Da una manovra in deficit di 16 miliardi a un taglio di 12 .
Quando la sete e la sedia del potere conta più degli interessi del popolo e delle promesse elettorali
La stagnazione dei consumi e la caduta degli investimenti privati nel
terzo trimestre di quest'anno, i dati industriali negativi di inizio
autunno e le prime difficoltà nel collocamento dei titoli di stato sono
il frutto dell'incertezza politico- istituzionale e dell'instabilità
finanziaria creata dall'attuale governo sin dai suoi esordi. La
procedura di infrazione per deficit e debito pubblici eccessivi, aperta
dalla Commissione europea nei confronti del nostro paese, si è quindi
innestata su un quadro economico deteriorato. Negli ultimi giorni il
governo italiano ha compreso la necessità di evitare una conferma della
procedura europea; non ha, invece, ben valutato l'entità degli
aggiustamenti richiesti per ottenere tale risultato. La bozza di
bilancio per il 2019 prevede un aggravio del deficit strutturale (ossia
corretto per il ciclo e depurato dalle spese una tantum) pari allo 0,8%
e un corrispondente rapporto deficit nominale/ Pil pari al 2,4%.
Viceversa, la Commissione europea ha affermato da tempo che il nostro
paese deve progredire verso il suo equilibrio strutturale di bilancio;
e che, a questo fine, il rapporto deficit nominale/ Pil non dovrebbe
superare l'1,6% nel 2019. Essa può forse tollerare un innalzamento di
tale rapporto all' 1,7% e ammettere altri 0,2 punti percentuali (o poco
più) come spese una tantum destinate a fronteggiare i recenti danni del
nostro dissesto idrogeologico. Ne risulta che, per aprire una
trattativa con l'Europa, la correzione minima da apportare alla bozza
di bilancio italiana è di 8,1 miliardi di euro.
I precedenti calcoli si basano sulle previsioni governative per il
2019: tassi di crescita dell'Italia pari allo 0,9% e all' 1,5% —
rispettivamente — senza e con gli effetti espansivi della Legge di
bilancio; un rapporto deficit nominale/ Pil pari al 2,4%. Queste
previsioni sono più ottimistiche di quelle successivamente elaborate
dalla Commissione europea: tasso di crescita dell'Italia per il 2019
pari all' 1,2% e relativo rapporto deficit pubblico/ Pil pari al 2,9%.
Il recente rallentamento dell'economia italiana e la bassa inflazione
attesa portano però a previsioni ancora peggiori: nel 2019, il tasso di
crescita del Pil reale italiano sarà inferiore allo 0,5% e quello del
Pil nominale supererà di poco lo 1,5%. Senza ulteriori aggiustamenti
dell'esistente bozza di bilancio che contribuiscano anche a diminuire i
tassi di interesse sul debito pubblico, vi sarà quindi un sensibile
incremento nel rapporto italiano deficit nominale/ Pil con alti rischi
di sforamento della soglia europea del 3%. Il ciclo negativo e il
conseguente abbassamento del deficit strutturale non basterebbero a
compensare tali tendenze.
Le precedenti considerazioni completano il quadro. Se il governo
italiano intende davvero aprire una trattativa con la Commissione
europea ed evitare l'attuazione della procedura di infrazione (almeno
rispetto al debito eccessivo), deve prepararsi a tagliare subito la
propria bozza di bilancio per poco più di 8 miliardi di euro. Pur
imponendo un rilevante ridimensionamento sia del cosiddetto reddito di
cittadinanza sia della revisione della legge Fornero, questo taglio
rappresenta solo la base di partenza per valutare con la Commissione
europea l'impatto della possibile recessione sul bilancio italiano del
2019 e degli anni successivi. Tale valutazione potrà essere temperata
dal peggioramento dell'economia. Essa richiederà comunque correzioni
per almeno altri 4 miliardi di euro, da sommare agli 8 miliardi già
detti; e, per ridurre l'impatto di queste correzioni sulla crescita,
bisognerà ridisegnare la composizione del bilancio pubblico. In
conclusione, per evitare la procedura di infrazione europea e i
relativi costi sociali, il governo gialloverde deve riscrivere dalle
fondamenta l'impianto di bilancio per il 2019 e per gli anni
successivi. Si tratta di diminuire il disavanzo pubblico nominale per
quasi lo 0,7% del Pil e, al contempo, di aumentare l'incidenza delle
spese di investimento e di formazione delle risorse umane realizzabili
nel breve termine.
