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Di cosa parliamo in questa pagina?
Quando la solitudine genera tiranni
Le idee / Otto milioni e mezzo di italiani vivono soli. E molti di più si sentono isolati, senza amici. Ecco perché nell'epoca social cresce la più inaspettata delle malattie
di Michele Ainis.
Genova, l'inchiesta sul ponte crollato
Il segreto sul progetto Morandi "Mai fatto vedere al ministero"
I disegni originali introvabili per anni: ora la procura ne ha ottenuto una copia
Autostrade: stabilire l'urgenza dei lavori non spettava al cda ma al direttore di tronco
di Marco Preve.
Nella colonna al centro.
Viadotto Morandi. Chissà perché primo intervento di riparazione degli stralli venne fatto (dall’ANAS) sulla pila meno danneggiata (1994). Dopo cinque anni l’autostrada è data in concessione all’ASPI e solo dopo 19 anni quelli dell’ASPI sono partiti col progetto per quello delle altre due pile 9 (quella crollata) e 10. nelle more della burocrazie e dell'appalto é venuto giùlapila n.9.





































Quando la solitudine genera tiranni
di Michele Ainis




Ci si può sentire soli vivendo in compagnia di sessanta milioni di persone? È quanto sta accadendo agli italiani: una solitudine di massa, un sentimento collettivo d'esclusione, di lontananza rispetto alle vite degli altri, come se ciascuno fosse un'isola, una boa che galleggia in mare aperto. La solitudine si diffonde tra gli adolescenti, presso i quali cresce il fenomeno del ritiro sociale, altrimenti detto hikikomori. Diventa una prigione per gli anziani, la cui unica compagna è quasi sempre la tv. Infine sommerge come un'onda ogni generazione, ogni ceto sociale, ogni contrada del nostro territorio.

Ne sono prova le ricerche sociologiche, oltre che l'esperienza di cui siamo tutti testimoni: 8,5 milioni di italiani (la metà al Nord) vivono da soli; e molti di più si sentono soli, senza un affetto, senza il conforto di un amante o d'un amico. Così, nel 2015, Eurostat ha certificato che il 13,2 per cento degli italiani non ha nessuno cui rivolgersi nei momenti di difficoltà: la percentuale più alta d'Europa. Mentre l'11,9 per cento non sa indicare un conoscente né un parente con cui parli abitualmente dei propri affanni, dei propri problemi. Non a caso Telefono Amico Italia riceve quasi cinquantamila chiamate l'anno. Non a caso, stando a un Rapporto Censis (dicembre 2014), il 47 per cento degli italiani dichiara di rimanere da solo in media per 5 ore al giorno. E non a caso quest'anno, agli esami di maturità, la traccia più scelta dagli studenti s'intitolava "I diversi volti della solitudine nell'arte e nella letteratura".

Questa malattia non colpisce soltanto gli italiani.
È un fungo tossico della modernità, e dunque cresce in tutti i boschi. Negli Stati Uniti il 39 per cento degli adulti non è sposato né convive; mentre l'Health and Retirement Study attesta che il 28 per cento dei più vecchi passa le giornate in uno stato di solitudine assoluta. Succede pure in Giappone, dove gli anziani poveri e soli scelgono il carcere, pur di procurarsi cibo caldo e un po' di compagnia; o in Inghilterra, dove la metà degli over 75 vive da sola. Tanto che da quelle parti il governo May, nel gennaio 2018, ha istituito il ministero della Solitudine, affidandone la guida a Tracey Crouch; ma già in precedenza funzionava una commissione con le medesime funzioni, inventata da Jo Cox, la deputata laburista uccisa da un estremista alla vigilia del referendum su Brexit. Insomma, altrove questo fenomeno viene trattato come un'emergenza, si studiano rimedi, si battezzano commissioni e dicasteri. In Italia, viceversa, viaggiamo a fari spenti, senza interrogarci sulle cause delle nuove solitudini, senza sforzarci di temperarne gli effetti.

