Fisco, le finte promesse spesometro e redditometro sono già superati
Marco Ruffolo
Un fisco amico, che capovolga il suo rapporto con noi contribuenti
sulla basse della “buona fede” e della “reciproca collaborazione”, che
ci imponga “il minor aggravio possibile”, eliminando “lo Stato di
paura”. Il programma del governo annuncia la Grande Rivoluzione delle
tasse. Che non significa solo flat tax e condono mascherato da pace
fiscale. Ma che riguarda ogni aspetto del rapporto tra Stato e
contribuenti, nessuno escluso. E tuttavia, in questo annunciato
abbraccio reciproco, il nuovo fisco pentaleghista si espone ad
obiezioni che non pochi esperti si affrettano a rilevare. Se parliamo
di collaborazione, non si può negare che questa sia già praticata da
tempo dalla nostra macchina tributaria, con una serie di strumenti che
vengono incontro ai contribuenti onesti che magari si sono sbagliati
nel dichiarare i propri redditi, o alle imprese che rischiano di
commettere errori per via di eccessive complicazioni burocratiche. Ma
se invece, in nome della collaborazione, il fisco finisce per spuntare
le proprie armi contro gli evasori, allora il discorso cambia. Il
“contratto” di governo annuncia la morte dello spesometro, che è
l'obbligo per le partite Iva di comunicare periodicamente i dati delle
fatture emesse e ricevute. Ma questo era già previsto dai precedenti
governi: al suo posto però sarebbe dovuta entrare in funzione nel 2019
la fatturazione elettronica per tutti. Sarà ancora così?
Rinunciare a questo strumento impedirebbe al fisco di conoscere i
movimenti di 6 milioni di partite Iva. Altro annuncio: l'onere della
prova sarà d'ora in poi sempre a carico dell'amministrazione, senza
eccezioni. Sembra una regola di buon senso e lo è nella maggior parte
dei casi. Oggi però alcune volte il fisco può presumere legittimamente
che l'evasione sia avvenuta, e spetta al contribuente dimostrare il
contrario. Se per esempio ho versato in banca mezzo milione di euro che
però non risulta in nessuna scrittura contabile, presumibilmente quei
soldi mi sono arrivati in nero: in questo caso, come in altre indagini
finanziarie, oggi sono io che devo spiegare come ho avuto quel denaro.
Ma se l'onere non sarà più a carico mio, la mia evasione non potrà
essere colpita.
Così come non si potranno più colpire presunti evasori sulla base del
redditometro, una forma di accertamento del reddito basato sulla
capacità di spesa, che tra l'altro l'amministrazione sta usando ormai
molto di rado. Lo strumento sarà abolito, e poco importa se un
nullatenente potrà viaggiare con la Ferrari o acquistare ville in
Sardegna senza per questo essere considerato evasore.
Un'altra cancellazione è stata annunciata proprio qualche giorno fa dal
vicepremier Luigi Di Maio: quella dello “split payment”. In pratica,
oggi nei rapporti tra Stato e fornitori, questi ultimi non incassano
più l'Iva per poi versarla al fisco, ma è lo Stato a versare l'imposta,
impedendo così la possibile evasione. L'obiezione è che in questo modo
molte imprese finiscono per avere problemi di liquidità perché non
dispongono più in via temporanea dell'Iva incassata e devono però
continuare a pagare l'imposta ai propri fornitori. Un problema,
tuttavia, risolvibile con rimborsi e compensazioni. Mentre abolire lo
strumento impedirebbe il recupero di diversi miliardi di euro.
Ma è possibile per il fisco essere collaborativo e tuttavia non
rinunciare a fondamentali strumenti anti-evasione come la fatturazione
elettronica o lo split payment? Gli ultimi anni, in realtà, ci hanno
fatto conoscere un volto nuovo della macchina tributaria, che non punta
subito all'accertamento ma che tende a dialogare con il contribuente
prima che scatti il contenzioso: lo dimostrano il milione e mezzo di
lettere l'anno per informare i contribuenti di possibili errori;
l'interpello che consente al cittadino di ottenere il parere su una
certa norma; la collaborazione con le imprese che volontariamente si
sottopongono a controlli; la rinuncia agli studi di settore. Tutto
questo sembra poter funzionare anche tenendo alta la guardia contro gli
evasori. I quali invece potranno ora contare, se andranno in porto i
piani del governo, su un doppio potentissimo incentivo: sapere che il
fisco avrà probabilmente meno armi di prima, e soprattutto che la loro
evasione s
|
L'aumento del costo del denaro
di Federico Fubini
Chissà se quella mano anonima davanti alla buca delle lettere era
consapevole delle conseguenze: quelle per il Paese e anche quelle per
gli investitori che ne seguivano gli sviluppi.
Il crollo del mercato italiano ha già cancellato circa 400 miliardi di
valore in azioni e obbligazioni pubbliche o private. Almeno i due terzi
di queste perdite sono a carico di cittadini italiani. E se c'è un
momento in cui tutto è iniziato, a giudicare dal grafico di mercato qui
accanto, è il giorno e l'ora della lettera allo «Huffington Post
Italia». Il momento di martedì 15 maggio nel quale qualcuno fa trovare
una busta anonima con dentro una bozza del «contratto di governo»
M5S-Lega alla sede della testata diretta da Lucia Annunziata. Così
ricostruisce sulla «Stampa», mai smentito, un editorialista amico di
Annunziata quale Francesco Bei.
Il testo affidato allo «Huffington Post» contiene due proposte che
hanno tutto per destabilizzare la fiducia degli investitori verso
l'Italia: l'opzione di uscita dall'euro e l'intenzione di azzerare il
valore dei titoli di Stato comprati nel piano di interventi della Banca
centrale europea. Ovvio che conseguenze non potessero tardare. Poco
importa che nelle versioni successive del «contratto» quelle due
proposte scompaiano: gli investitori sanno che i vertici di M5S e Lega
hanno potuto concepire quelle idee - default e uscita dall'euro -
dunque temono che prima o poi esse riemergano. La fiducia è una
porcellana cinese difficile da ricomporre, una volta finita in pezzi.
Da allora il mercato precipita. Il 22 maggio ha già bruciato circa 200
miliardi, di cui una sessantina in titoli di Stato a scadenza
medio-lunga. Il 29 maggio il rendimento dei titoli di Stato a dieci
anni, che si muove in senso opposto ai prezzi, è ormai esploso al 3,16%
quando era all'1,95% subito prima che quell'anonimo si presentasse allo
«Huffington Post». Il differenziale fra titoli biennali tedeschi e
italiani, appena allo 0,40% prima, arriva a toccare il 3,55%. La
distruzione di risparmio per il 75% di debito pubblico detenuto da
italiani (anche tramite fondi esteri) è enorme
|