IL GOVERNO NON CADE
LA SCUOLA DI ANDREOTTI
In due giorni ci siamo inflitti la pena di ascoltare e vedere
l'intervento di Conte e Monti a DiMartedì e per finire in bellezza in
giorno successivo quello di Salvini dalla Gruber. Poi anche le tre
parti della registrazione del consiglio comunale del 30 ottobre u.s.
dove c'è un “salto” tra il secondo e il terzo pezzo (in un argomento
delicato). Il giorno successivo il governo SalviMaio ha dovuto mettere
la fiducia al Senato sul decreto sicurezza del ministro dell'interno
visto che cinque senatori "dissidenti" del M5s vengono segnalati dal
capogruppo Stefano Patuanelli al collegio dei probiviri del Movimento,
che avvia un'istruttoria. In tre - Gregorio De Falco, Paola Nugnes ed
Elena Fattori - prendendo la parola in Aula, hanno affermato che, pur
continuando a sostenere il governo, tuttavia non avrebbero preso parte
al voto perché in profondo disaccordo sui contenuti del decreto,
considerato all'opposto rispetto alle politiche dei cinquestelle. Altri
due senatori pentastellati - Vittoria Bogo Deledda e Mario
Michele Giarrusso - risultano malati. Si astiene, infine, l'ex M5s
Carlo Martelli. Da parte sua Salvini non si mostra preoccupato dalle
defezioni interne al Movimento.
Questo è stato il secondo voto di fiducia posto dal governo Conte. Il
13 settembre c'era stata la prima fiducia sul Milleproroghe, 329
sì senza fare pieno - Il governo Conte incassa la prima fiducia posta
alla Camera su un provvedimento, il Milleproroghe che tagliava 1,6
miliardi ai fondi per le periferie e prevedeva l'autocertificazione per
i vaccini nelle scuole: l'esecutivo ha avuto dalla sua 329 voti a
favore, in flessione rispetto ai 350 avuti il 6 giugno, il giorno
dell'insediamento. Ora si attende il voto finale sul decreto, con
l'ostruzionismo Pd.
Alla fine i voti mancanti non giustificati sono sette (12 assenti erano
in missione e quindi giustificati), cinque di M5s (Cabras, Corneli e la
no-vax Cunial) e due della Lega (Bazzaro e Covolo). Hanno invece votato
la fiducia due deputati pro-vax di M5s medici, Carmelo Misiti e Giorgio
Trizzino, contrari alla norma con l'autocertificazione per i vaccini.
Quanto agli altri partiti Fdi non ha partecipato al voto (il 6 giugno
si astenne), mentre Fi e Pd hanno votato contro. I Dem hanno avviato un
ostruzionismo sugli ordini del giorno, scelta criticata da Fi.
Sulla prescrizione è stato trovato l'accordo. Per Salvini entrerà
in vigore in modo posticipato, nell'ambito della riforma epocale della
giustizia penale, l'anno prossimo, vale a dire che si parte dal 2020.
Per il ministro Bonafede: «L'emendamento non cambia». Sembra un accordo
che fa tutti contenti — il M5S che può scandire lo slogan «Ottime
notizie! #BastaImpuniti e la Lega che rinvia di un anno decisioni
scomode —, ma che ha il sapore di un compromesso di facciata. Tanto che
Piercamillo Davigo, a margine del plenum del Consiglio superiore della
magistratura, precisa che, essendo «la prescrizione una norma di
diritto sostanziale», la riforma gialloverde, una volta varata, si
applicherebbe «ai reati commessi dopo l'entrata in vigore della norma:
vedremo gli effetti quando sarò morto...». Amen.
Però il tema sensibilissimo della giustizia ha diviso i vicepremier e
creato un solco tra i gruppi parlamentari. Il sì alla fiducia sul
decreto Salvini è andato in scena in assenza di Luigi Di Maio, a
conferma dell'ondata di gelo calata tra il Carroccio e il Movimento. Il
tema tra l'altro, incrocia la politica. Alcuni leghisti sono convinti
che le «formulazioni massimaliste» dei 5 stelle nel decreto anti
corruzione si prestino «tra processi senza fine e interdizione perpetua
dai pubblici uffici» a diventare uno strumento di «sfoltimento
giacobino degli avversari».