Quanto alle cause, l'elenco è presto fatto. In primo luogo la tecnologia, che ci inchioda tutto il giorno davanti allo schermo del cellulare o del computer, allontanandoci dal contatto fisico con gli altri, segregandoci in una bolla virtuale. In secondo luogo l'eclissi dei luoghi aggreganti - famiglia, chiesa, partito - sostituiti da una distesa di periferie che ormai s'allargano fin dentro i centri storici delle città. In terzo luogo le nuove forme del commercio e del consumo: chiudono i negozi, dove incontravi le persone; aprono gli ipermercati, dove ti mescoli alla folla. In quarto luogo l'invecchiamento della popolazione, che trasforma una gran massa d'individui in ammalati cronici, e ciascuno è sempre solo dinanzi al proprio male. In quinto luogo e infine, la precarietà dell'esistenza: una volta ciascuno moriva nel paesello in cui era nato, dopo aver continuato lo stesso mestiere del nonno e del papà; ora si cambia città e lavoro come ci si cambia d'abito, senza trovare il tempo di farsi un nuovo amico, di familiarizzare con i nuovi colleghi.

Con quali conseguenze? Secondo un gruppo di ricercatori della Brigham Young University, la solitudine danneggia la salute quanto il fumo di 15 sigarette al giorno: giacché provoca squilibri ormonali, malumore, pressione alta, insonnia, maggiore vulnerabilità alle infezioni. Altri studiosi (John e Stephanie Cacioppo, dell'Università di Chicago) mettono l'accento sull'aggressività dei solitari, le cui menti sviluppano un eccesso di reazione, uno stato di perenne allerta, come dinanzi a un pericolo incombente. C'è un altro piano, tuttavia, ancora da esplorare: la politica, il governo della polis. L'individuo separato o è bestia o è dio, diceva Aristotele. Ma nelle società contemporanee la solitudine di massa ci rende tutti bestie alla mercé di un dio.

Sussiste una differenza, infatti, tra solitudine e isolamento. La prima può ben corrispondere a una scelta; il secondo è sempre imposto, è una condanna che subisci tuo malgrado. Nell'epoca della disintermediazione, della crisi di tutti i corpi collettivi, della partecipazione politica ridotta a un tweet o a un like, questa condanna ci colpisce uno per uno, trasformandoci in una nube d'atomi impazziti. Eravamo popolo, siamo una somma d'egoismi, senza un collante, senza un sentimento affratellante. Dunque più deboli rispetto alla stretta del potere. Perché è la massa, non il singolo, che può arginarne gli abusi. E perché il potere dispotico - ce lo ha ricordato Hannah Arendt (Vita activa), sulle orme di Montesquieu - si regge sull'isolamento: quello del tiranno dai suoi sudditi, quello dei sudditi fra loro, a causa del reciproco timore e del sospetto. Sicché il cerchio si chiude: le nostre solitudini ci consegnano in catene a un tiranno solitario.

(dove sta il problema?)

CROLLATO UN PONTE

SE NE COSTRUISCE

UN ALTRO


Il ponte sul Polcevera, nominato anche Viadotto Morandi o anche Ponte di Brooklin venne progettato agli inizi degli anni ’60 e iniziato nel 1963, venne inaugurato quattro anni dopo -1967- da Saragat.