Marcello Messori
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L'ITALIA DEGLI IMPOSTORI CATTOLICI
La tragicomica vicenda del padre di DiMaio non ci ha scaldato più di
tanto perché è uno standard proprio delle microimprese edili italiane,
quelle che costituiscono lo scheletro elettorale di Forza Italia, della
Lega, dei fascisti della Meloni. Che poi Giggino non sapesse o se
sapeva taceva anche questo è “normale” in un paese dove qualcuno che
non ha mai lavorato diventa vicepresidente del consiglio. Semmai ci si
deve stupire del fatto che politica e giornali attribuiscano agli
elettori una verginità ed una salute (non quella fisica…) ragion per
cui l'esito elettorale da sempre ragione a chi vince.
Noi siamo convinti che l'esito elettorale sia semmai la manifestazione
delle numerose patologie di una nazione. Dei suoi cittadini. Non
abbiamo bisogno che ce lo ricordi qualcuno.
Ci meraviglia piuttosto che DiMaio e i suoi ispiratori non abbiano
compreso “prima che” presto o tardi il cavaliere e i suoi scherani
avrebbero messo a soqquadro vita morte miracoli della famiglia di
Giacchettina e applicandogli i metodi propri di penta stellati.
Del resto abbiamo due vicepresidenti del consiglio che –uno- ha fatto
carriera politica coi soldi di quel partito dove i suoi dirigenti si
sono ciulati circa 50 milioni di indebiti finanziamenti dello stato e
non si sa dove li abbiano nascosti, riuscendo perfino di farsi
rateizzare la restituzione in mezzo secolo. Il secondo – Giggino
Giacchettina- che ha fatto millanta lavori in nero, l'azienda di
famiglia è stata chiusa una prima volta per un debito enorme col fisco
e l'INPS (160mila euro), un po' di lavoratori non esattamente in regola
col fisco e i contributi.
Insomma: un classico quadretto italiano che –giustamente- gli italiani
da certificati “impustur catolec” premiano col 60% di consenso:
sognando tutti di imitarli e raccogliere il grasso che cola.
Ovviamente ci sono le versioni hard-issime come quelle dei 50 milioni
di finanziamento distolto della Lega, ci sono le versioni
mezze-light dell'impresa DiMaio pater come ci sono quelle idiote di
Renzi e Boschi pater che però finora non hanno subito condanne e
sono riusciti a spennare quasi 200 mila euro di danno a quel boia
di carta che risponde al nome di Travaglio.
Dalla cucina nazionale alla cucina nostrana, leggiamo sulLa Latrina di
Nusquamia una lunga spruzzata di cacca in tema. Peccato che il custode
delLa Latrina di Nusquamia appartenga –versione light- a quella
categoria che usa i beni pubblici per promuovere il proprio lavoro
senza compensare il Paese dello sfruttamento di quei beni pubblici,
così come metta in piedi imprese grafiche alloggiandole presso un
negozio di fiorista (sarebbe una violazione edilizia da condonare) e la
pubblicizzi dimenticando di indicare la partita IVA semmai sia stata
chiesta. Davvero questa della Daedalus-Lab alloggiata nel negozio di
fiorista all'insaputa del proprietario da parte della coppia
Piga&Gandolfi pare (evasione contributi a parte) assai simile a
quella del padre di Giacchettina col sovrappiù erotico dell’aggetto
siffredico. Pure Giacchettina Di Maio ha frequentato il classico e poi
s'è iscritto a ingegneria-esattamente come il custode delLa Latrina di
Nuisquamia: l'ing Claudio Piga- per poi trasferirsi a giurisprudenza
dell'Università di Napoli. Il nostro è rimasto invece fiero ingegnere
(edile) anche se non ha mai detto con che votazioni sia uscito
laureato. Ovviamente oltre con lode. Ma come si conferma da sempre, i
sardAgnoli hanno una marcia in più (dei campani) perché il custode
delLa Latrina di Nusquamia ha tolto dalla rete la Daedalus-Lab PRIMA
che i fratelli DiMaio decidessero di cancellare l'impresa fam
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Non solo Tav. Torino porta la politica del Sì nel mondo 4.0
Occorre tornare a concepire l'infrastruttura come un corpo integrato e
non estraneo al processo di sviluppo che si intende costruire. Sempre
di più la differenza tra un'infrastruttura utile e un'infrastruttura
percepita come superflua, sarà determinata dal suo carattere
ecosistemico. L'intervento di Stefano Cianciotta, presidente
Osservatorio Nazionale Infrastrutture di Confassociazioni
Il tema delle grandi infrastrutture aveva già diviso nell'elaborazione
del Contratto di Governo Lega e M5S, la prima interessata a sostenere
gli investimenti europei all'interno delle nuove direttrici di
sviluppo, mentre il Movimento con un atteggiamento più ostruzionistico.
