte migliore degli stessi fugge
all'estero. L'Italia si conferma maglia nera in Europa per la quota di
Neet, i giovani tra i 18 e 24 anni che non hanno un lavoro né sono
all'interno di un percorso di studi. I nuovi dati diffusi da Eurostat
vedono il nostro Paese primeggiare nel 2017 nella classifica europea,
con una percentuale del 25,7% (era il 26% nel 2016), a fronte di una
media europea del 14,3%.
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MANOVRA: IL 2019 NON PROMETTE NULLA DI BUONO PER IL GOVERNO. SALVINI L'HA CAPITO, DIMAIO NO
Nell’interminabile travaglio, doloroso e grottesco, che ha accompagnato
il parto della legge finanziaria 2019, tra tutti i contendenti il solo
punto a favore è quello che può marcarsi il governo giallo-verde per
aver tenuta botta – unico caso a memoria d’uomo – a fronte della
Commissione europea: il merito del rifiuto di assumere la postura del
tappetino; tutelando almeno formalmente la propria dignità di partner
dell’Unione indisponibile a scendere al livello di uno Tsipras
qualunque, che sbraita e fa il fenomeno a casa propria e poi – in
trasferta – si trasforma in uno yes-man sottomesso a ogni prepotenza.
Posizione “verticale” – la nostra – in cui vigeva non solo calcolo
elettorale ma anche legittima fierezza. E pure molto bluff
teatralizzato, indubbiamente. Ma la politica ha una sua eminente
dimensione simbolica che non deve mai essere sottovalutata. Cui
possiamo aggiungere l’inaspettato soccorso della dea bendata: la
fortunosa e inaspettata accensione dello stellone d’Italia, sotto forma
di riacutizzarsi del pasticcio Brexit e di crollo improvviso della
grandeur macroniana sotto schiaffo dei gilets jaunes, che ha dirottato
altrove l’attenzione primaria di Bruxelles. Ennesima conferma che la
fortuna aiuta gli audaci (o magari gli incoscienti).
Per il resto – dato al nostro governo quello che è del governo – la
sostanza dell’intera vicenda è stata di una pochezza disarmante in
quanto a contenuti.
Intanto siamo tornati ai dibattiti parlamentari silenziati a colpi di
fiducia; con un effetto silenziamento che non riesce a nascondere la
mancanza di progetto politico, che non sia quello di blandire i
rispettivi elettorati dei due azionisti di governo. Difatti solo Luigi
Di Maio (o a suo tempo Matteo Renzi) può pensare che distribuire mance
a pioggia evochi una Mano Invisibile che innesca sviluppo. Tema che non
tocca minimamente Matteo Salvini, intento a coccolarsi gli energumeni
del tifo ultras, che potranno venire bene a partire dalle votazioni del
prossimo maggio. Per le abbinate elezioni europee e amministrative.
Sempre che il Capitano dal tweet facile non pensi di incassare in
politiche anticipate il tesoretto virtuale di consensi accreditatigli
dai sondaggi.
Perché l’intermediario tra i due effettivi capi di governo Giovanni
Conte ha un bel dire che la compagine non deve e non può essere
sciolta, può ingegnarsi a scaricare le tensioni interne promettendo
rimpasti che gli vengono immediatamente smentiti. Il fatto è che il
boss leghista è animale dalle antenne troppo sensibili per non rendersi
conto che quando gli effetti della manovra economica di fine anno
entreranno in funzione saranno dolori. Altro che “finanziaria del
popolo”, il varo del vagheggiato nuovo corso di risanamento nazionale.
Difatti se Luigi Di Maio sguaina in permanenza il suo ormai cronico
sorriso incosciente, il faccione salviniano rivela una crescente
cupezza per i segnali che gli giungono dalle sue storiche enclave a
Nord-Est; siano le associazioni industriali, sia il governatore veneto
Zaia, che percepiscono aggravamenti sociali ed economici in arrivo.
Sotto forma di ulteriore caduta libera del sistema produttivo, dopo le
tante chiacchiere sulle imprese 4.0 e le meraviglie competitive
inesistenti del nostro export, ma anche come risentimento
montante quando sarà
percepito appieno l’effetto di aggravamento della pressione fiscale determinato dai pasticci governativi.
