Quando la solitudine genera tiranni
di Michele Ainis
Ci si può sentire soli vivendo in compagnia di sessanta milioni di
persone? È quanto sta accadendo agli italiani: una solitudine di massa,
un sentimento collettivo d'esclusione, di lontananza rispetto alle vite
degli altri, come se ciascuno fosse un'isola, una boa che galleggia in
mare aperto. La solitudine si diffonde tra gli adolescenti, presso i
quali cresce il fenomeno del ritiro sociale, altrimenti detto
hikikomori. Diventa una prigione per gli anziani, la cui unica compagna
è quasi sempre la tv. Infine sommerge come un'onda ogni generazione,
ogni ceto sociale, ogni contrada del nostro territorio.
Ne sono prova le ricerche sociologiche, oltre che l'esperienza di cui
siamo tutti testimoni: 8,5 milioni di italiani (la metà al Nord) vivono
da soli; e molti di più si sentono soli, senza un affetto, senza il
conforto di un amante o d'un amico. Così, nel 2015, Eurostat ha
certificato che il 13,2 per cento degli italiani non ha nessuno cui
rivolgersi nei momenti di difficoltà: la percentuale più alta d'Europa.
Mentre l'11,9 per cento non sa indicare un conoscente né un parente con
cui parli abitualmente dei propri affanni, dei propri problemi. Non a
caso Telefono Amico Italia riceve quasi cinquantamila chiamate l'anno.
Non a caso, stando a un Rapporto Censis (dicembre 2014), il 47 per
cento degli italiani dichiara di rimanere da solo in media per 5 ore al
giorno. E non a caso quest'anno, agli esami di maturità, la traccia più
scelta dagli studenti s'intitolava "I diversi volti della solitudine
nell'arte e nella letteratura".
Questa malattia non colpisce soltanto gli italiani.
È un fungo tossico della modernità, e dunque cresce in tutti i boschi.
Negli Stati Uniti il 39 per cento degli adulti non è sposato né
convive; mentre l'Health and Retirement Study attesta che il 28 per
cento dei più vecchi passa le giornate in uno stato di solitudine
assoluta. Succede pure in Giappone, dove gli anziani poveri e soli
scelgono il carcere, pur di procurarsi cibo caldo e un po' di
compagnia; o in Inghilterra, dove la metà degli over 75 vive da sola.
Tanto che da quelle parti il governo May, nel gennaio 2018, ha
istituito il ministero della Solitudine, affidandone la guida a Tracey
Crouch; ma già in precedenza funzionava una commissione con le medesime
funzioni, inventata da Jo Cox, la deputata laburista uccisa da un
estremista alla vigilia del referendum su Brexit. Insomma, altrove
questo fenomeno viene trattato come un'emergenza, si studiano rimedi,
si battezzano commissioni e dicasteri. In Italia, viceversa, viaggiamo
a fari spenti, senza interrogarci sulle cause delle nuove solitudini,
senza sforzarci di temperarne gli effetti.
Quanto alle cause, l'elenco è presto fatto. In primo luogo la
tecnologia, che ci inchioda tutto il giorno davanti allo schermo del
cellulare o del computer, allontanandoci dal contatto fisico con gli
altri, segregandoci in una bolla virtuale. In secondo luogo l'eclissi
dei luoghi aggreganti - famiglia, chiesa, partito - sostituiti da una
distesa di periferie che ormai s'allargano fin dentro i centri storici
delle città. In terzo luogo le nuove forme del commercio e del consumo:
chiudono i negozi, dove incontravi le persone; aprono gli ipermercati,
dove ti mescoli alla folla. In quarto luogo l'invecchiamento della
popolazione, che trasforma una gran massa d'individui in ammalati
cronici, e ciascuno è sempre solo dinanzi al proprio male. In quinto
luogo e infine, la precarietà dell'esistenza: una volta ciascuno moriva
nel paesello in cui era nato, dopo aver continuato lo stesso mestiere
del nonno e del papà; ora si cambia città e lavoro come ci si cambia
d'abito, senza trovare il tempo di farsi un nuovo amico, di
familiarizzare con i nuovi colleghi.
Con quali conseguenze? Secondo un gruppo di ricercatori della Brigham
Young University, la solitudine danneggia la salute quanto il fumo di
15 sigarette al giorno: giacché provoca squilibri ormonali, malumore,
pressione alta, insonnia, maggiore vulnerabilità alle infezioni. Altri
studiosi (John e Stephanie Cacioppo, dell'Università di Chicago)
mettono l'accento sull'aggressività dei solitari, le cui menti
sviluppano un eccesso di reazione, uno stato di perenne allerta, come
dinanzi a un pericolo incombente. C'è un altro piano, tuttavia, ancora
da esplorare: la politica, il governo della polis. L'individuo separato
o è bestia o è dio, diceva Aristotele. Ma nelle società contemporanee
la solitudine di massa ci rende tutti bestie alla mercé di un dio.
