schermata 2000 pixels










Di cosa parliamo in questa pagina.
Le gazzette sono scatenate in attesa che caschi il governo. Non lo dicono apertamente ma sotto sotto ci sperano. Mica perchè gli stia sul gozzo il governo SalviMaio ma solo per golosità editoriale.
A nostro modesto avviso adesso si aspetta la reazione del governo all'Ue del 13 novembre e di quella dell'Ue al governo. Noi abbiamo una certezza: che con un gran fiammeggiare di tuittate e fessbuccate resteranno in campo solo i condoni e un primo anno di quota cento ma non per tutti. Poi galleggeranno seguendo il principio andreottiano cercando di schivare la botta europea rimandando il programma.

Voto negli USA. Non é andata male ai democratici. Adesso il Trump é dimezzato. Vedremo cosa riuscirà a combinare.
Da Washington. «È una grande vittoria, anzi per essere onesto, una vittoria quasi completa». Donald Trump legge il voto del midterm in una lunga conferenza stampa in cui, però, nasconde la notizia di giornata: le dimissioni del ministro della Giustizia, Jeff Sessions. Dopo averlo accusato e anche insultato per averlo lasciato solo nell'inchiesta sul Russiagate, Trump ha chiesto e ottenuto la rinuncia di Sessions.
Il presidente potrà ora scegliere un sostituto con meno problemi di ratifica al Senato, dove il partito repubblicano potrebbe aumentare la maggioranza di 3-4 seggi, arrivando a occuparne 54 su 100. I conservatori, invece, hanno perso malamente la Camera dei deputati. Qui i democratici potrebbero superare di slancio la soglia della maggioranza di 218, salendo fino a 235 parlamentari.
Trump, in versione pragmatica, ne prende atto, accogliendo la proposta della leader democratica Nancy Pelosi: collaboriamo nell'interesse del Paese. Con un avvertimento: se le Commissioni di inchiesta della Camera indagheranno, per esempio, sulla dichiarazione fiscale del presidente, non ci saranno accordi.
In realtà questo esito politico discende direttamente dall'analisi del voto.(...)
P.S.: in copertina la data l'abbiamo errata.



LA SEDUTA DEL CONSIGLIO COMUNALE DEL 30 OTTOBRE 2018

Una seduta che é stata un lungo e interminabile monologo della sindaca GambaAl terzo colpo la pubblicazione del filmato della seduta é riuscita anche se tra la seconda e la terza parte pare manchi una parte niente affatto secondaria in cui la consigliera Carrara fa cenno a delle "minacce" che sarebbero arrivate alla sindaca Gamba in ambito di un problema nella gestione del CVI2 alla Marigolda. Anche per via della presenza  nell'ordine del giorno di due varianti al bilancio comunale (che dopo l'approvazione in giunta vanno anche approvate dal consiglio). Magari se si dotassero di un registratore digitale a15 piste in modo che  anche se parlano due consiglieri, restano incise entrambe le voci, non sarebbe male.
Il lungo e interminabile (alla fine noiosissimo!) monologo della
sindaca, interrotto brevemente
dagli interventi di un paio di assessori e della minoranza, "forse" varrebbe la pena che la stessa sindaca lo proponesse su una pagina web del Comune man mano i temi  vengono al pettine visto che sono argomenti che interessano sopratutto i cittadini piuttosto che i pochi consiglieri. Non ultimo ma primo  sarebbe il caso che la sindaca o la capogruppo di maggioranza desse qualche spiegazione "politica" di quelle variazioni di bilancio visto che- basta ascoltare l'insieme- pare che il Comune di Curno abbia in buona sostanza una finanza comunale derivata dalla regione. Alla fine della riunione le due uniche  novità sono il casino dentro il CVI2 (passato sotto silenzio) e che la giunta aspetta con grande "fame" la parte di oneri che verranno -forse agli inizi del 2019- dall'amp'liamento del  centro commerciale.





