Se dopo la tragedia di Genova bisognava evitare una pericolosa
dicotomia tra la manutenzione delle infrastrutture esistenti e la
necessità di realizzarne di nuove, dopo le manifestazioni di Torino il
governo deve avere il coraggio di tornare a mettere al centro
dell'agenda il tema dello sviluppo infrastrutturale del Paese, per dare
non solo una prospettiva di crescita all'Italia, ma anche per
aumentarne la credibilità difronte agli investitori e alle istituzioni
internazionali.
Mentre il resto del mondo in questo ultimo decennio ha scelto di
investire sulle infrastrutture per favorire una nuova fase di sviluppo,
l'Italia è andata nella direzione opposta. Dall'inizio della crisi del
2008, infatti, l'Italia ha registrato un gap di investimenti di circa
85 miliardi di euro; gli investimenti pubblici sono diminuiti di oltre
un terzo, mentre quelli per le infrastrutture sono passati dai 29
miliardi del 2009 ai 16 miliardi del 2017.
Questo è il risultato di specifiche scelte di politica di bilancio, che
hanno portato il Paese a contenere la spesa, agendo per lo più sulla
componente in conto capitale e meno su quella corrente. Una posizione
che ha segnato negativamente la riduzione della dotazione
infrastrutturale e logistica, mentre l'intero settore delle costruzioni
ha perso nello stesso periodo 600.000 posti di lavoro. Disinvestire
nelle infrastrutture è costato ogni anno all'Italia almeno un punto di
Pil.
Rilanciare il tema delle infrastrutture, inoltre, significa definire
una nuova cultura organizzativa della pubblica amministrazione, che
abbia nelle strutture tecniche allargate dei veri e propri Centri di
competenza, dove possano finalmente lavorare insieme non solo ingegneri
e architetti, ma tutte le competenze che concorrono alla realizzazione
di progetti innovativi (si pensi alle infrastrutture digitali e al BIM).
Occorre, pertanto, tornare a concepire l'infrastruttura come un corpo
integrato e non estraneo al processo di sviluppo che si intende
costruire. Sempre di più, infatti, la differenza tra un'infrastruttura
utile e un'infrastruttura percepita come superflua, sarà determinata
dal suo carattere ecosistemico.
Se nel dibattito dovesse prevalere la percezione di un corpo estraneo
alla comunità si creerebbero le premesse per rinunciare alle
infrastrutture. L'infrastruttura genera valore non in quanto opera, ma
perché determina e contribuisce alla ridefinizione dell'ecosistema nel
suo senso più ampio. Quando si fa ecosistema l'infrastruttura non è
solo un progetto economico fondato sul mercato, ma si trasforma in un
progetto sociale. Ed è spesso quest'ultima dimensione che determina la
tensione sui territori, perché non viene correttamente interpretata a
causa della percezione errata determinata dalla carenza di strategie di
comunicazione e di partecipazione, sulle quali le imprese devono
assolutamente cominciare a investire, come sta accadendo in queste
settimane.
C'è un altro elemento positivo nelle manifestazioni di Torino, infatti,
che fa il paio con la petizione lanciata su change.org da
Federmeccanica per salvaguardare e rilanciare l'alternanza
Scuola/Lavoro, e le stesse affermazioni dei sindacati. Artigiani,
commercianti, cooperative, industriali, hanno finalmente capito che la
comunicazione è strategica per contrastare il no, e che modificare la
percezione delle infrastrutture senza il contributo della rete e di una
nuova narrazione oggi è praticamente impossibile. Del resto la Tav, al
di là delle tensioni degli ultimi anni, ha avuto proprio nel gap di
comunicazione il suo vulnus più evidente per essere percepita e
compresa dall' opinione pubblica. Il progetto attuale, infatti, è il
risultato di 180 incontri promossi con gli amministratori e le comunità
locali dai tempi del I governo Prodi. Semmai le istituzioni a suo tempo
hanno peccato per il troppo silenzio, lasciando colpevole spazio alla
protesta, che la rete e i social network hanno trasformato in dissenso.
Torino segna l'ingresso del Sì nel mondo 4.0 e nell'era dei social.
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