Sussiste una differenza, infatti, tra solitudine e isolamento. La prima
può ben corrispondere a una scelta; il secondo è sempre imposto, è una
condanna che subisci tuo malgrado. Nell'epoca della disintermediazione,
della crisi di tutti i corpi collettivi, della partecipazione politica
ridotta a un tweet o a un like, questa condanna ci colpisce uno per
uno, trasformandoci in una nube d'atomi impazziti. Eravamo popolo,
siamo una somma d'egoismi, senza un collante, senza un sentimento
affratellante. Dunque più deboli rispetto alla stretta del potere.
Perché è la massa, non il singolo, che può arginarne gli abusi. E
perché il potere dispotico - ce lo ha ricordato Hannah Arendt (Vita
activa), sulle orme di Montesquieu - si regge sull'isolamento: quello
del tiranno dai suoi sudditi, quello dei sudditi fra loro, a causa del
reciproco timore e del sospetto. Sicché il cerchio si chiude: le nostre
solitudini ci consegnano in catene a un tiranno solitario.
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(dove sta il problema?)
CROLLATO UN PONTE
SE NE COSTRUISCE
UN ALTRO
Il
ponte sul Polcevera, nominato anche Viadotto Morandi o anche Ponte di Brooklin
venne progettato agli inizi degli anni ’60 e iniziato nel 1963, venne inaugurato quattro anni dopo -1967- da Saragat.
L'ing. Riccardo Morandi (1902-1989) brevettò un sistema di
precompressione denominato “Morandi M5” che applicò a diverse sue opere. Ciò
che rese famoso Morandi, però, è la struttura del ponte a cavalletti bilanciati
che riassume l'unione tra la trave precompressa isostatica e le strutture
strallate. Questa soluzione la si ritrova in diverse opere dello stesso
Morandi. Uomo onesto visto che in uno studio (scritto in inglese) effettuato
nel 1979: solo 12 anni dopo l'inaugurazione ("Il comportamento a lungo
termine dei viadotti esposti a traffico pesante situati in ambiente aggressivo:
il viadotto sul Polcevera, a Genova") dallo stesso Morandi viene spiegato
a parole chiare quanto il ponte crollato sia stato soggetto agli agenti
atmosferici: "Penso che prima o poi, forse già tra pochi anni, sarà
necessario ricorrere a un trattamento per la rimozione di ogni traccia di
ruggine sui rinforzi esposti, con iniezioni di resine epossidiche dove
necessario, per poi coprire tutto con elastomeri ad altissima resistenza
chimica. C'è un rischio concreto di corrosione. La struttura viene aggredita
dai venti marini che sono canalizzati nella valle attraversata dal viadotto. Si
crea così un'atmosfera, ad alta salinità che per di più, sulla sua strada prima
di raggiungere la struttura, si mescola con i fumi dei camini dell'acciaieria
(si riferisce a un vecchio stabilimento Uva) e si satura di vapori altamente
nocivi. Le superfici esterne delle strutture, ma soprattutto quelle esposte
verso il mare e quindi più direttamente attaccate dai fumi acidi dei camini,
iniziano a mostrare fenomeni di aggressione di origine chimica. È in atto una
perdita di resistenza superficiale del calcestruzzo". Morandi quindi
suggerisce l'impiego di elastomeri e resine per proteggere le parti soggette a
corrosione.
Per Morandi era importante proteggere
"la superficie del calcestruzzo, per accrescerne la resistenza chimica e
meccanica all'abrasione". E 16 anni dopo quella relazione, i tecnici del
Politecnico di Milano guidati da Carmelo Gentile erano arrivati alla stessa
conclusione. Due anni di osservazione, tra il 1993 e il 1995, avevano permesso
di capire che gli elementi critici della struttura erano proprio i tiranti,
quelli che, secondo una testimonianza, sarebbero crollati piombando sulle
carreggiate e innescando un devastante effetto domino. I tirati di metallo
affogati nel cemento si stavano corrodendo, proprio come aveva previsto
Morandi, che pure aveva immaginato quella soluzione.
Infine nel novembre del 2017 ancora i
tecnici del Politecnico guidati da Gentile suggerirono l'installazione di
sensori per monitorare il ponte in tempo reale. Autostrade, secondo quanto dice
a La Verità Stefano Della Torre, collega di Gentile, preferì aspettare e
inserire il piano sensori nel complesso dei lavori da far partire dopo l'estate.