IL GOVERNO NON CADE
LA SCUOLA DI ANDREOTTI

In due giorni ci siamo inflitti la pena di ascoltare e vedere l'intervento di Conte e Monti a DiMartedì e per finire in bellezza in giorno successivo quello di Salvini dalla Gruber. Poi anche le tre parti della registrazione del consiglio comunale del 30 ottobre u.s. dove c'è un “salto” tra il secondo e il terzo pezzo (in un argomento delicato). Il giorno successivo il governo SalviMaio ha dovuto mettere la fiducia al Senato sul decreto sicurezza del ministro dell'interno visto che cinque senatori "dissidenti" del M5s vengono segnalati dal capogruppo Stefano Patuanelli al collegio dei probiviri del Movimento, che avvia un'istruttoria. In tre - Gregorio De Falco, Paola Nugnes ed Elena Fattori - prendendo la parola in Aula, hanno affermato che, pur continuando a sostenere il governo, tuttavia non avrebbero preso parte al voto perché in profondo disaccordo sui contenuti del decreto, considerato all'opposto rispetto alle politiche dei cinquestelle. Altri due senatori pentastellati -  Vittoria Bogo Deledda e Mario Michele Giarrusso - risultano malati. Si astiene, infine, l'ex M5s Carlo Martelli. Da parte sua Salvini non si mostra preoccupato dalle defezioni interne al Movimento.
Questo è stato il secondo voto di fiducia posto dal governo Conte. Il 13 settembre  c'era stata la prima fiducia sul Milleproroghe, 329 sì senza fare pieno - Il governo Conte incassa la prima fiducia posta alla Camera su un provvedimento, il Milleproroghe che tagliava 1,6 miliardi ai fondi per le periferie e prevedeva l'autocertificazione per i vaccini nelle scuole: l'esecutivo ha avuto dalla sua 329 voti a favore, in flessione rispetto ai 350 avuti il 6 giugno, il giorno dell'insediamento. Ora si attende il voto finale sul decreto, con l'ostruzionismo Pd.
Alla fine i voti mancanti non giustificati sono sette (12 assenti erano in missione e quindi giustificati), cinque di M5s (Cabras, Corneli e la no-vax Cunial) e due della Lega (Bazzaro e Covolo). Hanno invece votato la fiducia due deputati pro-vax di M5s medici, Carmelo Misiti e Giorgio Trizzino, contrari alla norma con l'autocertificazione per i vaccini. Quanto agli altri partiti Fdi non ha partecipato al voto (il 6 giugno si astenne), mentre Fi e Pd hanno votato contro. I Dem hanno avviato un ostruzionismo sugli ordini del giorno, scelta criticata da Fi.
Sulla prescrizione  è stato trovato l'accordo. Per Salvini entrerà in vigore in modo posticipato, nell'ambito della riforma epocale della giustizia penale, l'anno prossimo, vale a dire che si parte dal 2020. Per il ministro Bonafede: «L'emendamento non cambia». Sembra un accordo che fa tutti contenti — il M5S che può scandire lo slogan «Ottime notizie! #BastaImpuniti e la Lega che rinvia di un anno decisioni scomode —, ma che ha il sapore di un compromesso di facciata. Tanto che Piercamillo Davigo, a margine del plenum del Consiglio superiore della magistratura, precisa che, essendo «la prescrizione una norma di diritto sostanziale», la riforma gialloverde, una volta varata, si applicherebbe «ai reati commessi dopo l'entrata in vigore della norma: vedremo gli effetti quando sarò morto...». Amen.
Però il tema sensibilissimo della giustizia ha diviso i vicepremier e creato un solco tra i gruppi parlamentari. Il sì alla fiducia sul decreto Salvini è andato in scena in assenza di Luigi Di Maio, a conferma dell'ondata di gelo calata tra il Carroccio e il Movimento. Il tema tra l'altro, incrocia la politica. Alcuni leghisti sono convinti che le «formulazioni massimaliste» dei 5 stelle nel decreto anti corruzione si prestino «tra processi senza fine e interdizione perpetua dai pubblici uffici» a diventare uno strumento di «sfoltimento giacobino degli avversari».