L'ing. Riccardo Morandi (1902-1989) brevettò un sistema di precompressione denominato “Morandi M5” che applicò a diverse sue opere. Ciò che rese famoso Morandi, però, è la struttura del ponte a cavalletti bilanciati che riassume l'unione tra la trave precompressa isostatica e le strutture strallate. Questa soluzione la si ritrova in diverse opere dello stesso Morandi. Uomo onesto visto che in uno studio (scritto in inglese) effettuato nel 1979: solo 12 anni dopo l'inaugurazione ("Il comportamento a lungo termine dei viadotti esposti a traffico pesante situati in ambiente aggressivo: il viadotto sul Polcevera, a Genova") dallo stesso Morandi viene spiegato a parole chiare quanto il ponte crollato sia stato soggetto agli agenti atmosferici: "Penso che prima o poi, forse già tra pochi anni, sarà necessario ricorrere a un trattamento per la rimozione di ogni traccia di ruggine sui rinforzi esposti, con iniezioni di resine epossidiche dove necessario, per poi coprire tutto con elastomeri ad altissima resistenza chimica. C'è un rischio concreto di corrosione. La struttura viene aggredita dai venti marini che sono canalizzati nella valle attraversata dal viadotto. Si crea così un'atmosfera, ad alta salinità che per di più, sulla sua strada prima di raggiungere la struttura, si mescola con i fumi dei camini dell'acciaieria (si riferisce a un vecchio stabilimento Uva) e si satura di vapori altamente nocivi. Le superfici esterne delle strutture, ma soprattutto quelle esposte verso il mare e quindi più direttamente attaccate dai fumi acidi dei camini, iniziano a mostrare fenomeni di aggressione di origine chimica. È in atto una perdita di resistenza superficiale del calcestruzzo". Morandi quindi suggerisce l'impiego di elastomeri e resine per proteggere le parti soggette a corrosione.
Per Morandi era importante proteggere "la superficie del calcestruzzo, per accrescerne la resistenza chimica e meccanica all'abrasione". E 16 anni dopo quella relazione, i tecnici del Politecnico di Milano guidati da Carmelo Gentile erano arrivati alla stessa conclusione. Due anni di osservazione, tra il 1993 e il 1995, avevano permesso di capire che gli elementi critici della struttura erano proprio i tiranti, quelli che, secondo una testimonianza, sarebbero crollati piombando sulle carreggiate e innescando un devastante effetto domino. I tirati di metallo affogati nel cemento si stavano corrodendo, proprio come aveva previsto Morandi, che pure aveva immaginato quella soluzione.
Infine nel novembre del 2017 ancora i tecnici del Politecnico guidati da Gentile suggerirono l'installazione di sensori per monitorare il ponte in tempo reale. Autostrade, secondo quanto dice a La Verità Stefano Della Torre, collega di Gentile, preferì aspettare e inserire il piano sensori nel complesso dei lavori da far partire dopo l'estate.
Ovvio domandarsi cosa abbiano fatto in 37 anni sia Autostrade (fino al 1999: anno in cui passa dall’ANAS all’ASPI) che ASPI per aumentarne la stabilità e confermarne la sicurezza.
Oggi le tuniche parole sensate che abbia­mo letto sono quelle nel comu­nicato del l'Istituto di tecnologia delle costruzioni del Centro Nazionale del­le Ricerche: “La sequenza di crolli di infrastrutture stradali italiane sta assumendo, da alcuni anni, un carattere di preoccupante regolarità". L'elemento in comune è l'età (media) delle opere: gran parte delle infrastrutture viarie italiane (i ponti stradali) ha superato i 50 anni di età, che corrispondono alla vita utile asso­ciabile alle opere in calcestruzzo armato realizzate con le tecnologie disponibili nel secondo dopoguerra (anni '50 e '60)”, continua l'Istituto.
In pratìca ”decine di migliaia di ponti in Italia hanno superato, oggi, la durata di vita per la quale sono stati progettati e costruiti”.
E in moltissimi casi “i costi prevedi­bili per la manutenzione straordina­ria che sarebbe necessaria a questi ponti superano quelli associabili alla demolizione e ricostruzione: le cifre necessarie per rammodernamento dei ponti stradali in Italia sarebbero espresse in decine di miliardi di euro”.
Però si sente lontano il ritornello: crollato un ponte, se ne faccia un altro. A l’Aquila si sentì una risata. Ritornello che in Italia suona sinistro non solo perché i ponti crollano.