Ovvio
domandarsi cosa abbiano fatto in 37 anni sia Autostrade (fino al 1999: anno in
cui passa dall’ANAS all’ASPI) che ASPI per aumentarne la stabilità e
confermarne la sicurezza.
Oggi
le tuniche parole sensate che abbiamo letto sono
quelle nel comunicato del l'Istituto di tecnologia delle costruzioni del
Centro Nazionale delle Ricerche: “La sequenza di crolli di infrastrutture
stradali italiane sta assumendo, da alcuni anni, un carattere di preoccupante
regolarità". L'elemento in comune è l'età (media) delle opere: gran parte
delle infrastrutture viarie italiane (i ponti stradali) ha superato i 50 anni
di età, che corrispondono alla vita utile associabile alle opere in
calcestruzzo armato realizzate con le tecnologie disponibili nel secondo dopoguerra
(anni '50 e '60)”, continua l'Istituto.
In pratìca ”decine di migliaia di ponti in Italia hanno superato, oggi, la
durata di vita per la quale sono stati progettati e costruiti”.
E in moltissimi casi “i costi prevedibili per la manutenzione straordinaria
che sarebbe necessaria a questi ponti superano quelli associabili alla
demolizione e ricostruzione: le cifre necessarie per rammodernamento dei ponti
stradali in Italia sarebbero espresse in decine di miliardi di euro”.
Però si sente lontano il ritornello: crollato un ponte, se ne
faccia un altro. A l’Aquila si sentì una risata. Ritornello che in Italia suona
sinistro non solo perché i ponti crollano.
Qualunque cosa o battuta se ne dica, oggi non riusciremmo a
costruire in quattro anni un viadotto come quello. Non ce la faremmo ne per le scontate resistenze della
popolazione ne per ragioni fisiche. Basti pensare ai cinque lustri della
vicenda della “gronda”. Quel ponte –allora- non fu edificato solo dall’impresa
ma da TUTTI i genovesi. Basta vedere le immagini ed i filmati eseguiti durante
la costruzione per rabbrividire. Per esempio tutto il tensionamento dei cavi
nelle travi e negli impalcati venne fatto sul cantiere, anche a decine di metri
dal suolo.
Non sarà possibile ma anche solo studiare i cambiamenti climatici
e il correlato inquinamento cui è stato sottoposto il viadotto nei 50 anni e tutto
l’insieme sarebbe una scuola per l’ingegneria e per la salvezza di tante
persone visti quanti ponti di ignoto destino ci sono ancora in servizio.
Ignoto il tributo di caduti sul lavoro e feriti che ci siano
stati: non ne parla mai nessuno. C’è da sperare che non ve ne siano stati.
Adesso il viadotto è accatastato in un piazzale lato Polcevera
assieme alla carcasse dei mezzi recuperati dai VVFF. I quali hanno operato
prima di tutto per salvare e recuperare le vittime piuttosto che raccogliere e
preservare le varie parti del ponte rovinate a terra in modo che le commissioni
tecniche che dovranno esaminarle possano concludere il lavoro con indicazioni certe piuttosto che ipotesi di
maggiore aderenza al vero.
La magistratura per quel che si sa dai giornali non ha nominato da
subito un tecnico che presiedesse al recupero dei pezzi del viadotto crollato
in modo da preservarli “adeguatamente” per la perizia sul crollo e adesso ci
saranno problemi grossissimi: tecnici
legali civili penali. Il che fa pensare che
in Italia la tragedia non finirà mai com’è accaduto per le troppe stragi di
stato.
Del resto la fretta che vediamo esibita da parte della politica
regionale per risolvere i problemi degli sfollati creerà tanti e tali problemi
che oltre a travolgere gli sfortunati travolgerà la politica: non può non vedere
una improvvisazione di chi vuole mostrare alla TV “il fare” senza pensare che “dopo”
bisognerà fare dei conti non solo economici ma prima di tutto etici e morali e
poi economici legali civili.
Fuori dubbio che l’ANAS distolse la propria attenzione sul destino
del viadotto fino al 1992-1994 quando – in totale contraddizione con le pessime
relazioni dello stesso progettista-
anziché mettere mano alla pila 9
(quella più a valle, quella crollata nell’agosto scorso) chissà perché
mise a punto un sistema – va detto senza dubbio: intelligente efficiente
pratico e poco costoso- per rinforzare gli stralli… della pila 12, quella più a
monte (o ad est) . Gli stralli della pila n.9 e 10 che erano gli elementi
individuati fin dal 1981 come i più ammalo rati entreranno nel progetto del
2017.