La previsione che qui si fa è che anche per il tandem Salvini-Di Maio
la luna di miele con il Paese tenda all’esaurimento. Ma il primo si è
costruito un marchingegno che a breve lo mette in sicurezza nei
confronti della crescente natura ondivaga del corpo elettorale. Per il
secondo, dopo aver dilapidato tra Puglia e Val di Susa buona parte del
capitale di consensi che aveva portato 5S a essere il primo partito
nazionale, potrebbe prefigurarsi un destino analogo a quello
dell’Italia dei Valori e del suo guru Antonio Di Pietro. Del resto
esperienze che trovano il proprio trait d’union nel comune patrocinio
della Casaleggio Associati.
Mentre continua a essere incomprensibile cosa le opposizioni ci stiano a fare.
Pierfranco Pellizzetti
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DAL GOVERNO UN'IDEONA PER GORI&GANDI:
UNA APP DA 10 EURO PER ENTRARE IN BUS IN CITA'ALTA
Mica paglia sedere nello stesso ristorante milanese dove stava
pasteggiando tale Philippe Daverio in compagnia di altri tre
fortunati e tra le tante battute ascoltate abusivamente dal nostro
ricordiamo questa: “fare la guida dei musei e delle città é come
mettere un laureato in scienze alimentari a fare il cameriere che
raccoglie gli ordini alla mensa di san Francesco”. Il collegamento
della battuta è con Città Alta. Chissà quale orgasmo avranno provato il
sindaco Gori assieme all'assessore Gandi quando hanno saputo che nella
legge di bilancio 2019 del governo penta leghista c'è la disposizione
di pagare il biglietto per entrare a Venezia. Scrive Marco Belpoliti :
“la Venezia dei forestieri e degli antiquari falsificatori, la città
calamita dello snobismo (oggi divenuto di massa), delle imbecillità
universali (confine sempre più difficile da tracciare), e "letto
sfondato da carovane di amanti" (27,5 milioni di visitatori l'anno) e
soprattutto "cloaca massima del passatismo" (come negarlo infine?), ha
finalmente un prezzo: da 2,5 a 10 euro nei periodi di alta stagione.
Per entrare si dovrà pagare, come chiede da tempo il sindaco, e non
solo lui. Se si paga a Disneyland, città della fantasia, non si deve
pagare per visitare la Venezia città della fantasia storica odiata dai
Futuristi, ma così amata dai nostri contemporanei?”.
Gori e Gandi ed anche il mite Zenoni già contentissimi delle 190.413
multe da record che in un anno hanno reso al Comune di Bergamo più di
13 milioni, adesso possono mettere in cantiere anche al biglietto
d'ingresso a Città Alta: cinque euro? Dieci? Vedranno.
Scommettendo che metà dei dodici milioni di passeggeri del Caravaggio
che decidono una corsa per città alta trascinandosi appresso rumorose
valige rotellate per cinque euro cadauno fanno 30 milioni di euro ogni
anno. Una manna letteralmente piovuta dal cielo (del Caravaggio).
Tanto ormai la maggior parte delle persone, diseducata da anni di tv
commerciale, considera in cuor suo Disneyland e Bergamo alta analoghe,
nonostante che questo gioiellino architettonico sia stato reso tale da
secoli di storia, dall'accumulo di ricchezze, ingegni, fatiche e sforzi
di una intera civiltà. Oddio: adesso l'è ridotta proprio bruttina: come
una vecchia baracca che dimentichi alla mattina di smaltarsi di tre
chili di fondotinta. Ma va bene: non si può avere sempre tutto.
Tramontata come città storica, Bergamo risorge come città del presente,
dell'attualità, in parallelo dell'Orio Center. In funzione simpatetica:
Caravaggio OrioCenter Città Alta. Un Gran Tour: 10 euro comprensivo di
biglieto del bus, della guida scaricata da un'app oppure un QRcode: da
mezz'ora, un'ora, due ore, mezza giornata, una intera. Multilingue con
sottofondo Donizetti. E la razza dannata degli umarelli e dei
pensionati? Per loro un abbonamento a tariffe secondo l'ISEE. Che
volete di più? Un Lucano e una partita a burraco!
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