Qualunque cosa o battuta se ne dica, oggi non riusciremmo a costruire in quattro anni un viadotto come quello. Non ce la faremmo  ne per le scontate resistenze della popolazione ne per ragioni fisiche. Basti pensare ai cinque lustri della vicenda della “gronda”. Quel ponte –allora- non fu edificato solo dall’impresa ma da TUTTI i genovesi. Basta vedere le immagini ed i filmati eseguiti durante la costruzione per rabbrividire. Per esempio tutto il tensionamento dei cavi nelle travi e negli impalcati venne fatto sul cantiere, anche a decine di metri dal suolo.
Non sarà possibile ma anche solo studiare i cambiamenti climatici e il correlato inquinamento cui è stato sottoposto il viadotto nei 50 anni e tutto l’insieme sarebbe una scuola per l’ingegneria e per la salvezza di tante persone visti quanti ponti di ignoto destino ci sono ancora in servizio.
Ignoto il tributo di caduti sul lavoro e feriti che ci siano stati: non ne parla mai nessuno. C’è da sperare che non ve ne siano stati.
Adesso il viadotto è accatastato in un piazzale lato Polcevera assieme alla carcasse dei mezzi recuperati dai VVFF. I quali hanno operato prima di tutto per salvare e recuperare le vittime piuttosto che raccogliere e preservare le varie parti del ponte rovinate a terra in modo che le commissioni tecniche che dovranno esaminarle possano concludere il lavoro con  indicazioni certe piuttosto che ipotesi di maggiore aderenza al vero.
La magistratura per quel che si sa dai giornali non ha nominato da subito un tecnico che presiedesse al recupero dei pezzi del viadotto crollato in modo da preservarli “adeguatamente” per la perizia sul crollo e adesso ci saranno  problemi grossissimi: tecnici legali civili penali. Il che fa pensare  che in Italia la tragedia non finirà mai com’è accaduto per le troppe stragi di stato.
Del resto la fretta che vediamo esibita da parte della politica regionale per risolvere i problemi degli sfollati creerà tanti e tali problemi che oltre a travolgere gli sfortunati travolgerà la politica: non può non vedere una improvvisazione di chi vuole mostrare alla TV “il fare” senza pensare che “dopo” bisognerà fare dei conti non solo economici ma prima di tutto etici e morali e poi economici legali civili.
Fuori dubbio che l’ANAS distolse la propria attenzione sul destino del viadotto fino al 1992-1994 quando – in totale contraddizione con le pessime relazioni dello stesso progettista-  anziché mettere mano alla pila 9  (quella più a valle, quella crollata nell’agosto scorso) chissà perché mise a punto un sistema – va detto senza dubbio: intelligente efficiente pratico e poco costoso- per rinforzare gli stralli… della pila 12, quella più a monte (o ad est) . Gli stralli della pila n.9 e 10 che erano gli elementi individuati fin dal 1981 come i più ammalo rati entreranno nel progetto del 2017.
Leggiamo:
L’intervento principale oggetto del presente appalto, consistente nella realizzazione di un sistema di tesatura esterna degli stralli in calcestruzzo relativi alle pile n.9 e 10, si è reso necessario al fine di sopperire alla progressiva perdita di funzionalità dei cavi di precompressione inglobati nello strallo stesso. Tale intervento, di notevole complessità tecnica e realizzativa, non si limita tuttavia al solo ripristino di una configurazione statica di primo impianto; il sistema di ancoraggio dei cavi esterni consente infatti la regolazione del tiro da imporre agli stessi, anche in momenti successivi all’intervento in oggetto, in modo da adattarsi perfettamente ad eventuali mutamenti dello stato tensionale dell’opera dovuti a fattori esterni. Il nuovo sistema consente inoltre di gestire l'eventuale comparsa di trazioni nel calcestruzzo nocive per lo stato di conservazione dei cavi originari annegati nel getto. L’intervento proposto, unitamente al sistema di monitoraggio che verrà contestualmente installato sugli stralli, è pertanto da considerarsi come un vero e proprio provvedimento migliorativo che, pur non portando a sostanziali modifiche del comportamento dell’opera induce sugli stralli una favorevole coazione di compressione che allunga la vita utile di questi elementi, fondamentali per la statica del ponte, incrementando cosi il valore del cespite. Considerata pertanto la natura e le finalità migliorative dell'intervento proposto si ritiene che lo stesso possa trovare allocazione economica all’interno del Capitolo “Altri Investimenti" art 2.2 lettera C.5 della Convenzione Unica”.