Leggiamo: “L’intervento
principale oggetto del presente appalto, consistente nella realizzazione di un
sistema di tesatura esterna degli stralli in calcestruzzo relativi alle pile n.9
e 10, si è reso necessario al fine di sopperire alla progressiva perdita di
funzionalità dei cavi di precompressione inglobati nello strallo stesso. Tale intervento, di notevole complessità tecnica e realizzativa,
non si limita tuttavia al solo ripristino di una configurazione statica di
primo impianto; il sistema di ancoraggio dei cavi esterni consente infatti la
regolazione del tiro da imporre agli stessi, anche in momenti successivi
all’intervento in oggetto, in modo da adattarsi perfettamente ad eventuali
mutamenti dello stato tensionale dell’opera dovuti a fattori esterni. Il
nuovo sistema consente inoltre di gestire l'eventuale comparsa di trazioni nel
calcestruzzo nocive per lo stato di conservazione dei cavi originari annegati
nel getto. L’intervento proposto, unitamente al sistema di monitoraggio che
verrà contestualmente installato sugli stralli, è pertanto da considerarsi come
un vero e proprio provvedimento migliorativo che, pur non portando a
sostanziali modifiche del comportamento dell’opera induce sugli stralli una
favorevole coazione di compressione che allunga la vita utile di questi
elementi, fondamentali per la statica del ponte, incrementando cosi il valore
del cespite. Considerata pertanto la
natura e le finalità migliorative dell'intervento proposto si ritiene che lo
stesso possa trovare allocazione economica all’interno del Capitolo “Altri Investimenti"
art 2.2 lettera C.5 della Convenzione Unica”.
Segue poi una drammatica descrizione dei difetti pile n. 9-10 ed impalcati tra pila n.9 e
pila n.11 così come riportati dal rapporto trimestrale STOone, allegato alla
presente relazione. STOone è una società
La storia del ponte Morandi è fatta di allarmi
inascoltati. Anno 2001. «La fase diagnostica ha evidenziato una situazione ben
più grave rispetto alle forme di degrado cui sono solitamente oggetto le
infrastrutture realizzate con gli stessi materiali. Gli stralli, infatti,
elementi generalmente tesi, sono in questo caso soggetti a compressione, così
come la guaina di rivestimento in calcestruzzo. Questo particolare accorgimento
(...) non ha permesso di effettuare alcuna operazione ispettiva sui trefoli di
acciaio, le singole fibre del cavo interno, che in molti casi avevano già
raggiunto lo snervamento». E ancora: «Numerosi trefoli erano tranciati o
fortemente ossidati, altri erano visibilmente rilasciati lasciando supporre una
loro rottura a valle». Così scriveva nel 2001, riferendosi all’intero ponte,
Giovanna Franco, docente dell’università di Genova, in uno studio pubblicato
sulla rivista di Docomomo Italia, l’associazione per la documentazione degli
edifici e dei complessi urbanistici.
Solo nel 2017 ASPI i professori del
Politecnico di Milano Carmelo Gentile e Antonello Ruoccolo, ingaggiati da
Autostrade per una consulenza periodica sullo stato dell’opera, scrivono una
relazione che verrà consegnata il 12 novembre, nella quale segnalano una
«evidente» disparità di tenuta tra gli stralli, ovvero i tiranti, che
potrebbero essere la causa del crollo di martedì. «In particolare gli stralli,
ovvero i tiranti, del sistema numero 9 si presentano con una deformata modale
non conforme alle attese e certamente meritevole di approfondimenti
teorico-sperimentali». Le cause vanno ricercate in una sollecitazione generata
da possibili fenomeni di corrosione, oppure da difetti di iniezione del cemento
armato. Ma l’anomalia c’era. E il sistema numero 9 fa parte del blocco crollato
nel torrente Polcevera e sulle strade sottostanti.
Alla fine della tragedia. Appare evidente come
ANAS fosse già al corrente di avere in mano una struttura molto problematica ma
per ragioni che andranno cercate gli venne messa mano solo nel 1991 e alla pila
11, quella che probabilmente era al tempo
nelle migliori condizioni rispetto alle pile sorelle nove e dieci. ANAS
disponeva delle risorse economiche per
attuare anche nelle due pile lo stesso intervento effettuato sulla pila n.11
ma questo non successe. Non successe nemmeno nel
1993-1994 e poi nel 1999 finalmente l’ANAS si “disfò” del problema perché tutto
passo nelle mani di Autostrade per l’Italia e tutto il circo economico che vi
stava e vi starà dentro negli anni successivi.