Arrabbiato Salvini ma altrettanto arrabbiato pure DiMaio che si sfoga con i suoi. «Io al tavolo con Berlusconi non mi ci sono mai seduto proprio perché volevo andare al Governo per riformare la giustizia e fermare i furbetti del quartierino», dice. Poi si è lasciato scappare un «sono buono e caro ma adesso mi sto stancando»: parole che fanno scattare il livello di guardia all'interno del Movimento e che segnano quanto fosse surriscaldato il clima nella maggioranza di governo. Tra i parlamentari c'è stato anche chi si è posto una deadline: «Vediamo cosa accade nelle prossime quarantotto ore (prima del voto al decreto sicurezza di Salvini) , il filo del dialogo non si è spezzato, ma se c'è chi pensa solo di incassare senza venire incontro alle nostre posizioni si sbaglia».
Scrivono le gazzette che risulta assai  complicato per Di Maio tener testa a Salvini, perché ci sono (anche) le regole del Movimento a metterlo in difficoltà, fino a zavorrarlo. Se la competizione con il leader del Carroccio è una sfida ad handicap, è perché nella faticosa gestione quotidiana il capo di M5S non può minacciare il ritorno anticipato alle urne, che nel gioco democratico può servire come exit strategy o come strumento di pressione politica al tavolo delle trattative di governo con gli alleati. Il vincolo del «doppio mandato» — che è il tratto distintivo dello statuto grillino — sottrae però allo stato maggiore dei Cinquestelle un'arma formidabile, e tatticamente lo pone in una condizione di svantaggio al cospetto della Lega. Il fatto è che ad aver raggiunto la seconda legislatura non è il solo Di Maio, ma la gran parte dei membri del governo e dei rappresentanti istituzionali: in base al regolamento i ministri Fraccaro, Grillo, Lezzi e Toninelli, i sottosegretari Buffagni e Castelli, il presidente della Camera Fico, la vice presidente del Senato Taverna — oltre a numerosi parlamentari — non potrebbero più ricandidarsi. Così l'intero vertice del Movimento è oggi un'«anatra zoppa», non è in grado cioè di esercitare appieno le sue funzioni perché di fatto considerato in scadenza.
Questa condizione sbilancia il rapporto con il Carroccio e influenza le dinamiche interne ai Cinquestelle, finendo per indebolire il controllo del vice PdC sui gruppi parlamentari. Ce n'è la prova con i cinque senatori che si sono rifiutati di votare ieri il dl Sicurezza: il fatto che siano stati segnalati ai probiviri è il tentativo di mostrare il pugno di ferro. Ma fino a un certo punto, perché non è alle viste una loro espulsione: il motivo non è solo legato ai numeri risicati del governo al Senato, il problema è che i vertici di M5S non hanno la forza politica per un simile atto di forza. A indicare il «re nudo» è stato nei giorni scorsi proprio uno dei «dissidenti», De Falco, che ha usato proprio il vincolo del doppio mandato per replicare a Di Maio: «Minaccia di cacciarmi? Ricordo che anche lui è a termine».
Noi siamo invece convinti che i 5S si rimangeranno completamente il principio del doppio mandato e poi a casa. Hanno già dimostrato di possedere una gran faccia di tolla. Di Maio senza più mandato parlamentare e incarichi di governo vivrebbe una strana condizione: sarebbe capo politico per dieci anni senza poter più avere incarichi parlamentari o di governo. Occorre quindi sfatare quel tabù. Un primo strappo alle regole è già avvenuto per il voto del 4 marzo, quando le «parlamentarie» sono state usate solo per i candidati del proporzionale, mentre i candidati sull'uninominale sono stati scelti in modo discrezionale. Un'altra «deroga» è allo studio per selezionare la squadra dell'Europarlamento. Ma il nodo politico è il doppio mandato: scioglierlo non sarà indolore scrivono le gazzette. Invece il corpaccione dei 5S e la massa del suo elettorato ha già mentalmente cancellata la regola che vieta il terzo mandato.
Adesso si aspetta la reazione del governo all'Ue il 13 novembre e di quella al governo. Noi abbiamo una certezza: che con un gran fiammeggiare di tuittate e fessbuccate resteranno in campo solo i condoni e un primo anno di quota cento ma non per tutti. Poi galleggeranno seguendo il principio andreottiano cercando di schivare la botta europea rimandando il programma.
UNO E NESSUNO