Arrabbiato Salvini ma altrettanto arrabbiato pure DiMaio che si sfoga
con i suoi. «Io al tavolo con Berlusconi non mi ci sono mai seduto
proprio perché volevo andare al Governo per riformare la giustizia e
fermare i furbetti del quartierino», dice. Poi si è lasciato scappare
un «sono buono e caro ma adesso mi sto stancando»: parole che fanno
scattare il livello di guardia all'interno del Movimento e che segnano
quanto fosse surriscaldato il clima nella maggioranza di governo. Tra i
parlamentari c'è stato anche chi si è posto una deadline: «Vediamo cosa
accade nelle prossime quarantotto ore (prima del voto al decreto
sicurezza di Salvini) , il filo del dialogo non si è spezzato, ma se
c'è chi pensa solo di incassare senza venire incontro alle nostre
posizioni si sbaglia».
Scrivono le gazzette che risulta assai complicato per Di Maio
tener testa a Salvini, perché ci sono (anche) le regole del Movimento a
metterlo in difficoltà, fino a zavorrarlo. Se la competizione con il
leader del Carroccio è una sfida ad handicap, è perché nella faticosa
gestione quotidiana il capo di M5S non può minacciare il ritorno
anticipato alle urne, che nel gioco democratico può servire come exit
strategy o come strumento di pressione politica al tavolo delle
trattative di governo con gli alleati. Il vincolo del «doppio mandato»
— che è il tratto distintivo dello statuto grillino — sottrae però allo
stato maggiore dei Cinquestelle un'arma formidabile, e tatticamente lo
pone in una condizione di svantaggio al cospetto della Lega. Il fatto è
che ad aver raggiunto la seconda legislatura non è il solo Di Maio, ma
la gran parte dei membri del governo e dei rappresentanti
istituzionali: in base al regolamento i ministri Fraccaro, Grillo,
Lezzi e Toninelli, i sottosegretari Buffagni e Castelli, il presidente
della Camera Fico, la vice presidente del Senato Taverna — oltre a
numerosi parlamentari — non potrebbero più ricandidarsi. Così l'intero
vertice del Movimento è oggi un'«anatra zoppa», non è in grado cioè di
esercitare appieno le sue funzioni perché di fatto considerato in
scadenza.
Questa condizione sbilancia il rapporto con il Carroccio e influenza le
dinamiche interne ai Cinquestelle, finendo per indebolire il controllo
del vice PdC sui gruppi parlamentari. Ce n'è la prova con i cinque
senatori che si sono rifiutati di votare ieri il dl Sicurezza: il fatto
che siano stati segnalati ai probiviri è il tentativo di mostrare il
pugno di ferro. Ma fino a un certo punto, perché non è alle viste una
loro espulsione: il motivo non è solo legato ai numeri risicati del
governo al Senato, il problema è che i vertici di M5S non hanno la
forza politica per un simile atto di forza. A indicare il «re nudo» è
stato nei giorni scorsi proprio uno dei «dissidenti», De Falco, che ha
usato proprio il vincolo del doppio mandato per replicare a Di Maio:
«Minaccia di cacciarmi? Ricordo che anche lui è a termine».
Noi siamo invece convinti che i 5S si rimangeranno completamente il
principio del doppio mandato e poi a casa. Hanno già dimostrato di
possedere una gran faccia di tolla. Di Maio senza più mandato
parlamentare e incarichi di governo vivrebbe una strana condizione:
sarebbe capo politico per dieci anni senza poter più avere incarichi
parlamentari o di governo. Occorre quindi sfatare quel tabù. Un primo
strappo alle regole è già avvenuto per il voto del 4 marzo, quando le
«parlamentarie» sono state usate solo per i candidati del
proporzionale, mentre i candidati sull'uninominale sono stati scelti in
modo discrezionale. Un'altra «deroga» è allo studio per selezionare la
squadra dell'Europarlamento. Ma il nodo politico è il doppio mandato:
scioglierlo non sarà indolore scrivono le gazzette. Invece il
corpaccione dei 5S e la massa del suo elettorato ha già mentalmente
cancellata la regola che vieta il terzo mandato.