Dall’affidamento in concessione passeranno
altri 2017-1999=18 anni prima che il concessionario ASPI si accorga e metta
mano ad un progetto che dalle carte appare sotto il profilo tecnico appare
ineccepibile mentre sotto il profilo dell’inquadramento amministrativo appare
dissimulato in maniera tale da non “provocare” la sospensione del traffico nonché
il riconoscimento della spesa da rifondere con l’aumento del periodo di
concessione o del pedaggio. Lo stabilirà (forse) la magistratura non si sa
quando.
Ci pare una classica storia italiana. Cambia la
proprietà la gestione i dirigenti anche gli stessi operari che vanno ogni
giorno sulla struttura e intanto viene
persa contezza di avere a che fare con qualcosa che sta “a fine vita”. Reggerà
finché i cavi di uno strallo non reggeranno più e patapunfete!. Mio dio! Mio dio!
Mio dio è crollato il ponte!. 43 morti e qualche miliardo di danno.
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Il segreto sul progetto Morandi:
"Mai fatto vedere al ministero»
I disegni originali introvabili per anni: ora la procura ne ha ottenuto una copia
Autostrade non installò i sensori consigliati dal Politecnico di
Milano, non predispose come le era stato espressamente richiesto dal
Provveditorato un diagramma che valutasse la "capacità portante nel
tempo" del ponte e, si scopre oggi, al Comitato del Provveditorato che
fu chiamato a valutare il progetto di rinforzo dei tiranti, non
consegnò copia del progetto originale di Morandi del 1967.
Le valutazioni dei cinque tecnici del Comitato furono quindi espresse
senza la possibilità di confrontare gli interventi programmati con i
dati e i disegni originari.
Un altro corto circuito fra Stato, concessionario e organi di
controllo, che emerge dalle indagini sul crollo del viadotto costato la
vita a 43 persone.
Altri punti sono oggetto di accertamenti. Uno riguarda la ripartizione
dei costi del progetto di rinforzo alle pile 9 - quella crollata - e
10, che era stato messo a gara a maggio, per un importo di 20 milioni
più altri 6 milioni di oneri. Il dibattito fra esperti si è concentrato
su quale fosse la natura amministrativa dell'intervento: manutenzione
ordinaria o lavori migliorativi? Non si tratta di mera questione
linguistica. Poiché nel verbale di febbraio con cui – nonostante
l'elencazione di varie problematiche – il Comitato tecnico del
Provveditorato autorizzava il progetto, questo veniva definito sia come
"intervento locale" ai sensi del decreto ministeriale del 14 gennaio
2008, e poi si sottolineava che " è pertanto da considerarsi come
elemento migliorativo". Nel progetto esecutivo, come raccontato
dall'Espresso, veniva definitivamente classificato ai sensi della
Convenzione Unica come un intervento teso al "miglioramento degli
standard di sicurezza". Tale specificazione, è una delle ipotesi su cui
lavorano gli inquirenti, potrebbe comportare, a differenza di ciò che
avviene per le manutenzioni ordinarie tutte a carico del
concessionario, una partecipazione alla spesa da parte dello Stato. Un
concorso che si concretizzerebbe attraverso uno scomputo del canone di
concessione pagato annualmente da Aspi. La classificazione del lavori
era comunque un compito che spettava al Ministero, in particolare alla
Direzione di Vigilanza sulle Concessioni.
Proprio la ripartizione di ruoli e responsabilità fra le sedi centrali
e quelle periferiche del Mit è un altro degli snodi decisivi
dell'inchiesta. I vertici di Autostrade, per spiegare come non fosse un
compito del cda decidere se i lavori di rinforzo degli stralli
rispondessero a criteri di somma urgenza, precisano che tale decisione
spettava, in caso ritenesse ve ne fossero i presupposti, a Stefano
Marigliani, il direttore del Tronco genovese. Ma il dirigente
"locale"di Aspi ha spiegato di non aver mai ricevuto rapporti o
segnalazioni tali da far scattare la somma urgenza. Tale scelta, va
ricordato, avrebbe potuto comportare misure eccezionali come la
parziale o totale chiusura di carreggiate o corsie di ponte Morandi.
Soluzioni che Autostrade, fin dai tempi della proprietà statale ha
sempre temuto. Lo testimonia il fatto che per il progetto di
miglioramento erano stati previsti addirittura 6 scenari alla voce
"interferenze con il traffico", che comprendevano anche l'opzione di
chiusura totale per 24 notti. Significativo un passaggio della
relazione dei lavori effettuati nel 1993 sulla pila 11. Scrivevano a i
tecnici: "Impensabile interrompere il traffico per effettuare le
riparazioni".
Marco Preve
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