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Discorso del Sindaco Luisa Gamba in occasione della celebrazione del XXV aprile 2018
 
Buongiorno a tutti.
Porgo prima di tutto il mio saluto a tutte le Autorità civili e militari presenti, ai rappresentanti locali dell'Associazione Nazionale Fante e dell'Associazione nazionale Alpini, che ringrazio anche per la preziosa e fattiva collaborazione nella realizzazione di questa cerimonia, ai volontari delle diverse associazioni presenti, alle volontarie della biblioteca comunale presenti con un banchetto del progetto “La biblioteca fuori di sé” e a tutti voi cari concittadini e concittadine.
Un particolare saluto va ai ragazzi e alle ragazze della classe 2a C della Scuola Giovanni Pascoli di Curno per averci regalato questo lavoro che è stato realizzato sotto la sapiente guida della Prof.ssa Francesca Brevi e dell'Associa- zione Sotto Alt (r) a quota.
Vi ringrazio per la vostra partecipazione alla celebrazione del XXV aprile, l'Anniversario della Liberazione.
I nostri giovani studenti ci hanno raccontato la scelta importante fatta da tre giovani partigiani che hanno deciso, così come molti loro contemporanei, di diventare protagonisti del loro presente, di combattere per la dignità e la libertà del popolo italiano, hanno lasciato la propria casa e hanno partecipato alla costruzione di un Paese, l'Italia, libero e democratico.
Io penso che il modo migliore per celebrare il XXV Aprile e ringraziare tutti coloro che hanno dato la propria vita per la dignità e libertà del popolo italiano sia vivere pensando che la Resistenza non sia mai finita ma che ancora oggi vada vissuta.
Cosa significa essere partigiani oggi?
Essere partigiani oggi, penso sia vivere senza accontentarsi del proprio benessere e di quello della propria famiglia.
Da adulti non siamo partigiani, protagonisti o partecipi se pensiamo che per garantire dignità e libertà a tutti basta votare ogni cinque anni e poi ci pensano i politici o amministratori.
Oggi, nel rispetto delle istituzioni democratiche frutto della lotta partigiana antifascista, essere adulti partigiani significa diventare attivi nella società civile, significa proporre nuove idee e dare, nel limite delle proprie possibilità, il proprio contributo. E' facile lamentarsi, criticare, esprimere odio sui social network, che non prevedono l'interazione personale, molto più faticoso e complesso darsi da fare per la comunità in cui si vive e confrontarsi di persona.
Essere partigiani da adulti e ragazzi vuol dire anche rispettare il proprio paese e il suo patrimonio e fare in modo che nessuno, neanche per scherzo, lo sporchi, lo rovini o lo distrugga. Gli edifici scolastici,  le  palestre, i parchi, il municipio, le piazze “sono di proprietà comunale” cioè sono di tutti noi cittadini che, pagando le tasse, contribuiamo alla loro costruzione, manutenzione e decoro.  Anche ai “beni comuni” in un paese democratico si deve portare rispetto.
Oggi, essere partigiani  significa ad ogni età, da bambini, da ragazzi, da adulti osservare chi ci vive accanto in famiglia, a scuola, in casa, nella nostra via, nel condominio, in paese e adoperarsi perché tutti abbiano la possibilità di vivere con dignità e libertà la propria vita di uomo o di donna così come previsto dall'articolo 3 della nostra costituzione italiana che enuncia: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Nella Resistenza antifascista della prima metà del XX secolo si trovano  le radici della costruzione di un'Italia libera e democratica.  Noi, partigiani di oggi, con il rispetto e la partecipazione dobbiamo continuare a far crescere florido l'albero della democrazia.
Auguro a tutti noi la forza ed il desiderio di vivere così nel nostro amato paese.
Grazie di nuovo a tutti voi per la presenza, per l'impegno e per aver voluto celebrare insieme questa ricorrenza.
Viva il 25 aprile, viva la R
Incredibile come all'alba del 25 aprile 2018 un Comune vada a ricordare la Liberazione rincorrendo uno degli episodi –che col paese non c'entra nemmeno-  meno veri e probanti di quella storia dimenticando la “sua” gente. I suoi concittadini che della lotta i liberazione ne furono davvero partecipi. Rischiarono davvero la vita. Durante il fascismo Curno e Mozzo vennero riuniti in un'unica entità amministrativa che le popolazioni non sopportarono. Il tragico e idiota episodio  di villa Masnada ad opera di una  compagnia di partigiani delle Fiamme Verdi organizzate e comandate da Antonio Milesi  curato di Almè appartiene alla storia di Curno perché il fascismo ci aveva incollati assieme Curno e Mozzo ma fu un episodio del tutto scollegato dalla nostra gente. Basta leggere il recente volume di Barbara Curtarelli “Ho fatto il prete”: il clero di Bergamo durante l'occupazione tedesca” per comprendere in che mani fosse la brigata di Fiamme Verdi condotta all'assalto  di villa Masnada.