Da Washington. «È una grande vittoria, anzi per essere onesto, una vittoria quasi completa». Donald Trump legge il voto del midterm in una lunga conferenza stampa in cui, però, nasconde la notizia di giornata: le dimissioni del ministro della Giustizia, Jeff Sessions. Dopo averlo accusato e anche insultato per averlo lasciato solo nell'inchiesta sul Russiagate, Trump ha chiesto e ottenuto la rinuncia di Sessions.
Il presidente potrà ora scegliere un sostituto con meno problemi di ratifica al Senato, dove il partito repubblicano potrebbe aumentare la maggioranza di 3-4 seggi, arrivando a occuparne 54 su 100. I conservatori, invece, hanno perso malamente la Camera dei deputati. Qui i democratici potrebbero superare di slancio la soglia della maggioranza di 218, salendo fino a 235 parlamentari.
Trump, in versione pragmatica, ne prende atto, accogliendo la proposta della leader democratica Nancy Pelosi: collaboriamo nell'interesse del Paese. Con un avvertimento: se le Commissioni di inchiesta della Camera indagheranno, per esempio, sulla dichiarazione fiscale del presidente, non ci saranno accordi.
In realtà questo esito politico discende direttamente dall'analisi del voto. Il «nazionalista» Trump è stato bocciato dallo stesso popolo che aveva invocato e che si è mobilitato in modo massiccio. Il 6 novembre 114 milioni di cittadini si sono presentati alle urne, contro i 138 milioni del 2016. Alla Camera i democratici hanno vinto con un margine del 4%. Anche al Senato il segnale del voto popolare è limpido: 45,8 milioni di preferenze per i democratici (56,9%) e 33,3 milioni per i repubblicani (41,5%).
La mappa del midterm segnala cambiamenti importanti. I democratici ritornano in forze negli «Stati della rabbia»: Pennsylvania soprattutto, poi Michigan e Wisconsin, conquistati a sorpresa da Trump nel 2016. Ma cominciano a radicarsi in modo convincente anche in pieno territorio repubblicano, nel Sud, nel West. L'esempio più vistoso è il Texas. Qui il personaggio copertina del midterm, Beto O' Rourke, non è riuscito, per un punto percentuale, a battere il repubblicano Ted Cruz, ma i progressisti prevalgono in 13 distretti su 36. In particolare dominano nella fascia sul confine: da El Paso, la città di O'Rourke, fino a Laredo. Proprio dove la Casa Bianca ha inviato circa 5 mila soldati per fronteggiare la carovana dei migranti.
Il Paese ha accentuato le sue divisioni demografiche e geopolitiche. Le zone rurali e dell'America profonda ai repubblicani, le aree metropolitane ai democratici. L'esperienza, però, dimostra che gli equilibri sono molto fluidi. Da qui al 2020 Trump può recuperare negli Stati industriali del Nord. Nello stesso tempo, non può dare per scontato l'appoggio della Florida dove Rick Scott e Ron De Santis hanno superato di strettissima misura i rivali in gara per il Senato e per il posto da governatore. Persino in Georgia si è mosso qualcosa, come dimostra il buon esito della democratica Stacey Abrams, sconfitta per circa due punti.
La grande partecipazione delle donne e il movimento «MeToo» hanno contribuito a spostare i rapporti di forza. Con un limite evidente, tuttavia, su cui la leadership democratica dovrà riflettere. Le senatrici moderate Claire McCaskill in Missouri e Heidi Heitkamp, in North Dakota, sono state travolte. È possibile che abbiano davvero pagato il «no» alla nomina alla Corte Suprema del giudice Brett Kavanaugh, accusato di abusi sessuali. Il movimento «MeToo» si è dissolto nelle grandi praterie oltre il Mississippi.

Giuseppe Sarcina