Adesso si aspetta la reazione del governo all'Ue il 13 novembre e di
quella al governo. Noi abbiamo una certezza: che con un gran
fiammeggiare di tuittate e fessbuccate resteranno in campo solo i
condoni e un primo anno di quota cento ma non per tutti. Poi
galleggeranno seguendo il principio andreottiano cercando di schivare
la botta europea rimandando il programma.
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UNO E NESSUNO
Da Washington. «È una grande vittoria, anzi per essere onesto, una
vittoria quasi completa». Donald Trump legge il voto del midterm in una
lunga conferenza stampa in cui, però, nasconde la notizia di giornata:
le dimissioni del ministro della Giustizia, Jeff Sessions. Dopo averlo
accusato e anche insultato per averlo lasciato solo nell'inchiesta sul
Russiagate, Trump ha chiesto e ottenuto la rinuncia di Sessions.
Il presidente potrà ora scegliere un sostituto con meno problemi di
ratifica al Senato, dove il partito repubblicano potrebbe aumentare la
maggioranza di 3-4 seggi, arrivando a occuparne 54 su 100. I
conservatori, invece, hanno perso malamente la Camera dei deputati. Qui
i democratici potrebbero superare di slancio la soglia della
maggioranza di 218, salendo fino a 235 parlamentari.
Trump, in versione pragmatica, ne prende atto, accogliendo la proposta
della leader democratica Nancy Pelosi: collaboriamo nell'interesse del
Paese. Con un avvertimento: se le Commissioni di inchiesta della Camera
indagheranno, per esempio, sulla dichiarazione fiscale del presidente,
non ci saranno accordi.
In realtà questo esito politico discende direttamente dall'analisi del
voto. Il «nazionalista» Trump è stato bocciato dallo stesso popolo che
aveva invocato e che si è mobilitato in modo massiccio. Il 6 novembre
114 milioni di cittadini si sono presentati alle urne, contro i 138
milioni del 2016. Alla Camera i democratici hanno vinto con un margine
del 4%. Anche al Senato il segnale del voto popolare è limpido: 45,8
milioni di preferenze per i democratici (56,9%) e 33,3 milioni per i
repubblicani (41,5%).
La mappa del midterm segnala cambiamenti importanti. I democratici
ritornano in forze negli «Stati della rabbia»: Pennsylvania
soprattutto, poi Michigan e Wisconsin, conquistati a sorpresa da Trump
nel 2016. Ma cominciano a radicarsi in modo convincente anche in pieno
territorio repubblicano, nel Sud, nel West. L'esempio più vistoso è il
Texas. Qui il personaggio copertina del midterm, Beto O' Rourke, non è
riuscito, per un punto percentuale, a battere il repubblicano Ted Cruz,
ma i progressisti prevalgono in 13 distretti su 36. In particolare
dominano nella fascia sul confine: da El Paso, la città di O'Rourke,
fino a Laredo. Proprio dove la Casa Bianca ha inviato circa 5 mila
soldati per fronteggiare la carovana dei migranti.
Il Paese ha accentuato le sue divisioni demografiche e geopolitiche. Le
zone rurali e dell'America profonda ai repubblicani, le aree
metropolitane ai democratici. L'esperienza, però, dimostra che gli
equilibri sono molto fluidi. Da qui al 2020 Trump può recuperare negli
Stati industriali del Nord. Nello stesso tempo, non può dare per
scontato l'appoggio della Florida dove Rick Scott e Ron De Santis hanno
superato di strettissima misura i rivali in gara per il Senato e per il
posto da governatore. Persino in Georgia si è mosso qualcosa, come
dimostra il buon esito della democratica Stacey Abrams, sconfitta per
circa due punti.
La grande partecipazione delle donne e il movimento «MeToo» hanno
contribuito a spostare i rapporti di forza. Con un limite evidente,
tuttavia, su cui la leadership democratica dovrà riflettere. Le
senatrici moderate Claire McCaskill in Missouri e Heidi Heitkamp, in
North Dakota, sono state travolte. È possibile che abbiano davvero
pagato il «no» alla nomina alla Corte Suprema del giudice Brett
Kavanaugh, accusato di abusi sessuali. Il movimento «MeToo» si è
dissolto nelle grandi praterie oltre il Mississippi.
Giuseppe Sarcina
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