La memoria  della Liberazione di Curno viaggia oggi soprattutto attorno agli interessi delle attuali cantine Masnada piuttosto che seguendo e onorando chi quella storia la fece davvero.
Chissà perché (oddio! Lo si comprende benissimo!) la giunta Serra prima ed anche la giunta Gamba hanno dimenticato quelli CHI furono i partigiani di quel paesino che era Curno negli anni del fascismo. Memoria già abilmente distrutta da mezzo secolo di democrazia cristiana sostanzialmente erede del fascismo.
Addirittura  la giunta Serra arrivò a premiare come benemerito un concittadino il quale… l'otto settembre '43 anziché unirsi ai partigiani scelse di tornare in paese e nascondersi  nel fienile della morosa. Unendo i piaceri dell'alcova con una discreta comodità.  Invece non hanno mai ricordato il compagno Sala originario di Mapello e qui arrivato per via di un matrimonio. Un omone piuttosto semplice e grezzo ma dalle idee abbastanza nette: comunista. Fondatore della sezione comunista locale.  L'unico iscritto al partito. Non hanno mai ricordato il soldato Gamba (era commilitone nella stessa caserma di Piacenza di quello che l'8 settembre scappò… dalla morosa). Gamba venne ucciso in un rastrellamento a Pegorara sull'Appennino piacentino. Hanno dimenticato il garibaldino Gianni Artifoni (G. Artifoni, Memorie della Resistenza, Corponove, Bergamo, 2015). Ma che salvò –per intervento del curato Frizzi- nel maggio 1945 un gruppetto di otto concittadini dalla fucilazione che avevano assaltato l'edificio comunale rubando materiale elettrico e meccanico (che essendo dell'esercito disciolto apparteneva alla futura repubblica). Uno di quei ladroni divenne un importante artigiano del paese: proprio partendo da quella refurtiva mai riconsegnata.  Hanno dimenticato il curato Mario Frizzi  classe 1911 “uno che ascoltava sfrontatamente nello studio, che aveva le finestre sul sagrato, Radio Londra con alcuni noti antifascisti locali; che si sospettava aiutasse i partigiani di Gl e si era rifiutato anche di presenziare al trasporto funebre di un soldato repubblicano”. Hanno dimenticato anche quel tremendo omino senza coraggio e fortemente fascista che  era il prevosto don Tullio Buelli (del quale si ricorda anche gli una notte gli… inchiodarono il portone della chiesa con due “assi messi in croce” : chissà perché…) . Poi c'erano altri curnesi meno esposti come l'Ambrosini e il Corti, operai della Fervet. Un fratello Ubiali dei mastri carrai.
Ma in quegli anni accaddero in paese anche due episodi tipici del periodo. Due grandi proprietà agrarie “passarono di mano” dal fascisti proprietari al momento ad altra gente per evitare una temuta confisca per mani del ministro… Togliatti.
Non si tratta quindi di costruire un altarino  domestico curnese attorno al quale ritrovarsi il 25 aprile piuttosto che davanti all'attuale monumento dei caduti (i cui nomi sono stati cancellati dai democristiani della giunta Lodetti e poi dai comunisti della giunta Morelli) ma si tratta di semplice onestà e rispetto della memoria.

Leggendo il discorso della sindaca Gamba e vedendo che per la seconda volta il comune mette in piedi la sceneggiata illustrata nella locandina, vediamo una “memoria commercializzata” e come  tutto il commerciale non conta la verità e l'appartenenza ma conta l'immagine e la convenienza. Certo fa impressione che una consigliera delegata alla cultura, suo nonno socialista e suo padre prima pduppino e poi piddino, NON sappia nemmeno una virgola della storia della Resistenza del suo paese e vada a raccattare ambigui pezzi fuori paese. Anche questo va annoverato tra i pessimi frutti della scuola italiana. Il discorso della sindaca Gamba ci ricorda la corazzata Potemkin rispetto al tema. Il richiamo domestico e professorale alla buona educazione ed al civismo suona  all'alba del 2018 come  il seppellimento, la cancellazione, l'indebolimento di un'idea che ci ha mantenuto liberi per settant'anni. Altro che rispettare i lampioni le aiuole. Che cacchio significa: “essere partigiani oggi, penso sia vivere senza accontentarsi del proprio benessere e di quello della propria famiglia”.  Boh.e e di quello della propria famiglia”.  Boh.