Segue poi una drammatica descrizione  dei difetti pile n. 9-10 ed impalcati tra pila n.9 e pila n.11 così come riportati dal rapporto trimestrale STOone, allegato alla presente relazione.  STOone è una società
La storia del ponte Morandi è fatta di allarmi inascoltati. Anno 2001. «La fase diagnostica ha evidenziato una situazione ben più grave rispetto alle forme di degrado cui sono solitamente oggetto le infrastrutture realizzate con gli stessi materiali. Gli stralli, infatti, elementi generalmente tesi, sono in questo caso soggetti a compressione, così come la guaina di rivestimento in calcestruzzo. Questo particolare accorgimento (...) non ha permesso di effettuare alcuna operazione ispettiva sui trefoli di acciaio, le singole fibre del cavo interno, che in molti casi avevano già raggiunto lo snervamento». E ancora: «Numerosi trefoli erano tranciati o fortemente ossidati, altri erano visibilmente rilasciati lasciando supporre una loro rottura a valle». Così scriveva nel 2001, riferendosi all’intero ponte, Giovanna Franco, docente dell’università di Genova, in uno studio pubblicato sulla rivista di Docomomo Italia, l’associazione per la documentazione degli edifici e dei complessi urbanistici.
Solo nel 2017 ASPI i professori del Politecnico di Milano Carmelo Gentile e Antonello Ruoccolo, ingaggiati da Autostrade per una consulenza periodica sullo stato dell’opera, scrivono una relazione che verrà consegnata il 12 novembre, nella quale segnalano una «evidente» disparità di tenuta tra gli stralli, ovvero i tiranti, che potrebbero essere la causa del crollo di martedì. «In particolare gli stralli, ovvero i tiranti, del sistema numero 9 si presentano con una deformata modale non conforme alle attese e certamente meritevole di approfondimenti teorico-sperimentali». Le cause vanno ricercate in una sollecitazione generata da possibili fenomeni di corrosione, oppure da difetti di iniezione del cemento armato. Ma l’anomalia c’era. E il sistema numero 9 fa parte del blocco crollato nel torrente Polcevera e sulle strade sottostanti.