Dare la colpa del disastro al popolo per come ha votato non ha logica. Il mea culpa lo devono fare i grandi giornali che per vent'anni hanno lisciato la bestia. Il ruolo della stampa riformista indicato da Sergio Fabbrini e le parole vere di Paolo Mieli

Viene la stagione delle tasse da pagare, e inizia a ronzare nella testa, tarlo di prima­vera, anche il Grillo parlante che pensavamo di aver schiacciato sul muro: stai attento, che se sbagli poi ti tocca fare il Ravvedimento Opero­so. Odioso come la medicina di Pinocchio, ma indispensabile per guarire, rimettere le cose in piedi e la testa a posto. Parliamo dell'Italia, e del ravvedimento operoso che qualche pezzo del suo sistema informativo bacato sta (forse) iniziando a considerare. Perché molto del disa­stro populista alligna lì. Ma dar tutta la colpa al popolo, è illogico. Dare la colpa alle élite in fu­ga da se stesse è già meglio, ma non basta. L'esa­me di coscienza lo deve fare la grande informa­zione. Che dovrebbe essere, anche, il canale di comunicazione tra élite e cittadini. E invece ha passato vent'anni a lisciare il pelo della bestia per il suo verso, senza comunicare un bel nien­te, se non l'eco confusa che veniva dal basso.
Domenica scorsa, sul Sole 24 Ore, il polito­logo Sergio Fabbrini ha spiegato che lo stallo post 4 marzo è dovuto “al fallimento di una precisa strategia politica. Ovvero all'idea che basta cambiare i politici per cambiare la po­litica”. E che “si sarebbe dovuto prevenire quello stallo attraverso una riforma elettora­le in grado di dare vita, con il doppio turno, ad una maggioranza elettorale”. (Tra parentesi, il giorno dopo la stessa cosa ha scritto Lucia­no Fontana, direttore del Corriere della Sera: “Penso che una legge elettorale a doppio tur­no sia davvero il sistema migliore per il no­stro paese”). Non è avvenuto, ma il ravvedi­mento operoso che Fabbrini indica non è una nuova legge, bensì una presa di coscienza più ampia. Le riforme hanno perso perché “la strategia dell'anti-Casta è stata formidabil­mente promossa da giornalisti e opinionisti dei principali quotidiani nazionali e reti tele­visive”. Solo che in Italia la battaglia contro la Casta, iniziata da due giornalisti bestseller del Corriere, è divenuta, secondo Fabbrini “la strategia intorno a cui si è aggregata una pluralità di interessi... ha consentito di incre­mentare le vendite dei quotidiani, di alzare gli indici di ascolto delle trasmissioni televi­sive, di soddisfare il narcisismo di accademi­ci o esponenti dell'establishment”. Di contro, è completamente mancato il ruolo propositi­vo, di idee, della stampa. Le riforme politiche complesse, spiega il politologo, hanno biso­gno di essere preparate con una adeguata for­mazione dell'opinione pubblica in cui “le éli­te (politiche e d'opinione) riconoscono un in­teresse nazionale e si impegnano per costrui­re il consenso su di esso tra i cittadini”. In Italia politici e informazione hanno toppato, puntando su un “modello alternativo di for­mazione delle opinioni dal basso (il bubble up model)". Tradotto per i semplici: la politi­ca ha inseguito temi populisti, gonfiati ad ar­te dai giornali. Così si è aperto il precipizio, ma da lì dovrebbe cominciare anche il ravve­dimento. La scorsa settimana, durante la pre­sentazione a Roma del libro di Alessandro Barbano “Troppi diritti. L'Italia tradita dalla libertà”, Paolo Mieli ha detto in proposito al­cune cose importanti, che non sono state colte col dovuto rilievo, sulla responsabilità dei giornali, “compresi quelli da me diretti in questa fase lunga che dura ormai da 25-30 an­ni”. Il mancato ruolo di riflessione e guida. “Le responsabilità sono enormi - ha detto - e sono a) di non aver capito per tempo b)di aver pensato che alcuni fenomeni si potessero as­secondare perché tanto poi...”. Si è fatto “grosso modo lo stesso errore che fecero le classi dirigenti nel 1922-1925. Pensavamo ma sì, lasciamo che la società civile si esprima, e poi ci penseremo noi che siamo forti, potenti, e con le idee chiare a ricondurre questi movi­menti alla ragione. Neanche per sogno”. E' l'ora del ravvedimento operoso.

Maurizio Crippa / Il Foglio