Alla fine della tragedia. Appare evidente come ANAS fosse già al corrente di avere in mano una struttura molto problematica ma per ragioni che andranno cercate gli venne messa mano solo nel 1991 e alla pila 11, quella che probabilmente era al tempo  nelle migliori condizioni rispetto alle pile sorelle nove e dieci. ANAS disponeva delle risorse economiche per  attuare anche nelle due pile lo stesso intervento effettuato sulla pila n.11 ma  questo  non successe. Non successe nemmeno nel 1993-1994 e poi nel 1999 finalmente l’ANAS si “disfò” del problema perché tutto passo nelle mani di Autostrade per l’Italia e tutto il circo economico che vi stava e vi starà dentro negli anni successivi.

Dall’affidamento in concessione passeranno altri 2017-1999=18 anni prima che il concessionario ASPI si accorga e metta mano ad un progetto che dalle carte appare sotto il profilo tecnico appare ineccepibile mentre sotto il profilo dell’inquadramento amministrativo appare dissimulato in maniera tale da non “provocare” la sospensione del traffico nonché il riconoscimento della spesa da rifondere con l’aumento del periodo di concessione o del pedaggio. Lo stabilirà (forse) la magistratura non si sa quando.

Ci pare una classica storia italiana. Cambia la proprietà la gestione i dirigenti anche gli stessi operari che vanno ogni giorno sulla struttura e intanto  viene persa contezza di avere a che fare con qualcosa che sta “a fine vita”. Reggerà finché i cavi di uno strallo non reggeranno più e patapunfete!. Mio dio! Mio dio! Mio dio è crollato il ponte!. 43 morti e qualche miliardo di danno.


Il segreto sul progetto Morandi:
 "Mai fatto vedere al ministero»
I disegni originali introvabili per anni:  ora la procura ne ha ottenuto una copia



Autostrade non installò i sensori consigliati dal Politecnico di Milano, non predispose come le era stato espressamente richiesto dal Provveditorato un diagramma che valutasse la "capacità portante nel tempo" del ponte e, si scopre oggi, al Comitato del Provveditorato che fu chiamato a valutare il progetto di rinforzo dei tiranti, non consegnò copia del progetto originale di Morandi del 1967.
Le valutazioni dei cinque tecnici del Comitato furono quindi espresse senza la possibilità di confrontare gli interventi programmati con i dati e i disegni originari.
Un altro corto circuito fra Stato, concessionario e organi di controllo, che emerge dalle indagini sul crollo del viadotto costato la vita a 43 persone.
Altri punti sono oggetto di accertamenti. Uno riguarda la ripartizione dei costi del progetto di rinforzo alle pile 9 - quella crollata - e 10, che era stato messo a gara a maggio, per un importo di 20 milioni più altri 6 milioni di oneri. Il dibattito fra esperti si è concentrato su quale fosse la natura amministrativa dell'intervento: manutenzione ordinaria o lavori migliorativi? Non si tratta di mera questione linguistica. Poiché nel verbale di febbraio con cui – nonostante l'elencazione di varie problematiche – il Comitato tecnico del Provveditorato autorizzava il progetto, questo veniva definito sia come "intervento locale" ai sensi del decreto ministeriale del 14 gennaio 2008, e poi si sottolineava che " è pertanto da considerarsi come elemento migliorativo". Nel progetto esecutivo, come raccontato dall'Espresso, veniva definitivamente classificato ai sensi della Convenzione Unica come un intervento teso al "miglioramento degli standard di sicurezza". Tale specificazione, è una delle ipotesi su cui lavorano gli inquirenti, potrebbe comportare, a differenza di ciò che avviene per le manutenzioni ordinarie tutte a carico del concessionario, una partecipazione alla spesa da parte dello Stato. Un concorso che si concretizzerebbe attraverso uno scomputo del canone di concessione pagato annualmente da Aspi. La classificazione del lavori era comunque un compito che spettava al Ministero, in particolare alla Direzione di Vigilanza sulle Concessioni.
Proprio la ripartizione di ruoli e responsabilità fra le sedi centrali e quelle periferiche del Mit è un altro degli snodi decisivi dell'inchiesta. I vertici di Autostrade, per spiegare come non fosse un compito del cda decidere se i lavori di rinforzo degli stralli rispondessero a criteri di somma urgenza, precisano che tale decisione spettava, in caso ritenesse ve ne fossero i presupposti, a Stefano Marigliani, il direttore del Tronco genovese. Ma il dirigente "locale"di Aspi ha spiegato di non aver mai ricevuto rapporti o segnalazioni tali da far scattare la somma urgenza. Tale scelta, va ricordato, avrebbe potuto comportare misure eccezionali come la parziale o totale chiusura di carreggiate o corsie di ponte Morandi. Soluzioni che Autostrade, fin dai tempi della proprietà statale ha sempre temuto. Lo testimonia il fatto che per il progetto di miglioramento erano stati previsti addirittura 6 scenari alla voce "interferenze con il traffico", che comprendevano anche l'opzione di chiusura totale per 24 notti. Significativo un passaggio della relazione dei lavori effettuati nel 1993 sulla pila 11. Scrivevano a i tecnici: "Impensabile interrompere il traffico per effettuare le riparazioni".

Marco Preve